di Curzio Maltese
Com'erano giovani i padri della patria. Sobri e affascinanti, moralisti e sensuali, poveri e generosi. Com'erano in fondo anti italiani gli uomini che hanno fatto l'Italia. Si esce dalle seicento pagine de I Traditori di Giancarlo De Cataldo, il suo ultimo romanzo che esce adesso per Einaudi Stile Libero (così come dalle tre ore e mezza del magnifico film fratello del libro, Noi credevamo scritto con Mario Martone), con l'eccitazione di una scoperta e la voglia di saperne ancora. I misteri e le trame, gli eterni problemi mai risolti, gli stessi caratteri immutabili della nostra vita pubblica, erano tutti già presenti nel romanzo del Risorgimento. In quella storia che a scuola ci hanno fatto odiare e riporre in un cassetto. Bastava riprenderli, quegli eroi dimenticati o pietrificati nei busti del Pincio, i Mazzini e i Garibaldi, i Pisacane e i Cavour, i piccoli cospiratori morti a vent'anni in ogni angolo d'Italia e i mafiosi sopravvissuti a tutto, le nobildonne pasionarie e le puttane infermiere della Repubblica Romana, gettarli tutti nella mischia di una storia gravida di passioni, così come avevano vissuto, perché tornassero a parlarci del qui e dell'oggi. Di un paese per sempre diviso che sta per celebrare i 150 anni dell'Unità d'Italia. Prima d'ogni altra cosa, le celebrazioni e le polemiche storiche, quello che colpisce nel suo romanzo, De Cataldo, è la riscoperta quasi fisica degli eroi del Risorgimento, a partire dall'età. Erano ragazzi. «È stata anche la mia prima scoperta, quando mi sono messo a ristudiare, ma in realtà a scoprire il Risorgimento. Mi sono innamorato del Risorgimento perché è una storia di ragazzi, di avventura e passioni. Mazzini ha cominciato a sedici anni, Garibaldi a venti, Pisacane era poco più grande. Cavour, che passa per il grande vecchio del Risorgimento, morì ad appena cinquant'anni. Stroncato, si disse, dalla fatica dell'impresa. E forse anche dalle troppe imprese sessuali. Erano quasi adolescenti i trecento di Sapri e i mille garibaldini, studenti e contadini. Il Risorgimento è anche una rivolta generazionale di giovani oppressi da una plumbea gerontocrazia, una storia di giovani contro vecchi. Del resto, una delle grandi fonti d'ispirazione è stato I vecchi e i giovani, forse il più bel romanzo di Pirandello».
Ogni volta che si sfiora il Risorgimento si finisce nel girone degli eretici. È capitato a Pirandello e a De Roberto e Tomasi di Lampedusa, a grandi storici come Denis Mack Smith o Fabio Cusin, a registi come Visconti e Florestano Vancini. Martone ha subito un processo dopo Venezia, con l'accusa di aver confuso Mazzini con Bin Laden. Ora diranno che I traditori è il romanzo criminale della nascita dell'Italia? «Magari. In fondo mi sono trovato ad affrontare lo stesso problema. Quando ho incrociato, per il lavoro di magistrato, la storia della banda della Magliana, mi sono detto: ma possibile che su una vicenda così non si riesca a costruire un'epica? Gli americani ci avrebbe campato per decenni. Il Risorgimento, riletto attraverso i documenti storici, i diari di protagonisti e testimoni, le lettere, i giornali dell' epoca, è un romanzo grandioso, epico, travolgente. Con molti lati oscuri, certo. Mazzini non era Bin Laden. Questo non toglie che nei suoi discorsi per convincere dei ragazzi al martirio si colgano echi inquietanti».
Ma si può fare un parallelo fra i metodi di Mazzini e il terrorismo dei tempi nostri? «Mazzini non fu mai un terrorista. Era un tirannicida. Il terrorismo indiscriminato, volto a seminare paura, gli era profondamente estraneo. È sempre stato, al contrario, uno strumento del potere. Nell'attentato bombarolo di Orsini a Napoleone III, che non uccise il tiranno ma provocò otto morti e centoquaranta feriti, Mazzini non c'entra nulla. Si sospetta invece che c'entrasse molto il futuro presidente del consiglio Francesco Crispi e si sa che Cavour diede soldi a Orsini e al suo gruppo».
Il vero aspetto criminale nel Risorgimento è un altro ed è un filo rosso che ritorna in tutte le svolte della storia d'Italia, dallo sbarco dei Mille a quello degli americani, dalla svolta autoritaria di Crispi al fascismo, dalle bombe di Portella a quelle che segnano la fine della prima repubblica e l'inizio della seconda. È il ruolo della mafia. «Le mafie. Qui ci sono tutte. 'Ndrangheta, mafia, camorra. Stanno sempre con chi vincerà e lo capiscono prima. È il patto fondante di ogni potere. Il Sud e la Sicilia in particolare sono il laboratorio del compromesso, ieri come oggi e, temo, domani». Sullo sfondo, una disunità che viene da lontano, siamo l'unico paese d'Europa incapace di ridurre lo squilibrio all'interno. A parte Cecoslovacchia e Jugoslavia, che infatti non esistono più. Nord e Sud rimangono da noi due entità estranee, che non si capiscono. «Ed è un'incomprensione che precipita nella ferocia delle repressioni disumane dei piemontesi dopo l'unità, nella barbarie dello sterminio con l'alibi della lotta al brigantaggio. Ma questo non significa che il Sud campasse meglio sotto i Borboni. Una certa retorica meridionalista è speculare al Roma ladrona della Lega».
Le due grandi utopie fallite, la Repubblica Romana del '48 e la missione di Carlo Pisacane, impediscono che la nuova nazione nasca laica e libertaria? «Il '48 a Roma è una vera rivoluzione, la cacciata del papa, l' adesione del popolo, una costituzione modernissima, con la concessione del voto alle donne un secolo prima. Tanto radicale da spaventare l'Europa e il nipote di Napoleone che paradossalmente restaura il papato. La delusione sarà terribile per i repubblicani, fino al punto da stroncare i rapporti personali. Garibaldi e Mazzini non si parleranno per dieci anni».
Perché la spedizione di Pisacane fallisce e quella di Garibaldi trionfa? «La ragione più vera, fra tante, è anche la più banale. Per Pisacane e Garibaldi. Pisacane è una figura straordinaria, il primo socialista italiano, intellettuale profondo e militare eccelso, ma è un perdente. Garibaldi è un generale immenso, ma anche fortunato».
Nel romanzo il confine fra successo e fallimento è spesso ambiguo, così come si confondono le figure di eroi e traditori, il tema di Borges. «Borges scrive delle lotte per l'indipendenza irlandese, ma è come se si fosse ispirato al Risorgimento, pieno di eroi che si rivelano traditori e di traditori eroici».
A leggere il romanzo, a guardare il film di Martone, si esce con l'idea che quello che è mancato agli italiani per sentirsi un popolo, sia stato fin dal principio un racconto sincero, anti retorico, della nascita della nazione. «La censura è arrivata subito e ha ucciso ogni sentimento, l'ha reso ridicolo o vergognoso. Per la mia generazione parlare di patria puzzava di fascismo. Poi è arrivata la Lega, in un certo senso per fortuna. Perché a furia di sentire quell'altra retorica è venuta la voglia di riscoprire le radici. Oggi sono uno che va alle manifestazioni con un simbolo tricolore sul petto, uno che soffre a vedere il sole padano nelle scuole del Nord. La nostra storia è ricca di italiani meravigliosi, anticonformisti, con il coraggio di ricominciare dopo ogni tragedia, guardando al futuro».
Ogni volta che si sfiora il Risorgimento si finisce nel girone degli eretici. È capitato a Pirandello e a De Roberto e Tomasi di Lampedusa, a grandi storici come Denis Mack Smith o Fabio Cusin, a registi come Visconti e Florestano Vancini. Martone ha subito un processo dopo Venezia, con l'accusa di aver confuso Mazzini con Bin Laden. Ora diranno che I traditori è il romanzo criminale della nascita dell'Italia? «Magari. In fondo mi sono trovato ad affrontare lo stesso problema. Quando ho incrociato, per il lavoro di magistrato, la storia della banda della Magliana, mi sono detto: ma possibile che su una vicenda così non si riesca a costruire un'epica? Gli americani ci avrebbe campato per decenni. Il Risorgimento, riletto attraverso i documenti storici, i diari di protagonisti e testimoni, le lettere, i giornali dell' epoca, è un romanzo grandioso, epico, travolgente. Con molti lati oscuri, certo. Mazzini non era Bin Laden. Questo non toglie che nei suoi discorsi per convincere dei ragazzi al martirio si colgano echi inquietanti».
Ma si può fare un parallelo fra i metodi di Mazzini e il terrorismo dei tempi nostri? «Mazzini non fu mai un terrorista. Era un tirannicida. Il terrorismo indiscriminato, volto a seminare paura, gli era profondamente estraneo. È sempre stato, al contrario, uno strumento del potere. Nell'attentato bombarolo di Orsini a Napoleone III, che non uccise il tiranno ma provocò otto morti e centoquaranta feriti, Mazzini non c'entra nulla. Si sospetta invece che c'entrasse molto il futuro presidente del consiglio Francesco Crispi e si sa che Cavour diede soldi a Orsini e al suo gruppo».
Il vero aspetto criminale nel Risorgimento è un altro ed è un filo rosso che ritorna in tutte le svolte della storia d'Italia, dallo sbarco dei Mille a quello degli americani, dalla svolta autoritaria di Crispi al fascismo, dalle bombe di Portella a quelle che segnano la fine della prima repubblica e l'inizio della seconda. È il ruolo della mafia. «Le mafie. Qui ci sono tutte. 'Ndrangheta, mafia, camorra. Stanno sempre con chi vincerà e lo capiscono prima. È il patto fondante di ogni potere. Il Sud e la Sicilia in particolare sono il laboratorio del compromesso, ieri come oggi e, temo, domani». Sullo sfondo, una disunità che viene da lontano, siamo l'unico paese d'Europa incapace di ridurre lo squilibrio all'interno. A parte Cecoslovacchia e Jugoslavia, che infatti non esistono più. Nord e Sud rimangono da noi due entità estranee, che non si capiscono. «Ed è un'incomprensione che precipita nella ferocia delle repressioni disumane dei piemontesi dopo l'unità, nella barbarie dello sterminio con l'alibi della lotta al brigantaggio. Ma questo non significa che il Sud campasse meglio sotto i Borboni. Una certa retorica meridionalista è speculare al Roma ladrona della Lega».
Le due grandi utopie fallite, la Repubblica Romana del '48 e la missione di Carlo Pisacane, impediscono che la nuova nazione nasca laica e libertaria? «Il '48 a Roma è una vera rivoluzione, la cacciata del papa, l' adesione del popolo, una costituzione modernissima, con la concessione del voto alle donne un secolo prima. Tanto radicale da spaventare l'Europa e il nipote di Napoleone che paradossalmente restaura il papato. La delusione sarà terribile per i repubblicani, fino al punto da stroncare i rapporti personali. Garibaldi e Mazzini non si parleranno per dieci anni».
Perché la spedizione di Pisacane fallisce e quella di Garibaldi trionfa? «La ragione più vera, fra tante, è anche la più banale. Per Pisacane e Garibaldi. Pisacane è una figura straordinaria, il primo socialista italiano, intellettuale profondo e militare eccelso, ma è un perdente. Garibaldi è un generale immenso, ma anche fortunato».
Nel romanzo il confine fra successo e fallimento è spesso ambiguo, così come si confondono le figure di eroi e traditori, il tema di Borges. «Borges scrive delle lotte per l'indipendenza irlandese, ma è come se si fosse ispirato al Risorgimento, pieno di eroi che si rivelano traditori e di traditori eroici».
A leggere il romanzo, a guardare il film di Martone, si esce con l'idea che quello che è mancato agli italiani per sentirsi un popolo, sia stato fin dal principio un racconto sincero, anti retorico, della nascita della nazione. «La censura è arrivata subito e ha ucciso ogni sentimento, l'ha reso ridicolo o vergognoso. Per la mia generazione parlare di patria puzzava di fascismo. Poi è arrivata la Lega, in un certo senso per fortuna. Perché a furia di sentire quell'altra retorica è venuta la voglia di riscoprire le radici. Oggi sono uno che va alle manifestazioni con un simbolo tricolore sul petto, uno che soffre a vedere il sole padano nelle scuole del Nord. La nostra storia è ricca di italiani meravigliosi, anticonformisti, con il coraggio di ricominciare dopo ogni tragedia, guardando al futuro».
«La Repubblica» del 7 ottobre 2010
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