di Alfonso Berardinelli
Che cosa sappiamo e pensiamo, ormai, della poesia italiana del Novecento? L’argomento non sembra suscitare interesse. I dibattiti, le polemiche, gli scontri degli anni Sessanta e Settanta appartengono a un’epoca remota. Oggi sarebbero inimmaginabili. Sperimentalismo, avanguardia, impegno, formalismo sono termini fuori corso. La lingua degli ideologi di allora (Fortini, Pasolini, Sanguineti) è quasi intraducibile. Nelle università sulla poesia non si fanno corsi, non si danno tesi di laurea: quando avviene, si tratta di eccezioni. È perfino raro che si organizzi un convegno sulla poesia contemporanea.
Eppure qualcosa è avvenuto a Berlino per iniziativa di Angelo Bolaffi, che dirige l’istituto italiano di cultura e si è impegnato in questi anni a spiegare ai tedeschi il Novecento italiano. Così, alla fine, è arrivato il turno della poesia. A metà gennaio tre giorni di letture, conferenze, seminari sono stati dedicati alla nostra poesia dall’inizio del Novecento a oggi, con il coinvolgimento della Freie Universität e della Literaturwerkstatt. Partecipanti: Romano Luperini, Patrizia Cavalli, Giulio Ferroni, Antonella Anedda, Roberto Galaverni, Anna Maria Carpi, Patrizia Valduga, io stesso. Il laboratorio di traduzione è stato condotto da Theresia Prammer, Camilla Miglio e Piero Salabè.
I risultati? La poesia dell’intero Novecento andrebbe riletta e anche sul presente non mancano i disaccordi. Dell’ermetismo non si parla più. Ungaretti vale soprattutto per il suo primo libro. Luzi diventa interessante se letto accanto ai suoi coetanei Sereni, Caproni, Bertolucci: che secondo alcuni superano i più giovani Pasolini e Zanzotto. Il primato di Montale e Saba resta indiscusso. Penna e Amelia Rosselli hanno influenzato più di ogni altro le giovani generazioni. Giovanni Giudici (vero erede di Gozzano e Saba) è quasi dimenticato. La neoavanguardia anni Sessanta è stata soprattutto una costruzione ideologica. Più che Marinetti (poeta-vate elettrizzato) i veri moderni sono stati Sbarbaro, Campana, Rebora. Quanto a me, ho definito il postmoderno «sperimentalismo neoclassico».
Eppure qualcosa è avvenuto a Berlino per iniziativa di Angelo Bolaffi, che dirige l’istituto italiano di cultura e si è impegnato in questi anni a spiegare ai tedeschi il Novecento italiano. Così, alla fine, è arrivato il turno della poesia. A metà gennaio tre giorni di letture, conferenze, seminari sono stati dedicati alla nostra poesia dall’inizio del Novecento a oggi, con il coinvolgimento della Freie Universität e della Literaturwerkstatt. Partecipanti: Romano Luperini, Patrizia Cavalli, Giulio Ferroni, Antonella Anedda, Roberto Galaverni, Anna Maria Carpi, Patrizia Valduga, io stesso. Il laboratorio di traduzione è stato condotto da Theresia Prammer, Camilla Miglio e Piero Salabè.
I risultati? La poesia dell’intero Novecento andrebbe riletta e anche sul presente non mancano i disaccordi. Dell’ermetismo non si parla più. Ungaretti vale soprattutto per il suo primo libro. Luzi diventa interessante se letto accanto ai suoi coetanei Sereni, Caproni, Bertolucci: che secondo alcuni superano i più giovani Pasolini e Zanzotto. Il primato di Montale e Saba resta indiscusso. Penna e Amelia Rosselli hanno influenzato più di ogni altro le giovani generazioni. Giovanni Giudici (vero erede di Gozzano e Saba) è quasi dimenticato. La neoavanguardia anni Sessanta è stata soprattutto una costruzione ideologica. Più che Marinetti (poeta-vate elettrizzato) i veri moderni sono stati Sbarbaro, Campana, Rebora. Quanto a me, ho definito il postmoderno «sperimentalismo neoclassico».
«Avvenire» del 22 gennaio 2011
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