Brano tratto da Controcorrente (A rebour), capitolo VII
di Joris-Karl Huysmans
I giardinieri scaricarono per prima una intera collezione di Caladium: da gambi turgidi e villosi, enormi foglie si schiudevano a forma di cuore. Sebbene la parentela fosse evidente, non una specie si ripeteva.
Ce n'erano di sbalorditivi: alcuni tiravano al rosa, come il Caladium virginale, che pareva ritagliato in tela verniciata, in taffetà inglese gommato; altri, interamente bianchi come l'Albana, che si sarebbe detto ricavato nella trasparenza d'una pleura bovina, nella vescica diafana d'un suino; alcuni, specialmente il Madama Mame, imitavano lo zinco, parodiavano scampoli di metallo stampato, tinti in verde imperatore, sporcati di sgocciolature di pittura a olio, di macchie di minio e di cerussa. Questi qui, ad esempio il Bosforo, davano l'illusione d'un calicò inamidato, a bottoncini in rilievo cremisi o verde mirto; quelli là, come l'Aurora boreale, ostentavano una foglia color carne cruda, percorsa di costole purpuree, di venuzze, violacee: una foglia tumefatta, trasudante sangue e cancarone.
Con l'Albana, l'Aurora, presentava i due poli opposti del temperamento della pianta: la Clorosi e l'Apoplessia.
Nuove varietà di Caladium vennero deposte a terra. Ostentavano, stavolta, una pelle artificiale, percorsa da false vene; e, per lo più, quasi lue e lebbra le rodesse, tendevano delle carni livide, marmorizzate di roseole, damascate di erpeti; altri mostravano la tinta viva delle cicatrici che si rimarginano o quella scura delle croste che si formano; altri erano coperti di bollicine, di cauterii, enfiate da scottature; altri ancora, presentavano epidermidi pelose, scavate da ulcere, sbalzate da carcinomi; certuni infine parevano coperti di medicazioni, spalmati di sugna nera mercuriale, d'unguento verde di belladonna; trafitti di bruscoli di polvere, di miche gialle di iodoformio.
Così adunati, quei fiori apparvero allo sguardo di Des Esseintes più mostruosi che non quando mescolati ad altri l'avevano sorpreso nella corsia a vetri delle serre.
“Accipicchio!” si disse entusiasmato.
Una nuova pianta, affine per la forma ai Caladium, l'Alocasia metallica, accrebbe ancora quell'entusiasmo. Questa qui, era spalmata d'uno strato verde bronzo e vi giocavano sopra riflessi d'argento. Era il capolavoro del fittizio; l'avresti presa per un tubo di stufa che il capriccio dell'artigiano avesse foggiato a ferro di picca.
Vennero quindi posti a terra ciuffi di foglie a losanga, verdebottiglia. Dal centro sorgeva una verghetta e vi tremolava in cima un grande asso di cuori verniciato come un peperone; come a beffarsi di tutti gli aspetti noti di piante, proprio d'in cima al cuore, d'un intenso cinabro, scaturiva una coda carnosa, cotonosa, bianco-gialla, a volte diritta a volte a cavatappi come un codino di maiale.
Era l'Anthurium, un'aroidea da poco importata dalla Columbia.
D'un assortimento di questa famiglia, faceva parte anche un Amorphophallus: pianta della Cocincina con foglie a spartipesce e lunghi gambi neri coperti di cicatrici, simili a membri deteriorati di negri.
Des Esseintes esultava.
Una nuova serie di mostri veniva intanto sfornata: delle Echinopsis che da piumaccioli di bambagia esprimevano fiori d'un rosa ignobile di moncherino; dei Nidularium che, tra lame di sciabola, lasciavano vedere budella squarciate e scorticate; delle Tillandsia Lindeni che cavavan fuori raschietti tutti denti, color mosto; dei Cypripedium, dalla forma complicata, incoerente, uscita dal cervello d'un progettista in un momento di pazzia.
Somigliavano ad uno zoccolo, ad una borsa per vuotarvi le tasche, al disopra della quale si rovesciasse indietro una lingua umana col frenulo stirato come se ne vedono nelle tavole che illustrano i trattati di malattie della gola e della bocca. Due piccole alette, tolte in prestito, si sarebbe detto, a un mulino per ragazzi, completavano quell'insieme barocco d'un disotto di lingua, color feccia di vino e ardesia, e d'una taschetta che trasudava dalla fodera una colla attaccaticcia.
Des Esseintes non riusciva a staccare gli occhi da questa orchidea oriunda dell'India.
I giardinieri, tediati da quegli indugi, presero ad annunciare essi stessi ad alta voce, via via che recavano i vasi, i nomi che leggevano sulle etichette.
Al suono dei nomi ostrogoti, Des Esseintes si volgeva sconcertato. Ecco l'Encephalartos horridus, un colossale carciofo di ferro arruginito come se ne vedono, destinati ad impedire le scalate, alla porta di castelli; il Cocos Micania, specie di palma gracile, finemente dentata, presa dentro un alto ciuffo di foglie fatte a pala doppia e semplice di remo; la Zamia Lehmanni, un prodigioso pan di cacio di Chester, confitto in terra d'erica, sormontato da un fascio di giavellotti dentati, di frecce da pellirosse; il Cibotium spectabile che batteva tutti i suoi colleghi per la pazza struttura, sfidava ogni fantasia lanciando di tra il fogliame palmato una enorme coda di orangotano, una scura coda villosa che s'incurvava in cima a mo' di pastorale di vescovo.
Ma Des Esseintes dava loro un'occhiata e via. Impaziente aspettava la comparsa delle piante che più di tutte lo calamitavano: i vampiri vegetali, le piante carnivore; il Pigliamosche delle Antille dal lembo di felpa secernente una specie di succo gastrico, armato d'uncini che si ripiegavano uno sull'altro ad imprigionare l'insetto in un graticcio; la Drosera delle torbiere, manina sanguinaria irta di villi glandulosi; le Sarracene, i Cephalotus che spalancavano piccoli voraci imbuti capaci di smaltire e d'assimilarsi della carne vera e propria; infine i Nepenti d'una capricciosità di forma che sorpassa tutto ciò che di eccentrico si conosce nel mondo vegetale.
Des Esseintes volgeva e rivolgeva in mano il vaso in cui s'agitava questa stravaganza vegetale, né si saziava d'ammirarla.
Pareva fatta di gomma elastica. Di caucciù, aveva la lunga foglia allungata d'un cupo verde metallico; ma in vetta a questa foglia penzolava una lenza verde, scendeva un cordone ombelicale cui era appesa un'urna verdastra, screziata di viola, una specie di pipa tirolese di porcellana, un imprevedibile nido d'uccello che oscillava placido, lasciando scorgere un interno tappezzato di peluria.
“Oh questa, poi!” mormorò Des Esseintes.
Lo strapparono al suo giubilo i giardinieri che, impazienti d'andarsene vuotavano di quel che restava le carrette, scaricandone alla rinfusa Begonie tuberose e neri Croton di lamiera, picchiettati di minio.
Non restava che un nome sulla lista. Dov'era la Cattleya della Nuova Granata?
Gli indicarono una campanula alata, d'un lilla stinto, d'un malva quasi spento. S'accostò ad annusarla e subito, ributtato, indietreggiò. Ne usciva un odore d'abete verniciato, di scatola da giocattoli, che evocava la tristezza massacrante di un capodanno.
Meglio diffidarne, di quella pianta. Si rammaricò quasi d'averla accolta fra le piante inodore che possedeva, quell'orchidea, che col suo alito resuscitava i più spiacevoli ricordi!
Una volta, abbracciò con lo sguardo la marea di vegetali di cui il vestibolo traboccava. Mescolati come vien viene, incrocicchiavano spade, corti pugnali, ferri di lance. Era, visto nell'insieme, un esercito di verde irto d'armi, sul quale ondeggiavano, a mo' di gagliardetti barbarici, fiori dalle tinte crude ed accecanti.
L'aria si rarefaceva; ed ecco sorger laggiù, dall'oscurità d'un cantuccio, strisciar raso terra, una luce d'un biancor sommesso. S'avvicinò; e vide ch'erano le Rizomorfe a spandere, respirando, quel chiaror velato di lampada da veglia.
“Chi direbbe che si tratta di piante stupefacenti?” pensò.
Si trasse da parte e giudicò d'un occhiata il complesso dei suoi acquisti.
I suoi voti erano esauditi.
Non una pianta pareva reale; si sarebbe detto che l'uomo avesse imprestato alla natura, per metterla in grado di foggiare quei mostri, la stoffa la carta la porcellana il metallo; e che quando la natura non ce l'aveva fatta ad imitare questi prodotti dell'uomo, si fosse vista costretta a ricopiare le membrane interne degli animali, a plagiare le tinte accese delle loro carni marcescenti, la magnifica laidezza delle loro cancrene.
“Tutto non è che lue” concluse Des Esseintes non riuscendo a staccar l'occhio dalle raccapriccianti tigrature dei Caladium, messe in evidenza da un raggio di luce.
Ed ebbe l'improvvisa visione d'una umanità senza tregua travagliata dall'antichissimo virus.
Dall'inizio del mondo, di padre in figlio, tutti gli esseri viventi si trasmettono l'inconsumabile eredità; l'eterno morbo che saccheggiò gli antenati dell'uomo, che scavò sin le ossa ora esumate degli antichi fossili.
La lue aveva percorso i secoli senza mai esaurirsi. Ancor oggi infieriva ammantandosi di sofferenze sornione, annidandosi sotto sintomi d'emicranie, di nevrosi e di gotte; ogni tanto aggallava attaccandosi di preferenza ad individui malnutriti, malcurati; scoppiando fuori in monete di oro, parando per ironia d'una collana di zecchini falsi la fronte dei poveri diavoli, stampando sulla loro pelle, per colmo di disdetta, l'insegna del danaro e del benessere.
Ed ora eccola lì che ricompariva, in tutto lo splendore primitivo, sul fogliame colorato di quelle piante!
“Bisogna però dire,” seguitò Des Esseintes tornando al punto di partenza del suo ragionamento, “bisogna però dire che nella maggior parte dei casi la natura è inetta per conto suo a procreare da sola specie così morbose e perverse. Essa non ci mette che la materia prima, il seme ed il terreno, la matrice insomma e gli ingredienti. È l'uomo che alleva la pianta, che la foggia, la colora, la scolpisce a modo suo. Per cocciuta, pasticciona e di corta vista ch'essa sia, la Natura s'è alla fine sottomessa; e il suo padrone è riuscito a trasformare con mezzi chimici i terreni, a servirsi di combinazioni, d'incroci preparati di lunga mano, a valersi di sapienti talee, di metodici innesti; ed ora le fa buttare dallo stesso ramo fiori di color diverso, escogita per lei nuove tinte, modifica a piacer suo la forma fissata da secoli delle sue piante, lavora ciò ch'essa ha appena digrossato, porta a compimento i suoi abbozzi, li segna del suo stampo, v'imprime il sigillo dell'arte.
“Non si può negare,” si disse Des Esseintes a mo' di conclusione. “Nel giro di qualche anno l'uomo è in grado di produrre una selezione, a ottener la quale questa infingarda di natura impiegherebbe secoli. Non c'è dubbio: coi tempi che corrono i fioricultori restano i soli veri artisti.”
Avvertì una certa stanchezza; soffocava in quell'aria chiusa, assottigliata da tante piante. L'affaccendarsi di quei giorni l'aveva spossato; troppo repentinamente era passato da una vita sedentaria di recluso al moto e all'aria libera.
Si tolse di là e andò a sdraiarsi sul letto. Ma ormai l'avvio era dato e la fantasia anche nel sonno seguitò a dipanare la sua matassa e passò poco che rotolò in un cupo e sconnesso incubo.
Postato l'8 gennaio 2011
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