brano tratto dal capitolo IV di Controcorrente (1884)
Un giorno verso sera una vettura si fermò davanti alla casa di Fontenay.
Siccome Des Esseintes non riceveva visite, e il postino nel suo giro non si avventurava neanche in quei paraggi disabitati, non avendo né riviste né giornali né lettere da recapitare, i domestici esitarono ad aprire; e solo al perentorio squillare del campanello, s’arrischiarono a far giocare lo spioncino della porta e videro un tizio corazzato dal mento alla cintola da un immenso scudo d’oro.
Avvertirono il padrone di casa che stava facendo colazione.
“Benissimo: fate salire”. Ricordava infatti di aver dato il proprio indirizzo ad un lapidario per metterlo in grado di recapitargli un lavoro che gli aveva commissionato.
Introdotto, l’uomo salutò e depose sul pavimento lo scudo. Lo scudo oscillò, si sollevò un tantino; sporse di sott’esso il capo serpentino d’una testuggine che, spaurita, si ritrasse tosto nel suo guscio.
Era andata così. Qualche tempo prima di partire da Parigi, a Des Esseintes era venuto il ghiribizzo di possedere una tartaruga ed ecco come.
Un giorno che contemplava un tappeto orientale a riflessi e si faceva accarezzare gli occhi dai bagliori argentei che si propagavano per l’ordito giallo aladino e viola prugna della lana, s’era detto: - Su questo tappeto andrebbe bene qualche cosa di cupo che si movesse: la vivacità delle tinte se ne avvantaggerebbe.
Posseduto da questa idea, aveva vagato a caso per le vie; e giunto al Palais Royal, in vetrina da Chevet aveva visto ciò che faceva al caso suo: un’enorme testuggine che nuotava in una vasca.
A casa, aveva messo in libertà l’animale sul tappeto; e, seduto di contro, s’era indugiato a contemplarlo, strizzando l’occhio.
Ahimè: il marron scuro di quel guscio, la sua tonalità di terra di Siena cruda, sporcava, senza ravvivarli, i riflessi del tappeto; il lucore, che vi dominava, dell’argento scintillava adesso appena, arrampicandosi con toni freddi di zinco scalfito agli orli di quel coccio opaco e duro.
Così no. Come conciliare quel connubio? come ovviare al deciso divorzio di quei toni? Cercava.
Finalmente scoprì che la sua prima idea, d’attizzare la vivacità della stoffa col contrasto d’un oggetto scuro che vi tentennasse sopra, era errata; il tappeto era troppo vistoso, troppo petulante, troppo nuovo; i suoi colori non s’erano ancora smussati abbastanza, abbastanza attenuati.
Occorreva fare tutto il contrario: smorzar quei toni, spegnerli col contrasto d’un oggetto abbagliante che dominasse solo, riverberando sul pallore dell’argento riflessi d’oro.
Così impostato, il problema diveniva di più facile soluzione. Decise pertanto di rivestir d’oro la corazza della tartaruga.
Una volta che l’esperto, che l’aveva presa a pensione, l’ebbe riportata, la testuggine raggiò come un sole; sul tappeto che si arrese, sfolgorò, rutilante scudo visigoto, lavorato a squame embriciate da un artista barbarico.
Des Esseintes alla prima restò incantato dell’effetto. Poi s’avvide che il gigantesco gioiello era appena abbozzato; perché fosse perfetto, occorreva incastonarlo di gemme rare.
In una collezione di disegni giapponesi, uno ne scelse ove da un gambo da nulla si spiccava, a mo’ di razzo, uno sciame di fiori. Schizzò una cornice ovale che lo contenesse e si recò da un gioielliere; il quale trasecolò quando si sentì dire che ogni fiore, ogni petalo, ogni foglia andava eseguita in pietre preziose, incastrate nel guscio stesso dell’animale.
Le difficoltà cominciarono quando si trattò di scegliere le pietre. Diamanti? Ormai non c’è pizzicagnolo che non ne ostenti uno al mignolo.
Meno avviliti, lo smeraldo ed il rubino d’Oriente, che sprizza lampi d’un rosso brillante; senonché ricordavano troppo i fanaletti, verdi e rossi appunto, che certi omnibus recano ai lati. Quanto ai topazi, bruciati o crudi, sono pietre a buon mercato, care alla piccola borghesia che ci tiene a chiudere a chiave nell’armadio a specchi il suo bravo scrigno. D’altra parte, sebbene la Chiesa abbia conservato all’ametista un carattere sacerdotale, grave e untuoso insieme, il pararsene che ne fanno le macellaie, pur d’appendere senza troppa spesa alle orecchie color bistecca ed infilare ai salsicciotti delle dita gioie autentiche e che pesino, ha discreditato anche questa pietra.
Dalla stupidità dei commercianti e degli abbienti, solo lo zaffiro ha saputo serbare immacolato il suo fuoco. Il crepitare delle sue faville su un’acqua tersa e fredda, ha, chi sa come, preservato da ogni macchia la sua nobiltà discreta e altera. Ma purtroppo, alla luce artificiale il suo limpido fuoco non scoppietta più; l’acqua azzurra rientra in sé, pare cada in sonno, per risvegliarsi crepitando solo al primo accenno del giorno. No, nessuna di quelle pietre, d’altronde troppo civilizzate e troppo note, poteva accontentare Des Esseintes.
Si fece ruscellare tra le dita minerali più sorprendenti e più bizzarri; e finì per scegliere, tra vere e artificiali, una serie di pietre che, mescolate ad arte, non potevano a meno di creare un’armonia, fascinosa a un tempo e sconcertante.
Ecco come tradusse in gemme il mazzo di fiori. A formare le foglie vennero incastonate pietre d’un verde vivace e preciso: crisoberilli verde asparago, peridoti verde pera, olivelle verde oliva; e si staccarono da gambi di almadina e d’uvarovita d’un rosso violaceo pagliettato di pagliuzze d’uno splendore arido: lo splendore delle miche di tartaro che luccicano nell’interno delle botti.
Per i fiori più lontani dal gambo, più aerei, usò della cenere turchina; ma non già ricorrendo alla turchese d’oriente di cui si montano fermagli ed anelli e che, con la triviale perla e l’esoso corallo, fa la gioia del popolino.
Scelse esclusivamente turchesi d’occidente, pietre che sono, a dir vero, che una specie di avorio fossile impregnato di sostanze ramose ed il cui blu verdazzurro è ingorgato, opaco, solforoso; ingiallito, si direbbe, di bile.
Restavano ora da tradurre in gemme i fiori centrali del mazzo, i più vicini al gambo.
Ne incastonò i petali di minerali trasparenti, dai lucori vitrei e malaticci, dai riflessi agri e febbrosi. Compose quei fiori unicamente con occhi-di-gatto del Ceylon, con cimofani e zaffirine. Queste tre pietre sprizzano infatti scintillii misteriosi e perversi, con pena strappati dal fondo gelato della loro acqua torbida: l’occhio-di-gatto d’un grigio verdastro, striato di vene concentriche che parevano inquietarsi, spostarsi ad ogni variar di luce; il cimofano, dai marezzi azzurrini che si propagano sulla tinta lattiginosa che vi fluttua sotto; la zaffirina che, su un fondo cioccolato di un bruno sordo, accende fuochi di fosforo bluastri.
Il lapidario si notava il punto preciso ove ogni pietra andava incastrata.
“E per l’orlo del guscio?” chiese a Des Esseintes.
Per l’orlo, Des Esseintes aveva dapprima pensato a certi opali a certi idrofani; ma sebbene interessanti per l’indecisione del colore, per l’incertezza dei loro fuochi, queste pietre sono troppo insubordinate e infedeli. L’opale ha addirittura una sensibilità da reumatico: umidità e temperatura ne alterano lo splendore; l’idrofano poi, il nome lo dice, non arde che nell’acqua; quantomeno occorre umettarlo perché accenda la sua bragia grigia.
Si decise infine per minerali che verrebbero alternati: per il giacinto di Compostella, rosso acagiù; l’acquamarina, verde-glauca; il balascio, rosa aceto; il rubino di Sudermania, ardesia chiaro. Il loro tenue riflesso bastava a rischiarare la tetraggine del guscio e non toglieva spicco alla fioritura di gemme, ch’esso incorniciava d’una lieve ghirlanda di fuochi fatui.
Ora Des Esseintes poteva a suo agio guardarsi, rannicchiata in un angolo della stanza da pranzo la sua tartaruga, che in quell’ombra rutilava.
Si sentì felice, appagato: l’occhio s’inebriava in quel barbaglio di corolle in fiamma su un fondo d’oro. E poi, contro il solito, quel giorno si sentiva appetito e inzuppava crostini, spalmati d’un burro prelibato, in una chicchera di tè: perfetta miscela di Si-a-Fayuna, di Mo-yu-tann e di Khansky: tè gialli, che eccezionali carovane avevano importato in Russia dalla Cina.
Si centellinava il liquido aroma in maioliche cinesi, cui la leggerezza e la trasparenza meritava il nome di gusci d’ova; e come non ammetteva che quelle adorabili chicchere, così non si serviva di posate che non fossero d’argento dorato autentico; d’un dorato un po’ stinto come è quando già l’argento trapela un tantino sotto il liso della rivestitura e conferisce all’oro una tinta dolcemente antica: sfinitissima, morente.
Bevuto l’ultimo sorso e rientrato nello studio, vi fece portare la tartaruga che s’ostinava a non muoversi.
Certo, avvezza al trantran della sua esistenza, all'umile vita del suo povero guscio, non aveva potuto sopportare l'accecante lusso che le era stato imposto, il rutilante piviale di cui l’avevan vestita, le gemme di cui le avevano lastricato il dorso, a somiglianza d'un ciborio.
Siccome Des Esseintes non riceveva visite, e il postino nel suo giro non si avventurava neanche in quei paraggi disabitati, non avendo né riviste né giornali né lettere da recapitare, i domestici esitarono ad aprire; e solo al perentorio squillare del campanello, s’arrischiarono a far giocare lo spioncino della porta e videro un tizio corazzato dal mento alla cintola da un immenso scudo d’oro.
Avvertirono il padrone di casa che stava facendo colazione.
“Benissimo: fate salire”. Ricordava infatti di aver dato il proprio indirizzo ad un lapidario per metterlo in grado di recapitargli un lavoro che gli aveva commissionato.
Introdotto, l’uomo salutò e depose sul pavimento lo scudo. Lo scudo oscillò, si sollevò un tantino; sporse di sott’esso il capo serpentino d’una testuggine che, spaurita, si ritrasse tosto nel suo guscio.
Era andata così. Qualche tempo prima di partire da Parigi, a Des Esseintes era venuto il ghiribizzo di possedere una tartaruga ed ecco come.
Un giorno che contemplava un tappeto orientale a riflessi e si faceva accarezzare gli occhi dai bagliori argentei che si propagavano per l’ordito giallo aladino e viola prugna della lana, s’era detto: - Su questo tappeto andrebbe bene qualche cosa di cupo che si movesse: la vivacità delle tinte se ne avvantaggerebbe.
Posseduto da questa idea, aveva vagato a caso per le vie; e giunto al Palais Royal, in vetrina da Chevet aveva visto ciò che faceva al caso suo: un’enorme testuggine che nuotava in una vasca.
A casa, aveva messo in libertà l’animale sul tappeto; e, seduto di contro, s’era indugiato a contemplarlo, strizzando l’occhio.
Ahimè: il marron scuro di quel guscio, la sua tonalità di terra di Siena cruda, sporcava, senza ravvivarli, i riflessi del tappeto; il lucore, che vi dominava, dell’argento scintillava adesso appena, arrampicandosi con toni freddi di zinco scalfito agli orli di quel coccio opaco e duro.
Così no. Come conciliare quel connubio? come ovviare al deciso divorzio di quei toni? Cercava.
Finalmente scoprì che la sua prima idea, d’attizzare la vivacità della stoffa col contrasto d’un oggetto scuro che vi tentennasse sopra, era errata; il tappeto era troppo vistoso, troppo petulante, troppo nuovo; i suoi colori non s’erano ancora smussati abbastanza, abbastanza attenuati.
Occorreva fare tutto il contrario: smorzar quei toni, spegnerli col contrasto d’un oggetto abbagliante che dominasse solo, riverberando sul pallore dell’argento riflessi d’oro.
Così impostato, il problema diveniva di più facile soluzione. Decise pertanto di rivestir d’oro la corazza della tartaruga.
Una volta che l’esperto, che l’aveva presa a pensione, l’ebbe riportata, la testuggine raggiò come un sole; sul tappeto che si arrese, sfolgorò, rutilante scudo visigoto, lavorato a squame embriciate da un artista barbarico.
Des Esseintes alla prima restò incantato dell’effetto. Poi s’avvide che il gigantesco gioiello era appena abbozzato; perché fosse perfetto, occorreva incastonarlo di gemme rare.
In una collezione di disegni giapponesi, uno ne scelse ove da un gambo da nulla si spiccava, a mo’ di razzo, uno sciame di fiori. Schizzò una cornice ovale che lo contenesse e si recò da un gioielliere; il quale trasecolò quando si sentì dire che ogni fiore, ogni petalo, ogni foglia andava eseguita in pietre preziose, incastrate nel guscio stesso dell’animale.
Le difficoltà cominciarono quando si trattò di scegliere le pietre. Diamanti? Ormai non c’è pizzicagnolo che non ne ostenti uno al mignolo.
Meno avviliti, lo smeraldo ed il rubino d’Oriente, che sprizza lampi d’un rosso brillante; senonché ricordavano troppo i fanaletti, verdi e rossi appunto, che certi omnibus recano ai lati. Quanto ai topazi, bruciati o crudi, sono pietre a buon mercato, care alla piccola borghesia che ci tiene a chiudere a chiave nell’armadio a specchi il suo bravo scrigno. D’altra parte, sebbene la Chiesa abbia conservato all’ametista un carattere sacerdotale, grave e untuoso insieme, il pararsene che ne fanno le macellaie, pur d’appendere senza troppa spesa alle orecchie color bistecca ed infilare ai salsicciotti delle dita gioie autentiche e che pesino, ha discreditato anche questa pietra.
Dalla stupidità dei commercianti e degli abbienti, solo lo zaffiro ha saputo serbare immacolato il suo fuoco. Il crepitare delle sue faville su un’acqua tersa e fredda, ha, chi sa come, preservato da ogni macchia la sua nobiltà discreta e altera. Ma purtroppo, alla luce artificiale il suo limpido fuoco non scoppietta più; l’acqua azzurra rientra in sé, pare cada in sonno, per risvegliarsi crepitando solo al primo accenno del giorno. No, nessuna di quelle pietre, d’altronde troppo civilizzate e troppo note, poteva accontentare Des Esseintes.
Si fece ruscellare tra le dita minerali più sorprendenti e più bizzarri; e finì per scegliere, tra vere e artificiali, una serie di pietre che, mescolate ad arte, non potevano a meno di creare un’armonia, fascinosa a un tempo e sconcertante.
Ecco come tradusse in gemme il mazzo di fiori. A formare le foglie vennero incastonate pietre d’un verde vivace e preciso: crisoberilli verde asparago, peridoti verde pera, olivelle verde oliva; e si staccarono da gambi di almadina e d’uvarovita d’un rosso violaceo pagliettato di pagliuzze d’uno splendore arido: lo splendore delle miche di tartaro che luccicano nell’interno delle botti.
Per i fiori più lontani dal gambo, più aerei, usò della cenere turchina; ma non già ricorrendo alla turchese d’oriente di cui si montano fermagli ed anelli e che, con la triviale perla e l’esoso corallo, fa la gioia del popolino.
Scelse esclusivamente turchesi d’occidente, pietre che sono, a dir vero, che una specie di avorio fossile impregnato di sostanze ramose ed il cui blu verdazzurro è ingorgato, opaco, solforoso; ingiallito, si direbbe, di bile.
Restavano ora da tradurre in gemme i fiori centrali del mazzo, i più vicini al gambo.
Ne incastonò i petali di minerali trasparenti, dai lucori vitrei e malaticci, dai riflessi agri e febbrosi. Compose quei fiori unicamente con occhi-di-gatto del Ceylon, con cimofani e zaffirine. Queste tre pietre sprizzano infatti scintillii misteriosi e perversi, con pena strappati dal fondo gelato della loro acqua torbida: l’occhio-di-gatto d’un grigio verdastro, striato di vene concentriche che parevano inquietarsi, spostarsi ad ogni variar di luce; il cimofano, dai marezzi azzurrini che si propagano sulla tinta lattiginosa che vi fluttua sotto; la zaffirina che, su un fondo cioccolato di un bruno sordo, accende fuochi di fosforo bluastri.
Il lapidario si notava il punto preciso ove ogni pietra andava incastrata.
“E per l’orlo del guscio?” chiese a Des Esseintes.
Per l’orlo, Des Esseintes aveva dapprima pensato a certi opali a certi idrofani; ma sebbene interessanti per l’indecisione del colore, per l’incertezza dei loro fuochi, queste pietre sono troppo insubordinate e infedeli. L’opale ha addirittura una sensibilità da reumatico: umidità e temperatura ne alterano lo splendore; l’idrofano poi, il nome lo dice, non arde che nell’acqua; quantomeno occorre umettarlo perché accenda la sua bragia grigia.
Si decise infine per minerali che verrebbero alternati: per il giacinto di Compostella, rosso acagiù; l’acquamarina, verde-glauca; il balascio, rosa aceto; il rubino di Sudermania, ardesia chiaro. Il loro tenue riflesso bastava a rischiarare la tetraggine del guscio e non toglieva spicco alla fioritura di gemme, ch’esso incorniciava d’una lieve ghirlanda di fuochi fatui.
Ora Des Esseintes poteva a suo agio guardarsi, rannicchiata in un angolo della stanza da pranzo la sua tartaruga, che in quell’ombra rutilava.
Si sentì felice, appagato: l’occhio s’inebriava in quel barbaglio di corolle in fiamma su un fondo d’oro. E poi, contro il solito, quel giorno si sentiva appetito e inzuppava crostini, spalmati d’un burro prelibato, in una chicchera di tè: perfetta miscela di Si-a-Fayuna, di Mo-yu-tann e di Khansky: tè gialli, che eccezionali carovane avevano importato in Russia dalla Cina.
Si centellinava il liquido aroma in maioliche cinesi, cui la leggerezza e la trasparenza meritava il nome di gusci d’ova; e come non ammetteva che quelle adorabili chicchere, così non si serviva di posate che non fossero d’argento dorato autentico; d’un dorato un po’ stinto come è quando già l’argento trapela un tantino sotto il liso della rivestitura e conferisce all’oro una tinta dolcemente antica: sfinitissima, morente.
Bevuto l’ultimo sorso e rientrato nello studio, vi fece portare la tartaruga che s’ostinava a non muoversi.
(inizia a bere e ad evocare ricordi spiacevoli legati alle sue visite dal dentista)Tornato alla realtà presente, si preoccupò della tartaruga. Continuava a non muoversi. La palpò. Era morta.
Certo, avvezza al trantran della sua esistenza, all'umile vita del suo povero guscio, non aveva potuto sopportare l'accecante lusso che le era stato imposto, il rutilante piviale di cui l’avevan vestita, le gemme di cui le avevano lastricato il dorso, a somiglianza d'un ciborio.
Postato il 18 gennaio 2011
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