brano tratto dal capitolo X di Controcorrente (1884)
Nel corso della curiosa malattia che devasta le razze di sangue depauperato sùbite bonaccie seguono alle crisi. Senza che potesse spiegarsene la causa, un bel mattino Des Esseintes si destò del tutto rimesso; scomparsa la tosse che pareva divellergli i visceri; non più cunei nella nuca, conficcati a colpi di maglio; sì un indicibile senso di benessere, una levità nel cervello; i pensieri si schiarirono: da opachi e torbidi divennero fluidi e iridati come bolla di sapone delicatamente sfumata. Questo stato di grazia durò qualche giorno. Poi ecco un pomeriggio fare improvvisamente la loro comparsa allucinazioni olfattive: gli invase la camera odor di frangipana.
Si assicurò se ve ne fosse una fiala sturata; non c'era; passò nello studio, nella sala da pranzo: dappertutto quell'odore. Sonò. “Senti qui qualche odore?” chiese al servo accorso. Quello annusò l'aria: “no, nessun odore.”
Non restava più dubbio; la nevrosi tornava dissimulata sotto un nuovo inganno dei sensi.
Noiato dalla tenacia di quell'inesistente profumo, pensò di stordirsi con profumi reali, nella speranza che questa omeopatia nasale lo guarisse o almeno lo scampasse dal supplizio dell'importuna frangipana.
Andò nel gabinetto da bagno, dove, presso un bacile battesimale che gli serviva da catinella, sormontato da una cornice in ferro battuto imprigionante, a mo' di balaustra argentata di luna, l'acqua verde e come stagnante di un lungo specchio, fiale d'ogni foggia e dimensione s'allineavano su mensolette di avorio.
Le tolse di là e le dispose in due file sur un tavolo: quella dei profumi semplici, vale a dire degli estratti e delle essenze; e quella dei profumi composti, chiamati con termine generico bouquet o mazzolini d'odore.
Ciò fatto si sprofondò in una poltrona e chiamò a raccolta le sue idee.
Da anni Des Esseintes era esperto nella scienza del fiuto. Non meno della vista e dell'udito egli stimava l'odorato capace di godimenti. Ogni senso, a suo avviso, purché a ciò disposto da natura e debitamente educato, era in grado di percepire nuove sensazioni, di scinderle, d'associarle, sino a comporre con esse ciò che costituisce opera d'arte.
Secondo lui insomma, non era per niente più strana l'esistenza di un'arte basata sui profumi che quella che si vale d'onde sonore o di raggi variamente colorati. Soltanto che come, senza una particolare attitudine sviluppata dallo studio, nessuno può distinguere la tela di un grande pittore da una crosta qualsiasi, un motivo di Beethoven da un'aria di Clapisson, allo stesso modo nessuno può neanche, se non è un iniziato, distinguere alla prima un bouquet creato da un autentico artista da un miscuglio qualsivoglia messo in commercio da un industriale e destinato alla vendita nelle drogherie e nei bazar.
Nell'arte degli odori, ciò che più di tutto lo aveva interessato era la possibilità di ottenere artificialmente profumi del tutto identici a quelli in natura.
Quasi mai, infatti, i profumi ci vengono dai fiori di cui recano il nome. Il profumiere che unicamente dalla natura traesse gli elementi della sua arte, non otterrebbe che un prodotto bastardo, privo di consistenza e di stile; dato che l'essenza che si ricava dalla distillazione del fiore non offre che una pallida e volgarissima analogia con la fragranza, con gli effluvi che la pianta sprigiona quando fiorisce in piena terra. Così, se si eccettua l'inimitabile gelsomino che si rifiuta ad ogni similitudine, ad ogni contraffazione, che rigetta persino ogni pressapoco, gli altri fiori sono riprodotti esattamente nella loro fragranza da alleanze di alcolati e di spiriti che involano al modello la sua stessa personalità e v'aggiungono quel nonnulla, quel tanto di più, quell'aroma inebbriante, quel raro tocco che fa l'opera d'arte.
In conclusione, nella profumeria l'artista perfeziona l'opera greggia della natura, sfaccetta l'odore, lo monta come il gioielliere affina l'acqua di una pietra e la pone in valore.
Poco a poco gli arcani di quest'arte, fra tutte la più negletta, s'erano aperti a Des Esseintes che decifrava ormai la sua lingua, varia e altrettanto suggestiva di quella letteraria, il suo stile di una inaudita concisione sotto quella apparenza vaga e fluttuante. Per ciò gli era stato d'uopo dapprima compulsare la grammatica, intendere la sintassi degli odori, imbeversi, sino a possederle, delle regole che li governano, ed una volta famigliarizzatosi con quel gergo, paragonare le opere dei maestri: degli Atkinson e dei Lubin, dei Chardin e dei Violet, dei Legrand e dei Piesse; smontare la costruzione delle loro frasi; valutare la proporzione delle parole, e la disposizione dei periodi. Non solo: occorreva spesso appoggiare con l'esperienza la teoria, non di rado incompleta e banale.
La profumeria classica era, a dir vero, poco varia, pressoché incolore. S'atteneva ancora al monotono ricettario fissato dagli antichi alchimisti; procedeva a caso, affidata ai vecchi lambicchi, finché non s'arrivò allo sboccio del romanticismo, che modificò anche lei, la ringiovanì, la rese più duttile e malleabile.
La sua storia seguiva passo passo, presso di noi, quella della lingua.
Lo stile della profumeria Luigi XIII, composto di ingredienti cari all'epoca, di polvere di riso, di muschio, di zibetto, d'acqua di mirto - nota prima sotto il nome di acqua degli angeli - bastava a stento ad esprimere le grazie altezzose, le tinte un po' crude del tempo che ritroviamo in certi sonetti di Saint Amand.
Più tardi, con la mirra, l'olibano, gli odori mistici, potenti ed austeri, potè quasi emulare il portamento pomposo del secolo d'oro, i ridondanti artifici dell'oratoria, lo stile largo, sostenuto, numeroso di Bousset e dei grandi predicatori. Più tardi ancora le grazie stanche e sapienti della società francese sotto Luigi Quindici trovarono più facilmente la loro traduzione nella frangipana e nella marescialla: che diedero in certo modo la sintesi stessa dell'epoca. Quindi, dopo l'apatia e il tedio del primo impero che abusò d'acqua di Colonia e di preparati al rosmarino, l'arte dei profumi si lanciò, sulle orme di Victor Hugo e di Gautier, verso i paesi del sole; creò delle acque orientali, dei mazzi simbolici folgoranti di spezie; scoprì tonalità nuove, antitesi sino allora inosate; scelse e riprese antiche sfumature, le complicò, le affinò, le assortì; ripudiò infine risolutamente la volontaria decrepitezza cui l'avevano ridotta i Malesherbe, i Boileau, gli Andrieux, i Baour-Lormian, dozzinali distillatori dei suoi poemi.
Né, dal 1830, questa lingua era rimasta stazionaria; s'era ancora evoluta, e, modellandosi sul progresso del secolo, era entrata in lizza con le altre arti; s'era pur essa piegata ai voti degli intenditori e degli artisti, lanciandosi all'imitazione di ciò che è in Cina e Giappone; immaginando album di profumi; imitando i mazzi di fiori di Takeoka; ottenendo, con lo sposare la lavanda al garofano l'odore del Rondeletia; coll'alleare il pasciulì alla canfora, l'aroma singolare dell'inchiostro di China; col mescolare limone, garofano ed essenza di fior d'arancio, l'effluvio della Hovenia del Giappone,
Des Esseintes studiava, analizzava l'anima di quei fluidi; procedeva all'esegesi di quei testi; si divertiva, per suo piacere personale, a fare con essi la parte dello psicologo; a smontare e rimontare gli ingranaggi di un'opera, a svitare i diversi pezzi che entrano nella struttura di un effluvio composito; ed in tale esercizio il suo odorato era giunto ad una sicurezza d'assaggio pressoché infallibile.
Come ad un negoziante di vini basta aspirarne una goccia per riconoscerne la provenienza; come un negoziante di luppolo ne annusa un sacco e subito si rende esatto conto di quel che vale; come un cinese che ne faccia traffico può dichiararti lì per lì di dove viene il tè che odora, dirti in quali fattorie dei monti Boei, in che convento buddista è stato coltivato; la stagione in cui le foglie furono colte, precisarti il grado di torrefazione, l'influsso che subirono dalla prossimità di susini in fiore, di Aglaia, d'Olea fragrans, di tutti i profumi che ne modificano la natura ed aggiungono al suo un inaspettato spicco, introducono nel suo aroma un po' arido, un sentore di fiori freschi lontani; - non altrimenti Des Esseintes, respirando un accenno d'odore, era in grado di raccontarvi lì per lì quali dosi entravano nella sua miscela, di spiegare di quella miscela la psicologia, quasi quasi di proclamare il nome dell'artista che l'aveva scritto, che vi aveva impresso il suggello inconfondibile del suo stile.
Superfluo aggiungere ch'egli possedeva l'intera serie degli ingredienti usati dai profumieri; aveva sinanco dell'autentico balsamo della Mecca, l'estremamente raro profumo che si raccoglie solo in certe parti dell'Arabia Petrea e il cui monopolio appartiene al Sovrano.
Adesso, seduto, nel suo gabinetto da bagno davanti a quella tavola, vagheggiava di creare un nuovo bouquet; preso da quell'attimo di esitazione ben noto agli scrittori che, dopo mesi di riposo, s'accingon a metter mano ad un'opera nuova.
Non diversamente di Balzac che, per darsi l'avvio, non poteva a meno di annerire una risma di carta, Des Esseintes ritenne necessario rifarsi prima la mano con qualche lavoretto senza importanza. Nell'intento di ottenere dell'eliotropio, soppesò fiale di mandorla e di vanilla; poi mutò idea e si decise ad affrontare il pisello odoroso.
I vocaboli, i procedimenti idonei allo scopo gli sfuggivano. Procedette a tastoni; nella fragranza di quel fiore non domina in fin dei conti l'arancio? Saggiò parecchie miscele; e finì per azzeccare il tono giusto, unendo all'arancio della tuberosa che legò con una goccia di vanilia.
La sua incertezza si dissipò; fu preso da una leggera febbre; si sentì all'altezza del compito. Non pago ottenne ancora del tè, mescolando cassia e giaggiolo; quindi, ormai sicuro di sé, risolse di andare oltre, di fissare una frase fulminante che col suo arrogante fracasso coprirebbe il bisbiglio della maliziosa frangipana che s'intrufolava ancora nella stanza.
Manipolò l'ambra, il muschio del Tonchino, terribile di violenza, il pasciulì, il più acre dei profumi vegetali che in natura sprigiona un tanfo di muffito e di ruggine.
Per quanto facesse, l'assillante ricordo del Settecento continuò ad assediarlo: le crinoline, i falpalà gli vorticarono davanti agli occhi, apparizioni di Veneri di Boucher, tutte carne, disossate, imbottite di rosea bambagia presero dimora sulle pareti; ricordi del romanzo di Thémidore, della deliziosa Rosetta che in una disperazione di fuoco si rimbocca la gonna, lo perseguitavano.
Furibondo, s'alzò e per liberarsi di quell'ossessione, aspirò a pieni polmoni quella schietta essenza di spinacardo che, per il suo troppo accentuato sentore di valeriana, mentre piace tanto agli Orientali, riesce così incomoda agli Europei.
L'urto fu così violento che ne rimase stordito.
Come stritolata sotto un colpo di maglio, la filagrana del delicato odore sparì; ed egli profittò della tregua per sfuggire ai secoli defunti, ai profumi desueti; per passare, come faceva un tempo, a imprese meno ristrette o più nuove.
Con i profumi s'era altravolta dilettato a cullarsi in accordi; si valeva d'effetti analoghi a quelli dei poeti; ricalcava, in qualche modo, il mirabile schema di certe composizioni di Baudelaire; dell'Irreparable ad esempio e di Le Balcon, dove l'ultimo verso della quintina riecheggia il primo, ripresentandosi a mo' di ritornello ad annegare l'anima negli infiniti della malinconia e del languore. Smarrito nei sogni evocati da quelle strofe fragranti, ecco di colpo era ricondotto al punto di partenza, al motivo della sua meditazione, dal ritorno del tema iniziale che ricompariva, a studiati intervalli, nell'olezzante orchestrazione del poema.
Questa volta si propose di perdersi in un sorprendente e mutevole paesaggio; ed esordì con una frase sonora, che gli dischiuse di colpo una immensa lontananza di campagne.
Grazie ai suoi vaporizzatori, sprigionò nella camera essenza d'ambrosia, di lavanda di Mitcham, di pisello odoroso fusi insieme: un'essenza che, ove sia stata distillata da un artista, non usurpa il nome che le vien dato di “essenza di prato in fiore”; poi, in quel prato, insinuò un ben riuscito accordo di tuberosa, di fior d'arancio e di mandorla; e, d'incanto, fittizi lillà fiorirono, mentre tigli stormivano al vento, impregnando il suolo dei loro tenui effluvi, simulati dall'estratto di tilia londinese.
In questo sfondo tracciato a grandi linee, fuggente a perdita d'occhio sotto le sue palpebre chiuse, insufflò una spruzzatura di sentori umani e quasi felini; evocanti la donna, annunzianti la femmina incipriata e truccata: lo stefanotis, l'ayapana, l'opoponax, il cipro, lo sciampaca, il sarcanto; sovrappose ad essi un accenno di siringa, per introdurre nel mondo fittizio e truccato che essi creavano, un sentore naturale di esultanze accaldate, di gioia che si disfrena in pieno sole.
Poscia, con l'ausilio di un ventilatore, lasciò che si disperdessero queste onde odorose; e serbò solo la campagna che rinnovò, costringendola a tornare nel suo poema come un ritornello.
Le femmine s'andarono dileguando; la campagna era tornata deserta; allora, all'incantato orizzonte, opifici si rizzarono, arditi comignoli sprigionarono fumo come bollenti tazze di ponce.
Nella brezza, suscitata da ventagli, passava ora un alito di fabbriche, un sentore di prodotti chimici; eppure nell'aria così corrotta, la natura insinuava ancora i suoi effluvi soavi. Gli è che Des Esseintes riscaldava adesso tra le dita una pallottolina di storace, che partecipava del delizioso odore della giunchiglia e dèll'immondo lezzo della guttaperca e dell'olio di litantrace.
Bastò che riponesse la resina nella sua scatola ermeticamente chiusa e si tergesse le mani, perché a loro volta le fabbriche si dileguassero. Allora tra i sentori, che riprendevano forza, dei tigli e dei prati, saettò alcune goccie di new mown hay; ed al centro del magico panorama, momentaneamente spogliato dei lillà, covoni di fieno si rizzarono improvvisando una nuova stagione, impregnando quell'estate dei loro effluvi sottili.
Come fu sazio di quello spettacolo, spruzzò all'impazzata profumi esotici; vuotò i vaporizzatori, profuse alcoli concentrati, diede il via a tutti i balsami di cui disponeva; ed ecco, nello snervante calore della stanza, esplodere una natura demente e sublime, che acuiva moltiplicando i suoi aliti, caricava d'alcoolati in delirio una brezza posticcia; una natura irreale e affascinante, paradossale da capo a fondo, che sposava le droghe dei tropici, gli aliti pepati del sandalo della Cina e dell'hediosmia della Giamaica, agli odori indigeni del gelsomino, del biancospino e delle verbene, facendo sorgere a dispetto delle stagioni e dei climi, alberi esotici d'ogni specie, sbocciare fiori i più opposti di tinta e di profumo; creando con la fusione e l'urto di tutti quegli ingredienti, un profumo diffuso cui era impossibile dare un nome: imprevisto, stravagante; in mezzo a cui ricompariva, ostinato ritornello, il motivo decorativo iniziale: l'odore del grande prato ventilato da tigli e lillà.
In quella, ahi, che un'acuta trafittura gli mozzò il respiro; fu come se un trivello gli forasse le tempie.
Aprì gli occhi: si vide nel gabinetto da bagno, seduto davanti alla tavola. A fatica si diresse barcollante alla finestra, la schiuse.
L'aria, che irruppe nell'interno, dissipò la soffocante atmosfera in cui boccheggiava. Per riprendere l'uso delle gambe, percorse in lungo e in largo la stanza, con gli occhi alla volta dove spiccavano in rilievo, su uno sfondo granito, biondo come sabbia di lido, granchi ed alghe incrostate di salino.
Decorata allo stesso modo era la cimasa che correva lungo gli assiti tappezzati di crespo del Giappone, color verde acqua, un po' increspato a simulare l'arricciarsi d'un fiume che al vento s'arruga. Galleggiava in quella lieve corrente un petalo di rosa e intorno sciamava una frotta di pesciolini disegnati con due tratti di penna.
Ma il peso alle palpebre non accennava a cessare. Smise di misurare su e giù l'angusto spazio tra il bacile battesimale e la vasca da bagno; s'appoggiò alla balaustra della finestra. Lo stordimento ebbe fine.
Si assicurò se ve ne fosse una fiala sturata; non c'era; passò nello studio, nella sala da pranzo: dappertutto quell'odore. Sonò. “Senti qui qualche odore?” chiese al servo accorso. Quello annusò l'aria: “no, nessun odore.”
Non restava più dubbio; la nevrosi tornava dissimulata sotto un nuovo inganno dei sensi.
Noiato dalla tenacia di quell'inesistente profumo, pensò di stordirsi con profumi reali, nella speranza che questa omeopatia nasale lo guarisse o almeno lo scampasse dal supplizio dell'importuna frangipana.
Andò nel gabinetto da bagno, dove, presso un bacile battesimale che gli serviva da catinella, sormontato da una cornice in ferro battuto imprigionante, a mo' di balaustra argentata di luna, l'acqua verde e come stagnante di un lungo specchio, fiale d'ogni foggia e dimensione s'allineavano su mensolette di avorio.
Le tolse di là e le dispose in due file sur un tavolo: quella dei profumi semplici, vale a dire degli estratti e delle essenze; e quella dei profumi composti, chiamati con termine generico bouquet o mazzolini d'odore.
Ciò fatto si sprofondò in una poltrona e chiamò a raccolta le sue idee.
Da anni Des Esseintes era esperto nella scienza del fiuto. Non meno della vista e dell'udito egli stimava l'odorato capace di godimenti. Ogni senso, a suo avviso, purché a ciò disposto da natura e debitamente educato, era in grado di percepire nuove sensazioni, di scinderle, d'associarle, sino a comporre con esse ciò che costituisce opera d'arte.
Secondo lui insomma, non era per niente più strana l'esistenza di un'arte basata sui profumi che quella che si vale d'onde sonore o di raggi variamente colorati. Soltanto che come, senza una particolare attitudine sviluppata dallo studio, nessuno può distinguere la tela di un grande pittore da una crosta qualsiasi, un motivo di Beethoven da un'aria di Clapisson, allo stesso modo nessuno può neanche, se non è un iniziato, distinguere alla prima un bouquet creato da un autentico artista da un miscuglio qualsivoglia messo in commercio da un industriale e destinato alla vendita nelle drogherie e nei bazar.
Nell'arte degli odori, ciò che più di tutto lo aveva interessato era la possibilità di ottenere artificialmente profumi del tutto identici a quelli in natura.
Quasi mai, infatti, i profumi ci vengono dai fiori di cui recano il nome. Il profumiere che unicamente dalla natura traesse gli elementi della sua arte, non otterrebbe che un prodotto bastardo, privo di consistenza e di stile; dato che l'essenza che si ricava dalla distillazione del fiore non offre che una pallida e volgarissima analogia con la fragranza, con gli effluvi che la pianta sprigiona quando fiorisce in piena terra. Così, se si eccettua l'inimitabile gelsomino che si rifiuta ad ogni similitudine, ad ogni contraffazione, che rigetta persino ogni pressapoco, gli altri fiori sono riprodotti esattamente nella loro fragranza da alleanze di alcolati e di spiriti che involano al modello la sua stessa personalità e v'aggiungono quel nonnulla, quel tanto di più, quell'aroma inebbriante, quel raro tocco che fa l'opera d'arte.
In conclusione, nella profumeria l'artista perfeziona l'opera greggia della natura, sfaccetta l'odore, lo monta come il gioielliere affina l'acqua di una pietra e la pone in valore.
Poco a poco gli arcani di quest'arte, fra tutte la più negletta, s'erano aperti a Des Esseintes che decifrava ormai la sua lingua, varia e altrettanto suggestiva di quella letteraria, il suo stile di una inaudita concisione sotto quella apparenza vaga e fluttuante. Per ciò gli era stato d'uopo dapprima compulsare la grammatica, intendere la sintassi degli odori, imbeversi, sino a possederle, delle regole che li governano, ed una volta famigliarizzatosi con quel gergo, paragonare le opere dei maestri: degli Atkinson e dei Lubin, dei Chardin e dei Violet, dei Legrand e dei Piesse; smontare la costruzione delle loro frasi; valutare la proporzione delle parole, e la disposizione dei periodi. Non solo: occorreva spesso appoggiare con l'esperienza la teoria, non di rado incompleta e banale.
La profumeria classica era, a dir vero, poco varia, pressoché incolore. S'atteneva ancora al monotono ricettario fissato dagli antichi alchimisti; procedeva a caso, affidata ai vecchi lambicchi, finché non s'arrivò allo sboccio del romanticismo, che modificò anche lei, la ringiovanì, la rese più duttile e malleabile.
La sua storia seguiva passo passo, presso di noi, quella della lingua.
Lo stile della profumeria Luigi XIII, composto di ingredienti cari all'epoca, di polvere di riso, di muschio, di zibetto, d'acqua di mirto - nota prima sotto il nome di acqua degli angeli - bastava a stento ad esprimere le grazie altezzose, le tinte un po' crude del tempo che ritroviamo in certi sonetti di Saint Amand.
Più tardi, con la mirra, l'olibano, gli odori mistici, potenti ed austeri, potè quasi emulare il portamento pomposo del secolo d'oro, i ridondanti artifici dell'oratoria, lo stile largo, sostenuto, numeroso di Bousset e dei grandi predicatori. Più tardi ancora le grazie stanche e sapienti della società francese sotto Luigi Quindici trovarono più facilmente la loro traduzione nella frangipana e nella marescialla: che diedero in certo modo la sintesi stessa dell'epoca. Quindi, dopo l'apatia e il tedio del primo impero che abusò d'acqua di Colonia e di preparati al rosmarino, l'arte dei profumi si lanciò, sulle orme di Victor Hugo e di Gautier, verso i paesi del sole; creò delle acque orientali, dei mazzi simbolici folgoranti di spezie; scoprì tonalità nuove, antitesi sino allora inosate; scelse e riprese antiche sfumature, le complicò, le affinò, le assortì; ripudiò infine risolutamente la volontaria decrepitezza cui l'avevano ridotta i Malesherbe, i Boileau, gli Andrieux, i Baour-Lormian, dozzinali distillatori dei suoi poemi.
Né, dal 1830, questa lingua era rimasta stazionaria; s'era ancora evoluta, e, modellandosi sul progresso del secolo, era entrata in lizza con le altre arti; s'era pur essa piegata ai voti degli intenditori e degli artisti, lanciandosi all'imitazione di ciò che è in Cina e Giappone; immaginando album di profumi; imitando i mazzi di fiori di Takeoka; ottenendo, con lo sposare la lavanda al garofano l'odore del Rondeletia; coll'alleare il pasciulì alla canfora, l'aroma singolare dell'inchiostro di China; col mescolare limone, garofano ed essenza di fior d'arancio, l'effluvio della Hovenia del Giappone,
Des Esseintes studiava, analizzava l'anima di quei fluidi; procedeva all'esegesi di quei testi; si divertiva, per suo piacere personale, a fare con essi la parte dello psicologo; a smontare e rimontare gli ingranaggi di un'opera, a svitare i diversi pezzi che entrano nella struttura di un effluvio composito; ed in tale esercizio il suo odorato era giunto ad una sicurezza d'assaggio pressoché infallibile.
Come ad un negoziante di vini basta aspirarne una goccia per riconoscerne la provenienza; come un negoziante di luppolo ne annusa un sacco e subito si rende esatto conto di quel che vale; come un cinese che ne faccia traffico può dichiararti lì per lì di dove viene il tè che odora, dirti in quali fattorie dei monti Boei, in che convento buddista è stato coltivato; la stagione in cui le foglie furono colte, precisarti il grado di torrefazione, l'influsso che subirono dalla prossimità di susini in fiore, di Aglaia, d'Olea fragrans, di tutti i profumi che ne modificano la natura ed aggiungono al suo un inaspettato spicco, introducono nel suo aroma un po' arido, un sentore di fiori freschi lontani; - non altrimenti Des Esseintes, respirando un accenno d'odore, era in grado di raccontarvi lì per lì quali dosi entravano nella sua miscela, di spiegare di quella miscela la psicologia, quasi quasi di proclamare il nome dell'artista che l'aveva scritto, che vi aveva impresso il suggello inconfondibile del suo stile.
Superfluo aggiungere ch'egli possedeva l'intera serie degli ingredienti usati dai profumieri; aveva sinanco dell'autentico balsamo della Mecca, l'estremamente raro profumo che si raccoglie solo in certe parti dell'Arabia Petrea e il cui monopolio appartiene al Sovrano.
Adesso, seduto, nel suo gabinetto da bagno davanti a quella tavola, vagheggiava di creare un nuovo bouquet; preso da quell'attimo di esitazione ben noto agli scrittori che, dopo mesi di riposo, s'accingon a metter mano ad un'opera nuova.
Non diversamente di Balzac che, per darsi l'avvio, non poteva a meno di annerire una risma di carta, Des Esseintes ritenne necessario rifarsi prima la mano con qualche lavoretto senza importanza. Nell'intento di ottenere dell'eliotropio, soppesò fiale di mandorla e di vanilla; poi mutò idea e si decise ad affrontare il pisello odoroso.
I vocaboli, i procedimenti idonei allo scopo gli sfuggivano. Procedette a tastoni; nella fragranza di quel fiore non domina in fin dei conti l'arancio? Saggiò parecchie miscele; e finì per azzeccare il tono giusto, unendo all'arancio della tuberosa che legò con una goccia di vanilia.
La sua incertezza si dissipò; fu preso da una leggera febbre; si sentì all'altezza del compito. Non pago ottenne ancora del tè, mescolando cassia e giaggiolo; quindi, ormai sicuro di sé, risolse di andare oltre, di fissare una frase fulminante che col suo arrogante fracasso coprirebbe il bisbiglio della maliziosa frangipana che s'intrufolava ancora nella stanza.
Manipolò l'ambra, il muschio del Tonchino, terribile di violenza, il pasciulì, il più acre dei profumi vegetali che in natura sprigiona un tanfo di muffito e di ruggine.
Per quanto facesse, l'assillante ricordo del Settecento continuò ad assediarlo: le crinoline, i falpalà gli vorticarono davanti agli occhi, apparizioni di Veneri di Boucher, tutte carne, disossate, imbottite di rosea bambagia presero dimora sulle pareti; ricordi del romanzo di Thémidore, della deliziosa Rosetta che in una disperazione di fuoco si rimbocca la gonna, lo perseguitavano.
Furibondo, s'alzò e per liberarsi di quell'ossessione, aspirò a pieni polmoni quella schietta essenza di spinacardo che, per il suo troppo accentuato sentore di valeriana, mentre piace tanto agli Orientali, riesce così incomoda agli Europei.
L'urto fu così violento che ne rimase stordito.
Come stritolata sotto un colpo di maglio, la filagrana del delicato odore sparì; ed egli profittò della tregua per sfuggire ai secoli defunti, ai profumi desueti; per passare, come faceva un tempo, a imprese meno ristrette o più nuove.
Con i profumi s'era altravolta dilettato a cullarsi in accordi; si valeva d'effetti analoghi a quelli dei poeti; ricalcava, in qualche modo, il mirabile schema di certe composizioni di Baudelaire; dell'Irreparable ad esempio e di Le Balcon, dove l'ultimo verso della quintina riecheggia il primo, ripresentandosi a mo' di ritornello ad annegare l'anima negli infiniti della malinconia e del languore. Smarrito nei sogni evocati da quelle strofe fragranti, ecco di colpo era ricondotto al punto di partenza, al motivo della sua meditazione, dal ritorno del tema iniziale che ricompariva, a studiati intervalli, nell'olezzante orchestrazione del poema.
Questa volta si propose di perdersi in un sorprendente e mutevole paesaggio; ed esordì con una frase sonora, che gli dischiuse di colpo una immensa lontananza di campagne.
Grazie ai suoi vaporizzatori, sprigionò nella camera essenza d'ambrosia, di lavanda di Mitcham, di pisello odoroso fusi insieme: un'essenza che, ove sia stata distillata da un artista, non usurpa il nome che le vien dato di “essenza di prato in fiore”; poi, in quel prato, insinuò un ben riuscito accordo di tuberosa, di fior d'arancio e di mandorla; e, d'incanto, fittizi lillà fiorirono, mentre tigli stormivano al vento, impregnando il suolo dei loro tenui effluvi, simulati dall'estratto di tilia londinese.
In questo sfondo tracciato a grandi linee, fuggente a perdita d'occhio sotto le sue palpebre chiuse, insufflò una spruzzatura di sentori umani e quasi felini; evocanti la donna, annunzianti la femmina incipriata e truccata: lo stefanotis, l'ayapana, l'opoponax, il cipro, lo sciampaca, il sarcanto; sovrappose ad essi un accenno di siringa, per introdurre nel mondo fittizio e truccato che essi creavano, un sentore naturale di esultanze accaldate, di gioia che si disfrena in pieno sole.
Poscia, con l'ausilio di un ventilatore, lasciò che si disperdessero queste onde odorose; e serbò solo la campagna che rinnovò, costringendola a tornare nel suo poema come un ritornello.
Le femmine s'andarono dileguando; la campagna era tornata deserta; allora, all'incantato orizzonte, opifici si rizzarono, arditi comignoli sprigionarono fumo come bollenti tazze di ponce.
Nella brezza, suscitata da ventagli, passava ora un alito di fabbriche, un sentore di prodotti chimici; eppure nell'aria così corrotta, la natura insinuava ancora i suoi effluvi soavi. Gli è che Des Esseintes riscaldava adesso tra le dita una pallottolina di storace, che partecipava del delizioso odore della giunchiglia e dèll'immondo lezzo della guttaperca e dell'olio di litantrace.
Bastò che riponesse la resina nella sua scatola ermeticamente chiusa e si tergesse le mani, perché a loro volta le fabbriche si dileguassero. Allora tra i sentori, che riprendevano forza, dei tigli e dei prati, saettò alcune goccie di new mown hay; ed al centro del magico panorama, momentaneamente spogliato dei lillà, covoni di fieno si rizzarono improvvisando una nuova stagione, impregnando quell'estate dei loro effluvi sottili.
Come fu sazio di quello spettacolo, spruzzò all'impazzata profumi esotici; vuotò i vaporizzatori, profuse alcoli concentrati, diede il via a tutti i balsami di cui disponeva; ed ecco, nello snervante calore della stanza, esplodere una natura demente e sublime, che acuiva moltiplicando i suoi aliti, caricava d'alcoolati in delirio una brezza posticcia; una natura irreale e affascinante, paradossale da capo a fondo, che sposava le droghe dei tropici, gli aliti pepati del sandalo della Cina e dell'hediosmia della Giamaica, agli odori indigeni del gelsomino, del biancospino e delle verbene, facendo sorgere a dispetto delle stagioni e dei climi, alberi esotici d'ogni specie, sbocciare fiori i più opposti di tinta e di profumo; creando con la fusione e l'urto di tutti quegli ingredienti, un profumo diffuso cui era impossibile dare un nome: imprevisto, stravagante; in mezzo a cui ricompariva, ostinato ritornello, il motivo decorativo iniziale: l'odore del grande prato ventilato da tigli e lillà.
In quella, ahi, che un'acuta trafittura gli mozzò il respiro; fu come se un trivello gli forasse le tempie.
Aprì gli occhi: si vide nel gabinetto da bagno, seduto davanti alla tavola. A fatica si diresse barcollante alla finestra, la schiuse.
L'aria, che irruppe nell'interno, dissipò la soffocante atmosfera in cui boccheggiava. Per riprendere l'uso delle gambe, percorse in lungo e in largo la stanza, con gli occhi alla volta dove spiccavano in rilievo, su uno sfondo granito, biondo come sabbia di lido, granchi ed alghe incrostate di salino.
Decorata allo stesso modo era la cimasa che correva lungo gli assiti tappezzati di crespo del Giappone, color verde acqua, un po' increspato a simulare l'arricciarsi d'un fiume che al vento s'arruga. Galleggiava in quella lieve corrente un petalo di rosa e intorno sciamava una frotta di pesciolini disegnati con due tratti di penna.
Ma il peso alle palpebre non accennava a cessare. Smise di misurare su e giù l'angusto spazio tra il bacile battesimale e la vasca da bagno; s'appoggiò alla balaustra della finestra. Lo stordimento ebbe fine.
Postato il 18 gennaio 2011
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