brano tratto dal capitolo III di Controcorrente (1884)
Il passare di punto in bianco dal calor torrido della stanza al gelo dell’esterno, gli aveva dato un brivido. Si rannicchiò presso il fuoco e sentì il desiderio di buttar giù per riscaldarsi un sorso d’alcole. Passò in sala da pranzo e andò a un armadietto che s’apriva nella parete. Posando su travicelli di sandalo, vi si allineavano in bell’ordine tante botticelle, munite ciascuna d’un rubinetto d’argento. Des Esseintes chiamava quell’assortimento di liquori il suo organo a bocca. Un dispositivo permetteva d’aprire tutti i rubinetti insieme; bastava premere un bottone dissimulato nell’assito perché tutte le spine, voltate a tempo, riempissero i sottoposti bicchierini.
L’organo si trovava adesso aperto; i tiranti sui quali si leggeva: “flauto” “corno” “voce celeste” sporgevano, pronti all’uso.
Des Esseintes assaggiava qui una goccia, un’altra là; orchestrando entro di sé delle sinfonie, arrivava a procurarsi in gola sensazioni non diverse da quelle che all’orecchio dà la musica. Non per niente egli stimava che ogni liquore corrisponde pel gusto al suono d’uno strumento. Il currasò secco, ad esempio, al clarinetto, dal canto acerbo e vellutato; il kummel, all’oboe sonoro e nasale; la menta e l’anisetta, al flauto, zuccherino insieme e pepato, piagnucoloso e carezzevole; mentre - e si completa così l’orchestra - il kirsch strombetta a perdifiato; gin e whisky portan via il palato coi loro stridenti squilli di pistoni e di tromboni; la grappa fulmina con l’assordante strepito delle tube, ed il tonar dei piatti e della grancassa suonati a braccio teso rintronano il palato quando assaggia il rachi di Chio e le mastiche.
Né, a sentirlo, l’analogia finiva qui: sotto la volta palatina si potevano anche sonare quartetti per istrumenti ad arco.
Rappresenterebbe il violino, la vecchia acquavite, fumosa e delicata, acuta e fragile; la viola, il rumme, più robusto, più rombante, più sordo; il violoncello, il vespetro: straziante e prolungato, malinconico e blandente; il contrabbasso, un vecchio bitter schietto, solido e nero.
E non era tutto: neanche le scale tonali mancavano nella musica dei liquori. Così, per non citare che una nota, il benedettino rappresentava, si può dire, il tono minore di quel tono maggiore degli alcoli che gli spartiti commerciali designano col nome di certosino verde.
Partendo di qui, Des Esseintes era riuscito, grazie a dotti esperimenti, a sonare sulla propria lingua silenziose melodie, mute marce funebri a piena orchestra; ad ascoltarsi in bocca degli a solo di menta, dei duetti di vespetro e di rum.
Arrivava sinanco ad eseguire in bocca veri e propri brani di musica, attenendosi passo passo alla composizione; interpretandoli nel pensiero, negli effetti, nelle sfumature, grazie ad accordi o contrasti di liquori, grazie a sapienti miscele.
Altre volte componeva lui melodie proprie; eseguiva pastorali coll’anodino cassì, che gli gorgheggiava in gola canti perlati di rosignolo; col tenero cacao-chouva che canticchiava sciropposi idilli, quali le romanze di Estelle ed i “Ah ti dirò, mamma...” del tempo che fu.
Ma quella sera Des Esseintes non aveva alcuna voglia d’ascoltare la musica del palato. Si contentò di cavare dalla tastiera del suo organo una sola nota, portandosi di là un bicchierino colmo d’autentico whisky d’Irlanda.
Si riaffondò nella poltrona e religiosamente si sorseggiò quel succo fermentato di orzo e d’avena: un acuto aroma di creosoto gli appestò la bocca.
Sulla traccia di quel sapore che irresistibilmente ne evocava un altro, il pensiero, facendo da battistrada, resuscitò ricordi cancellati da anni. Quel gusto acre, fenicato, gli richiamò imperioso alla memoria l’identico sapore che gli riempiva la bocca quando il dentista gli lavorava le gengive.
L’organo si trovava adesso aperto; i tiranti sui quali si leggeva: “flauto” “corno” “voce celeste” sporgevano, pronti all’uso.
Des Esseintes assaggiava qui una goccia, un’altra là; orchestrando entro di sé delle sinfonie, arrivava a procurarsi in gola sensazioni non diverse da quelle che all’orecchio dà la musica. Non per niente egli stimava che ogni liquore corrisponde pel gusto al suono d’uno strumento. Il currasò secco, ad esempio, al clarinetto, dal canto acerbo e vellutato; il kummel, all’oboe sonoro e nasale; la menta e l’anisetta, al flauto, zuccherino insieme e pepato, piagnucoloso e carezzevole; mentre - e si completa così l’orchestra - il kirsch strombetta a perdifiato; gin e whisky portan via il palato coi loro stridenti squilli di pistoni e di tromboni; la grappa fulmina con l’assordante strepito delle tube, ed il tonar dei piatti e della grancassa suonati a braccio teso rintronano il palato quando assaggia il rachi di Chio e le mastiche.
Né, a sentirlo, l’analogia finiva qui: sotto la volta palatina si potevano anche sonare quartetti per istrumenti ad arco.
Rappresenterebbe il violino, la vecchia acquavite, fumosa e delicata, acuta e fragile; la viola, il rumme, più robusto, più rombante, più sordo; il violoncello, il vespetro: straziante e prolungato, malinconico e blandente; il contrabbasso, un vecchio bitter schietto, solido e nero.
E non era tutto: neanche le scale tonali mancavano nella musica dei liquori. Così, per non citare che una nota, il benedettino rappresentava, si può dire, il tono minore di quel tono maggiore degli alcoli che gli spartiti commerciali designano col nome di certosino verde.
Partendo di qui, Des Esseintes era riuscito, grazie a dotti esperimenti, a sonare sulla propria lingua silenziose melodie, mute marce funebri a piena orchestra; ad ascoltarsi in bocca degli a solo di menta, dei duetti di vespetro e di rum.
Arrivava sinanco ad eseguire in bocca veri e propri brani di musica, attenendosi passo passo alla composizione; interpretandoli nel pensiero, negli effetti, nelle sfumature, grazie ad accordi o contrasti di liquori, grazie a sapienti miscele.
Altre volte componeva lui melodie proprie; eseguiva pastorali coll’anodino cassì, che gli gorgheggiava in gola canti perlati di rosignolo; col tenero cacao-chouva che canticchiava sciropposi idilli, quali le romanze di Estelle ed i “Ah ti dirò, mamma...” del tempo che fu.
Ma quella sera Des Esseintes non aveva alcuna voglia d’ascoltare la musica del palato. Si contentò di cavare dalla tastiera del suo organo una sola nota, portandosi di là un bicchierino colmo d’autentico whisky d’Irlanda.
Si riaffondò nella poltrona e religiosamente si sorseggiò quel succo fermentato di orzo e d’avena: un acuto aroma di creosoto gli appestò la bocca.
Sulla traccia di quel sapore che irresistibilmente ne evocava un altro, il pensiero, facendo da battistrada, resuscitò ricordi cancellati da anni. Quel gusto acre, fenicato, gli richiamò imperioso alla memoria l’identico sapore che gli riempiva la bocca quando il dentista gli lavorava le gengive.
Postato il 18 gennaio 2011
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