Prima ancora che gli operai, il referendum di Mirafiori è riuscito a spaccare il Pd
di Massimo Gramellini
Di fronte a una questione finalmente concreta e altamente simbolica (il destino della fabbrica per eccellenza) è venuta alla luce la frattura profonda fra le due parti della mela rosé. C’è una fetta della mela che accetta la globalizzazione come un dato di fatto, cercando quantomeno di contenerne i virus malefici. E un’altra fetta che invece la globalizzazione la rifiuta (in pieno accordo, a leggere i blog, con la maggioranza dei suoi elettori), anche se poi non spinge la scomunica della realtà fino alle conseguenze coerenti: l’isolazionismo e il protezionismo. Altre opzioni purtroppo non ce ne sono, se non quella ovviamente paradossale di paracadutare i marines in Cina per imporre con la forza i nostri diritti civili, sindacali e ambientali a chi non ha alcuna intenzione di adottarli.
I riti bizantini della politica, in cui il Pd si rivela più democristiano che comunista, hanno impedito che già ieri il partito di Bersani si avviasse verso la scissione. Ma la rottura è nelle cose, plasticamente rappresentata dalle parole di Chiamparino: «Questa sinistra fuori del mondo mi ha stufato». Lo stesso spartito di Renzi e in termini più felpati di Veltroni, che su Mirafiori ha inutilmente chiesto alla Cgil di uscire dall’arrocco e sparigliare con una controproposta che coinvolgesse i lavoratori nella gestione dell’impresa, come in Germania.
Il collante dell’antiberlusconismo non basta più a tenere insieme le due parti della mela democratica, ormai divise su tutto, ma soprattutto sulla strategia per battere il centrodestra. La fetta di Veltroni e Chiamparino punta alla maggioranza relativa e per raggiungerla vorrebbe allargare il bacino elettorale, pescando voti nell’area dei moderati delusi dalle promesse a vuoto di re Silvio. La fetta di Bersani e D’Alema mira invece a recuperare i fan di Vendola e gli astensionisti di sinistra, trattando poi un’alleanza di governo col centro di Casini, in una riedizione aggiornata del compromesso storico. Pur riconoscendo ai protagonisti sconfinate risorse di equilibrismo, riesce davvero difficile immaginare che due Pd così diversi possano rimanere ancora a lungo uno solo.
I riti bizantini della politica, in cui il Pd si rivela più democristiano che comunista, hanno impedito che già ieri il partito di Bersani si avviasse verso la scissione. Ma la rottura è nelle cose, plasticamente rappresentata dalle parole di Chiamparino: «Questa sinistra fuori del mondo mi ha stufato». Lo stesso spartito di Renzi e in termini più felpati di Veltroni, che su Mirafiori ha inutilmente chiesto alla Cgil di uscire dall’arrocco e sparigliare con una controproposta che coinvolgesse i lavoratori nella gestione dell’impresa, come in Germania.
Il collante dell’antiberlusconismo non basta più a tenere insieme le due parti della mela democratica, ormai divise su tutto, ma soprattutto sulla strategia per battere il centrodestra. La fetta di Veltroni e Chiamparino punta alla maggioranza relativa e per raggiungerla vorrebbe allargare il bacino elettorale, pescando voti nell’area dei moderati delusi dalle promesse a vuoto di re Silvio. La fetta di Bersani e D’Alema mira invece a recuperare i fan di Vendola e gli astensionisti di sinistra, trattando poi un’alleanza di governo col centro di Casini, in una riedizione aggiornata del compromesso storico. Pur riconoscendo ai protagonisti sconfinate risorse di equilibrismo, riesce davvero difficile immaginare che due Pd così diversi possano rimanere ancora a lungo uno solo.
«La Stampa» del 14 gennaio 2011
Nessun commento:
Posta un commento