di Carlo Carena
Per nessun poeta del secondo Novecento l’ascolto fu così alto, la tensione così continua, lo scavo così febbrile, disperato e insieme certo che la ricerca è essa stessa il senso, il valore, la sostanza di ogni opera dell’uomo; e la ricerca sul senso della poesia non è un puro problema estetico ma morale. E forse il solo Rebora gli si affianca anche nel cinquantennio precedente. Dinnanzi a loro o a pochi altri si avverte le lievità, la distrazione, la superfluità di tante altre voci. Rileggiamo le ultime righe dell’Introduzione di Mario Luzi. Storia di una poesia di Sergio Pautasso: «Luzi dichiara il suo rifiuto di imboccare quella via che, causa l’estenuazione a cui è giunta nel Novecento la parola, pare quasi obbligata al poeta contemporaneo e che conduce al 'limbo'». Il leitmotiv di tutto è la Parola. La Parola che domina, determina azioni e vicende realissime e trascendenti. La Parola che ispira il racconto e la dottrina degli autori della Sacra Scrittura. La Parola che si pone di fronte a quelle del Poeta, le suscita e le sgomenta. L’estetica e il pensiero di Luzi ruotano continuamente intorno a questo termine che racchiude e illumina ogni dato della storia e della vita. Non v’è altro. Si legge in Naturalezza del poeta (vedi Autoritratto, p. 265): «Infine crolla su / se medesimo il discorso, / si sbriciola tutto / in un miscuglio di suoni, in un brusio. Da cui / pazientemente / emerge detto / il non dicibile / tuo nome.
Poi il silenzio, / quel silenzio si dice è la tua voce». È la Parola l’unica possibilità, sia essa poetica o religiosa, di conoscenza e di rappresentazione.
In Poetica e romanzo, che pure sono pagine non ultime (1973), Luzi si diffondeva in un intero capitolo sul nesso tra poesia e religione, così stretto ai suoi occhi da riuscire «inestricabile». La poesia è alle sue origini manifestazione del pensiero religioso, e la religiosità è intrinseca alla poesia almeno in quella «fondamentale interrogazione» sull’uomo e sul mondo che costituisce la sua religiosità peculiare; essa condivide e presta il suo linguaggio metaforico, visionario, intuitivo all’esaltazione e alla profezia proprie dei libri sacri. È essa, la poesia, che «distrugge la lettera per ripristinare ed espandere lo spirito» (perciò questi temi torneranno nel ’90 e nel 2002 nella prefazione «Sul discorso paolino» alle Lettere di san Paolo); «il senso meraviglioso e sofferente della vita è forse il fondamento comune tra queste due esperienze spirituali. [...] L’esperienza religiosa include l’idea di progressione irreversibile, l’esperienza poetica non ignora le fatiche di Sisifo del ricominciamento da zero. In altre parole l’esperienza religiosa dà a chi la vive uno stato, l’esperienza poetica mette colui che la vive in una virtualità che s’illumina solo dalle parole trovate, le quali non servono più a chi le ha scritte e non servono per un’altra volta. [...] Eppure questa parola friabile [della poesia] può portare luce alla parola fissa della religione» (lì a p. 39). Solo la Parola, quella divina, chiarisce il mondo e il destino dell’uomo, il flusso della vita e della storia e i novissimi.
E assieme (Colloquio con Mario Specchio, p. 236): «La parola trovata, trovata nel suo spessore, nella sua autenticità, è giustificazione primaria, la parola che nomina ma anche fa esistere la cosa, in fondo non so più se è religione o se è poesia». Tale poetica non poteva non portare a una lunga, profonda, suggestiva, persino pitica se si vuol usare un termine anche luziano, riflessione sul Prologo del Vangelo di Giovanni. Ancora Mario Specchio nel Colloquio osservava (p. 234) a proposito di Per il battesimo dei nostri frammenti che la raccolta si apre con l’esergo del prologo di Giovanni e che di quel libro luziano il motivo centrale è il nome, «il mistero della parola, che è anche mistero della creazione e soprattutto mistero dell’incarnazione». Ma ancora di più, dice lì lo stesso Luzi (p. 190): «Il Logos che si fa carne [...] rinnova il linguaggio, testimoniandolo con sangue, in un certo senso. Questa è la sublimità di questo Logos, insomma, che si è fatto carne, mi pare».
Tutti gli scritti di Luzi e questi soprattutto escono di lì e lì intorno ruotano (le tangibili persistenti tracce ermetiche testimoniano gli spasimi delle gestazioni, le difficoltà a capire e a esprimere, o la necessità di stendere attorno l’alone sacro e misterico, l’inattingibilità del mistero). Le loro parole, la loro parola partecipa di questa pregnanza, di lì trae una tensione agonistica (il termine è suo: «L’agonismo, la lama dell’espressione e il timbro, della parola» di san Paolo), una sofferenza a chiarirsi, a esplicitarsi, a uscire dalla nostra «angustia mentale» e miseria morale, riconoscendo la nostra «insignificanza», ma proprio con ciò ricuperando la nostra «dignità» (così nella prefazione a Giobbe). Dovunque in queste pagine serpeggia ancora, trasposto nel discorso poetico, il testo paolino della creazione che «geme» nelle doglie del parto, e noi stessi che possediamo la primizia dello Spirito, anche noi gemiamo nell’attesa dell’adozione e nella speranza di ciò che non si vede, con quel che segue in quel celebre capitolo della Lettera ai Romani.
Poi il silenzio, / quel silenzio si dice è la tua voce». È la Parola l’unica possibilità, sia essa poetica o religiosa, di conoscenza e di rappresentazione.
In Poetica e romanzo, che pure sono pagine non ultime (1973), Luzi si diffondeva in un intero capitolo sul nesso tra poesia e religione, così stretto ai suoi occhi da riuscire «inestricabile». La poesia è alle sue origini manifestazione del pensiero religioso, e la religiosità è intrinseca alla poesia almeno in quella «fondamentale interrogazione» sull’uomo e sul mondo che costituisce la sua religiosità peculiare; essa condivide e presta il suo linguaggio metaforico, visionario, intuitivo all’esaltazione e alla profezia proprie dei libri sacri. È essa, la poesia, che «distrugge la lettera per ripristinare ed espandere lo spirito» (perciò questi temi torneranno nel ’90 e nel 2002 nella prefazione «Sul discorso paolino» alle Lettere di san Paolo); «il senso meraviglioso e sofferente della vita è forse il fondamento comune tra queste due esperienze spirituali. [...] L’esperienza religiosa include l’idea di progressione irreversibile, l’esperienza poetica non ignora le fatiche di Sisifo del ricominciamento da zero. In altre parole l’esperienza religiosa dà a chi la vive uno stato, l’esperienza poetica mette colui che la vive in una virtualità che s’illumina solo dalle parole trovate, le quali non servono più a chi le ha scritte e non servono per un’altra volta. [...] Eppure questa parola friabile [della poesia] può portare luce alla parola fissa della religione» (lì a p. 39). Solo la Parola, quella divina, chiarisce il mondo e il destino dell’uomo, il flusso della vita e della storia e i novissimi.
E assieme (Colloquio con Mario Specchio, p. 236): «La parola trovata, trovata nel suo spessore, nella sua autenticità, è giustificazione primaria, la parola che nomina ma anche fa esistere la cosa, in fondo non so più se è religione o se è poesia». Tale poetica non poteva non portare a una lunga, profonda, suggestiva, persino pitica se si vuol usare un termine anche luziano, riflessione sul Prologo del Vangelo di Giovanni. Ancora Mario Specchio nel Colloquio osservava (p. 234) a proposito di Per il battesimo dei nostri frammenti che la raccolta si apre con l’esergo del prologo di Giovanni e che di quel libro luziano il motivo centrale è il nome, «il mistero della parola, che è anche mistero della creazione e soprattutto mistero dell’incarnazione». Ma ancora di più, dice lì lo stesso Luzi (p. 190): «Il Logos che si fa carne [...] rinnova il linguaggio, testimoniandolo con sangue, in un certo senso. Questa è la sublimità di questo Logos, insomma, che si è fatto carne, mi pare».
Tutti gli scritti di Luzi e questi soprattutto escono di lì e lì intorno ruotano (le tangibili persistenti tracce ermetiche testimoniano gli spasimi delle gestazioni, le difficoltà a capire e a esprimere, o la necessità di stendere attorno l’alone sacro e misterico, l’inattingibilità del mistero). Le loro parole, la loro parola partecipa di questa pregnanza, di lì trae una tensione agonistica (il termine è suo: «L’agonismo, la lama dell’espressione e il timbro, della parola» di san Paolo), una sofferenza a chiarirsi, a esplicitarsi, a uscire dalla nostra «angustia mentale» e miseria morale, riconoscendo la nostra «insignificanza», ma proprio con ciò ricuperando la nostra «dignità» (così nella prefazione a Giobbe). Dovunque in queste pagine serpeggia ancora, trasposto nel discorso poetico, il testo paolino della creazione che «geme» nelle doglie del parto, e noi stessi che possediamo la primizia dello Spirito, anche noi gemiamo nell’attesa dell’adozione e nella speranza di ciò che non si vede, con quel che segue in quel celebre capitolo della Lettera ai Romani.
Così ebbe a dire il poeta fiorentino: «La parola trovata, trovata nel suo spessore, nella sua autenticità, è giustificazione primaria, la parola che nomina ma anche fa esistere la cosa, in fondo non so più se è religione o se è poesia.
Il Logos che si fa carne rinnova il linguaggio, testimoniandolo con sangue, in un certo senso. Questa è la sublimità di questo Logos, insomma, che si è fatto carne»
«Avvenire» del 9 gennaio 2011
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