di Claudio Sartea
«La legge sull’aborto non si tocca!»: è lo slogan degli avanguardisti radicali ripetuto infinite volte, almeno a partire dal referendum che tentò, nel giugno 2005, di abrogare la legge sulla procreazione medicalmente assistita (la 40 del febbraio 2004). Da allora le due normative si sono trovate affratellate nella discussione pubblica, ma secondo un bizzarro destino: mentre la legge sull’aborto (194 del 1978) è stata collocata sotto una campana di vetro e sempre difesa da quello slogan, la meno fortunata legge sulla fecondazione artificiale si è invece vista aggredire da tutti i lati: prima dalla campagna mediatica, quindi da alcuni settori della magistratura che stanno ancora tentando di smantellarla. l fenomeno è curioso e certamente dipende da un numero elevato di cause e circostanze: ma se ne può forse azzardare una spiegazione generale. La contraddizione tra l’atteggiamento protezionistico verso la legge sull’aborto e l’opposta inclinazione abrogativa nei riguardi della legge sulla fecondazione artificiale non sembra avere solo banali giustificazioni politiche o ideologiche: anche chi ha deprecato la presunta natura 'cattolica' della legge 40 deve riconoscere, dati storici alla mano, che c’erano molti più 'cattolici' nella maggioranza parlamentare del 1978 che in quella del 2004. Esiste forse qualcosa di più profondo e meno istituzionale che attraversa le contraddittorie rivendicazioni cui continuamente assistiamo in bioetica (più leggi, o leggi più forti e intoccabili; meno leggi, o leggi smontabili e ricomponibili).
A ben guardare, la legge 194 piace perché fu ed è legge permissiva: eliminò, sulla scorta della sentenza costituzionale 27/1975, il reato di aborto e depenalizzò la relativa pratica clinica a certe condizioni. La legge 40, al contrario, non piace affatto perché fu ed è legge prescrittiva: disciplinò il famoso far west procreativo imponendogli limiti e regole che, a dir la verità, quasi tutti invocavano, almeno finché non lessero la normativa concretamente approvata. Sembra allora che alla radice di tanto dibattito bioetico e biogiuridico sia piuttosto l’interpretazione della libertà umana, in relazione alla vita biologica e alle applicazioni tecnologiche: una questione schiettamente filosofica.
I radicali, va riconosciuto, sono sul punto coerenti, e compulsivamente riportano ogni affermazione istituzionale o propagandistica verso questo principio primo da cui ogni ulteriore decisione – anche legislativa – dipende. Ma hanno ragione nel proclamare la libertà come una priorità assoluta e irrelata? Che cosa intendono per libertà: mera assenza di condizionamenti e vincoli all’agire, nel nome di una concezione dell’uomo lontanissima da quella franca constatazione della realtà che per esempio faceva dire ad Hannah Arendt, pensatrice agnostica molto sensibile al tema, che l’uomo è fortunatamente l’essere più condizionato e condizionabile che esista? E poi, anche ammesso che l’idea di libertà che si porta avanti sia plausibile, della libertà di chi stiamo parlando, se con essa si avalla anche normativamente il potere dei forti sui deboli (si pensi all’orrore dell’eutanasia 'medica' del nazismo, o anche all’aborto eugenetico pacificamente praticato nei nostri ospedali, o al congelamento degli embrioni soprannumerari)?
In gioco non è tanto l’esistenza o il contenuto delle norme ma la loro conciliazione con la libertà di individui che vivono assieme: quel che da sempre si è pensato, e cioè che ubi societas, ibi jus (e lo jus, oltre ad autorizzare, sa e deve vincolare e prescrivere), ha senso solo se si ammette una verità morale accessibile all’umana ragionevolezza. Lo ha ricordato anche il Papa alla Curia romana, citando il neobeato John Henry Newman: la coscienza non è certo un’istanza soggettivistica, bensì «capacità di verità e obbedienza nei confronti della verità, che si mostra all’uomo che cerca col cuore aperto».
A ben guardare, la legge 194 piace perché fu ed è legge permissiva: eliminò, sulla scorta della sentenza costituzionale 27/1975, il reato di aborto e depenalizzò la relativa pratica clinica a certe condizioni. La legge 40, al contrario, non piace affatto perché fu ed è legge prescrittiva: disciplinò il famoso far west procreativo imponendogli limiti e regole che, a dir la verità, quasi tutti invocavano, almeno finché non lessero la normativa concretamente approvata. Sembra allora che alla radice di tanto dibattito bioetico e biogiuridico sia piuttosto l’interpretazione della libertà umana, in relazione alla vita biologica e alle applicazioni tecnologiche: una questione schiettamente filosofica.
I radicali, va riconosciuto, sono sul punto coerenti, e compulsivamente riportano ogni affermazione istituzionale o propagandistica verso questo principio primo da cui ogni ulteriore decisione – anche legislativa – dipende. Ma hanno ragione nel proclamare la libertà come una priorità assoluta e irrelata? Che cosa intendono per libertà: mera assenza di condizionamenti e vincoli all’agire, nel nome di una concezione dell’uomo lontanissima da quella franca constatazione della realtà che per esempio faceva dire ad Hannah Arendt, pensatrice agnostica molto sensibile al tema, che l’uomo è fortunatamente l’essere più condizionato e condizionabile che esista? E poi, anche ammesso che l’idea di libertà che si porta avanti sia plausibile, della libertà di chi stiamo parlando, se con essa si avalla anche normativamente il potere dei forti sui deboli (si pensi all’orrore dell’eutanasia 'medica' del nazismo, o anche all’aborto eugenetico pacificamente praticato nei nostri ospedali, o al congelamento degli embrioni soprannumerari)?
In gioco non è tanto l’esistenza o il contenuto delle norme ma la loro conciliazione con la libertà di individui che vivono assieme: quel che da sempre si è pensato, e cioè che ubi societas, ibi jus (e lo jus, oltre ad autorizzare, sa e deve vincolare e prescrivere), ha senso solo se si ammette una verità morale accessibile all’umana ragionevolezza. Lo ha ricordato anche il Papa alla Curia romana, citando il neobeato John Henry Newman: la coscienza non è certo un’istanza soggettivistica, bensì «capacità di verità e obbedienza nei confronti della verità, che si mostra all’uomo che cerca col cuore aperto».
La legge 40 sulla fecondazione assistita? «Va smantellata, è proibizionista». La 194 sull’interruzione di gravidanza? «Guai a chi la tocca». La propaganda che da più di trent’anni accompagna il dibattito pubblico sulla vita umana ha trasformato in luoghi comuni le affermazioni sulle due norme
«Avvenire» del 20 gennaio 2011
Nessun commento:
Posta un commento