di Pier Luigi Celli
Il richiamo rituale a un futuro che sarebbe precluso ai più giovani rischia di trasformarsi in una giaculatoria retorica se non si tenta di argomentarne contenuti e contorni. Visto dal punto d'osservazione dei giovani che puntano a concludere i loro studi e si avviano al lavoro, il futuro presenta oggi tutta una serie di vincoli che rimandano direttamente alle caratteristiche con cui si presenta l'articolazione dello spazio dove vita, lavoro, percorsi formativi, valori superstiti e aspirazioni più o meno esplicite giocano una partita che non sembra avere precedenti.
Il futuro non riesce a nascere perché «non ha tempo per nascere» (Luhmann) incalzato e divorato da un presente che vive di scadenze sempre più urgenti. Ed è proprio il presente, la situazione che si vive, ciò che impedisce al futuro di funzionare, perché la condizione essenziale per concepire il futuro è di avere un presente: una realtà solida su cui fare presa e da cui partire.
Qui si situa gran parte del problema e delle paure per quelli che entrano in un tempo carico d'incertezze, produttore d'insicurezze e disagi, oggetto, al massimo, di precauzioni e di cautele.
Un presente che è tutto attualità, protratto, frammentato, urgente; assemblabile senza logiche apparenti e aperto, nell'esperienza manifesta, a lealtà multiple, quante sono quelle compatibili con i propri mutevoli interessi.
È questo tempo immediato che sembra sottratto alla comprensione e alla capacità di controllo dei più giovani. Non spiegato e lasciato operare come un filtro selettivo, insieme, incolpevole e drammatico. Vittima dell'impossibilità di prevedere con ragionevole certezza quello che potrà accadere, ognuno sarà spinto così a cercarsi la sua personale via dìuscita, il suo futuro individuale; modesto, anche, circoscritto sempre più a un presente protratto e protetto, se possibile, in assenza di valori di riferimento lunghi. E quando il futuro diventa al massimo un futuro personale, si accentuano le diseguaglianze, si alimentano privilegi e logiche opportunistiche e difensive.
Nascere bene aiuta ad avere tempo. Così il futuro diventa un privilegio che divide, nel senso che chi ha più tempo a disposizione sa molto presto che la sua misura diviene la misura del potere sociale ed economico di cui potrà disporre. Se noi guardiamo alle attese, che sono sempre state nelle generazioni più giovani fattori potenti di aggancio al futuro, vediamo che esse hanno subito oggi andamenti ondivaghi e, spesso, contradittori. Per un verso moderate nelle loro pretese nei confronti dell'avvenire, come piegate da una sorta di rassegnazione all'impossibilità di costruire solidi presupposti nel presente, e dall'altro, invece, spinte all'eccesso, sotto l'influenza di un individualismo esasperato, tutto virato a logiche predatorie e di carriera.
Dei due atteggiamenti, il secondo sembra quello più devastante, anche perché intacca ogni possibilità di raccordo sociale, di tessuto connettivo civilmente spendibile in tutti i campi, economia e politica inclusi. È come se nell'incertezza di ogni prospettiva l'unica soluzione possibile apparisse quella di afferrare ogni vantaggio casuale, nel timore che le occasioni non si ripresentino.
Viene in evidenza la mancanza di riferimenti collettivi, di contesti e di memorie condivise; segnali negativi per la possibilità di aggancio a valori che diano continuità nel tempo ai progetti e all'uso delle risorse. Riconquistare la prospettiva del futuro è, oggi, operazione squisitamente educativa; prepolitica, anche, nella direzione di ricostruire un senso per quello che si fa nella cornice d'interessi generali in grado di tutelare tutti, esorcizzando i demoni del presente. Ed è qui che l'università e ogni altra agenzia formativa avrebbero un compito primario, se non si limitassero a essere considerate contenitori di pura trasmissione curricolare, per gran parte piegate a normative che i problemi veri della preparazione alla vita - e non solo alla professione - li sfiorano di lontano e, spesso, con fastidio.
Non si può lavorare sugli studenti immaginando semplicemente di dover preparare delle identità à la carte, buone per tutte le stagioni, quando quella che viviamo è un concentrato di trasformazioni, di contrasti, di bisogni nuovi, che andrebbero interpretati e serviti senza riverenze corporative o castali, per loro natura riduttive e sulla difensiva. Il rischio vero è quello di creare dei "disaffiliati", confermati nella loro precarietà culturale ed emotiva, prima ancora che professionale. Persone che subiranno la tirannia del tempo senza essere preparati a interpretarlo e allungarlo in avanti, verso il futuro. Occorre immaginare un diverso uso dell'istruzione, delle sue strutture e dei suoi programmi.
Vale la pena riportare uno scritto di Margareth Mead, la grande antropologa che ha condiviso col suo compagno George Bateson alcune delle riflessioni più profonde e innovative sul ruolo e i livelli dell'apprendimento. «Il modo con cui è strutturato l'apprendimento - l'organizzazione delle relazioni, l'ambiente fisico e culturale, il clima emotivo, le divagazioni - determina, bene al di là del contenuto concreto delle materie da apprendere, sia come gli individui impareranno a pensare, sia come verrà condiviso e usato l'insieme dei pezzi di abilità e conoscenze».
È il contesto, generalmente inteso come sociale, a innescare le domande di fondo e a sollecitare le risposte più costruttive. Servirebbe averla questa sensibilità. Aiuterebbe, se non a fare a meno di riforme di legge ricorrenti, almeno a scriverle avendo più chiari gli obiettivi.
Tra i quali, una riflessione meno leggera sulla precarietà d'impiego dei prodotti del ciclo scolastico e universitario porterebbe a considerare che l'accorciarsi del ciclo di vita delle competenze, unito alla frammentarietà dei periodi lavorativi, non può vedere consegnato alla pretesa tenuta e scientificità delle conoscenze impartite la capacità di ammortizzare i contraccolpi di un mercato indifferente alle aspirazioni dei singoli.
Serve una testa flessibile, che non ragioni solo per adattamento e succube. Qualcosa che va preparato non per via disciplinare. Su generalismo e specialismo, il loro peso relativo nei programmi formativi e la capacità di coniugarli, non sembra ancora disponibile una visione che tragga spunto dalla articolazione del mondo dell'impiego lavorativo e dalla esatta percezione delle sue continue evoluzioni.
È noto che le specie generaliste, meno esigenti e più orizzontali, hanno una capacità di sopravvivenza molto maggiore delle specie specialiste, che si sono adattate prevalentemente a una particolare nicchia ecologica, e dunque sono selettive, più rigide, meno pronte a interpretare il nuovo. In un contesto come quello attuale, l'adattamento perfetto sarebbe uno svantaggio. La duttilità degli strumenti concettuali dipende anche dalla disponibilità delle strutture educative a ragionare in via sperimentale; valorizzando iniziative e varianze. Incentivando idee, progetti e lavori con attori molteplici.
In fondo, la pluralità dei punti di vista acuisce lo sguardo largo e aiuta a inglobare futuri possibili come legittimazione di presenti resi meno mobili e precari da un'aspettativa di durata. Recuperare il futuro dipende anche da questa disponibilità a impegnarsi sul presente, aiutando i più giovani a non arrendersi alle sue contraddizioni e coltivando speranze che non dipendono da altri più di quanto non richiedano un impegno e una responsabilità restia a scaricare colpe e imputazioni.
Il futuro non riesce a nascere perché «non ha tempo per nascere» (Luhmann) incalzato e divorato da un presente che vive di scadenze sempre più urgenti. Ed è proprio il presente, la situazione che si vive, ciò che impedisce al futuro di funzionare, perché la condizione essenziale per concepire il futuro è di avere un presente: una realtà solida su cui fare presa e da cui partire.
Qui si situa gran parte del problema e delle paure per quelli che entrano in un tempo carico d'incertezze, produttore d'insicurezze e disagi, oggetto, al massimo, di precauzioni e di cautele.
Un presente che è tutto attualità, protratto, frammentato, urgente; assemblabile senza logiche apparenti e aperto, nell'esperienza manifesta, a lealtà multiple, quante sono quelle compatibili con i propri mutevoli interessi.
È questo tempo immediato che sembra sottratto alla comprensione e alla capacità di controllo dei più giovani. Non spiegato e lasciato operare come un filtro selettivo, insieme, incolpevole e drammatico. Vittima dell'impossibilità di prevedere con ragionevole certezza quello che potrà accadere, ognuno sarà spinto così a cercarsi la sua personale via dìuscita, il suo futuro individuale; modesto, anche, circoscritto sempre più a un presente protratto e protetto, se possibile, in assenza di valori di riferimento lunghi. E quando il futuro diventa al massimo un futuro personale, si accentuano le diseguaglianze, si alimentano privilegi e logiche opportunistiche e difensive.
Nascere bene aiuta ad avere tempo. Così il futuro diventa un privilegio che divide, nel senso che chi ha più tempo a disposizione sa molto presto che la sua misura diviene la misura del potere sociale ed economico di cui potrà disporre. Se noi guardiamo alle attese, che sono sempre state nelle generazioni più giovani fattori potenti di aggancio al futuro, vediamo che esse hanno subito oggi andamenti ondivaghi e, spesso, contradittori. Per un verso moderate nelle loro pretese nei confronti dell'avvenire, come piegate da una sorta di rassegnazione all'impossibilità di costruire solidi presupposti nel presente, e dall'altro, invece, spinte all'eccesso, sotto l'influenza di un individualismo esasperato, tutto virato a logiche predatorie e di carriera.
Dei due atteggiamenti, il secondo sembra quello più devastante, anche perché intacca ogni possibilità di raccordo sociale, di tessuto connettivo civilmente spendibile in tutti i campi, economia e politica inclusi. È come se nell'incertezza di ogni prospettiva l'unica soluzione possibile apparisse quella di afferrare ogni vantaggio casuale, nel timore che le occasioni non si ripresentino.
Viene in evidenza la mancanza di riferimenti collettivi, di contesti e di memorie condivise; segnali negativi per la possibilità di aggancio a valori che diano continuità nel tempo ai progetti e all'uso delle risorse. Riconquistare la prospettiva del futuro è, oggi, operazione squisitamente educativa; prepolitica, anche, nella direzione di ricostruire un senso per quello che si fa nella cornice d'interessi generali in grado di tutelare tutti, esorcizzando i demoni del presente. Ed è qui che l'università e ogni altra agenzia formativa avrebbero un compito primario, se non si limitassero a essere considerate contenitori di pura trasmissione curricolare, per gran parte piegate a normative che i problemi veri della preparazione alla vita - e non solo alla professione - li sfiorano di lontano e, spesso, con fastidio.
Non si può lavorare sugli studenti immaginando semplicemente di dover preparare delle identità à la carte, buone per tutte le stagioni, quando quella che viviamo è un concentrato di trasformazioni, di contrasti, di bisogni nuovi, che andrebbero interpretati e serviti senza riverenze corporative o castali, per loro natura riduttive e sulla difensiva. Il rischio vero è quello di creare dei "disaffiliati", confermati nella loro precarietà culturale ed emotiva, prima ancora che professionale. Persone che subiranno la tirannia del tempo senza essere preparati a interpretarlo e allungarlo in avanti, verso il futuro. Occorre immaginare un diverso uso dell'istruzione, delle sue strutture e dei suoi programmi.
Vale la pena riportare uno scritto di Margareth Mead, la grande antropologa che ha condiviso col suo compagno George Bateson alcune delle riflessioni più profonde e innovative sul ruolo e i livelli dell'apprendimento. «Il modo con cui è strutturato l'apprendimento - l'organizzazione delle relazioni, l'ambiente fisico e culturale, il clima emotivo, le divagazioni - determina, bene al di là del contenuto concreto delle materie da apprendere, sia come gli individui impareranno a pensare, sia come verrà condiviso e usato l'insieme dei pezzi di abilità e conoscenze».
È il contesto, generalmente inteso come sociale, a innescare le domande di fondo e a sollecitare le risposte più costruttive. Servirebbe averla questa sensibilità. Aiuterebbe, se non a fare a meno di riforme di legge ricorrenti, almeno a scriverle avendo più chiari gli obiettivi.
Tra i quali, una riflessione meno leggera sulla precarietà d'impiego dei prodotti del ciclo scolastico e universitario porterebbe a considerare che l'accorciarsi del ciclo di vita delle competenze, unito alla frammentarietà dei periodi lavorativi, non può vedere consegnato alla pretesa tenuta e scientificità delle conoscenze impartite la capacità di ammortizzare i contraccolpi di un mercato indifferente alle aspirazioni dei singoli.
Serve una testa flessibile, che non ragioni solo per adattamento e succube. Qualcosa che va preparato non per via disciplinare. Su generalismo e specialismo, il loro peso relativo nei programmi formativi e la capacità di coniugarli, non sembra ancora disponibile una visione che tragga spunto dalla articolazione del mondo dell'impiego lavorativo e dalla esatta percezione delle sue continue evoluzioni.
È noto che le specie generaliste, meno esigenti e più orizzontali, hanno una capacità di sopravvivenza molto maggiore delle specie specialiste, che si sono adattate prevalentemente a una particolare nicchia ecologica, e dunque sono selettive, più rigide, meno pronte a interpretare il nuovo. In un contesto come quello attuale, l'adattamento perfetto sarebbe uno svantaggio. La duttilità degli strumenti concettuali dipende anche dalla disponibilità delle strutture educative a ragionare in via sperimentale; valorizzando iniziative e varianze. Incentivando idee, progetti e lavori con attori molteplici.
In fondo, la pluralità dei punti di vista acuisce lo sguardo largo e aiuta a inglobare futuri possibili come legittimazione di presenti resi meno mobili e precari da un'aspettativa di durata. Recuperare il futuro dipende anche da questa disponibilità a impegnarsi sul presente, aiutando i più giovani a non arrendersi alle sue contraddizioni e coltivando speranze che non dipendono da altri più di quanto non richiedano un impegno e una responsabilità restia a scaricare colpe e imputazioni.
«Il Sole 24 Ore» del 18 gennaio 2011
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