di Gianni Riotta
La storica vittoria dei sì al referendum di Mirafiori cancella le opposte propagande di questi giorni e onora i lavoratori della Fiat, tutti, quelli che si sono espressi a favore del piano Marchionne e quelli che lo hanno bocciato. Sottoposti a una pressione mediatica volgare, costretti da slogan senza criterio, "Se votate sì siete servi", "Se votate no siete comunisti", hanno deciso di testa loro, come chi conosce bene Torino, e i suoi operai e tecnici, non ha mai dubitato.
Come faranno ora gli estremisti del no a dire che gli operai non ci stanno, visto che la metà ha accettato la svolta dell'innovazione? O proveranno a dire che l'han fatto "sotto ricatto", offendendo chi ha compiuto una libera scelta? Dall'altra parte i pasdaran del sì, e anche in questo campo ci sono stati eccessi di albagia, devono prendere atto che le tute blu si son spaccate, e a salvare la giornata per i riformisti son venuti i colletti bianchi, gli impiegati. A guardare ancora più da vicino la fabbrica – come è obbligatorio sempre, per chi di lavoro si voglia occupare davvero – si vedrà come i no abbiano prevalso, più largamente, nelle sezioni dove le mansioni restano più pesanti.
L'accordo di Torino non è dunque una "vittoria della Fiat", un "successo personale di Marchionne", o il "debutto del giovane Elkann" come troppi dicono, applaudendo o fischiando. È la presa d'atto da parte della più grande fabbrica italiana, della capitale industriale del paese e della classe operaia più antica che, o si producono auto secondo lo standard mondiale di produzione di auto, o la produzione di auto si perde. Il resto son chiacchiere, il modello tedesco, i sogni meravigliosi di Olivetti, la Renault francese: se lo stesso Landini della Fiom andasse a guidare Mirafiori, presto dovrebbe fare i conti con Asia, America Latina, Europa e accettare le inesorabili regole globali.
Il successo chiama ora tutti a un grande senso di responsabilità, in un'Italia con un caos politico ancora aperto, un forte debito pubblico e nella crisi dell'euro che si stenta a governare. Marchionne ha, con una spallata, aperto la porta del presente. Ora occorre intraprendere un percorso che porti tutti, non solo la Fiat o Mirafiori, nel futuro. Ognuno dovrà fare la sua parte. Il governo, scuotendosi da una certa sonnecchiosa attesa. L'opposizione, mettendo da parte le faide, e ragionando sulle proposte di nuova rappresentanza.
La Confindustria che ha incoraggiato e difeso la battaglia di Fiat, ma che ora deve proteggere tutto l'esercito delle imprese, grandi e no, e impedire che il rancore di chi si sente battuto e non accetta la sconfitta, generi risentimenti in altre fabbriche e distretti. I sindacati che han vinto, la Cisl di Bonanni, la Uil, Ugl, devono tornare a dialogare con i battuti, perché altrimenti un sordo logorio prevarrà. La Cgil di Camusso che può vantare un no forte ma sconfitto, e chiedere dunque alla Fiom riottosa di non rinunciare alla rappresentanza per un velleitario puntiglio di ideologia. Altro che "firma tecnica". Qui si tratta, se Fiom non vuole lasciare i suoi sostenitori nel campo di Agramante della frustrazione, di stare bene dentro il conflitto del XXI secolo, ma ragionando. E infine la Fiat, che può dispiegare finalmente progetti, investimenti, nuovi modelli, governance, sinergia con la Chrysler, dimostrando che i critici più occhiuti hanno sbagliato e che Fabbrica Italia non è slogan, ma laboratorio.
Di questo parla lo scontro Fiat, di come l'Italia deve e può stare nel XXI secolo. E se inquadrate il voto di Mirafiori nel Dossier economia Italia che Il Sole 24 Ore ha preparato oggi, in esclusiva, con la Banca d'Italia, vedrete come un campione di 481 imprese rivendichi, a nome di tutta la manifattura italiana, il diritto di non essere lasciato solo nel mare della crisi.
Ascoltate le voci di chi non ha ai cancelli della fabbrica né telecamere, né politici in cerca di spot. Sentite il malessere profondo di chi deve, a sua volta, tentare di navigare nel mare della globalità ma non ha ancora sufficienti contatti internazionali. Ridurre al silenzio chi in Italia si ostina a produrre ricchezza e lavoro vanificherebbe perfino il risultato di Mirafiori: perché o entriamo tutti nell'industria della globalità, o non ci entra nessuno.
Cosa chiedono nel nostro Dossier economia Italia le aziende? Accesso al credito. Monitoraggio dei prezzi delle materie prime, di cui nessuno discute e ragiona da noi. Ancora riflessioni e innovazioni sul costo del lavoro. Un sistema fiscale meno punitivo. Difesa del personale qualificato, che i momenti negativi possono disperdere. Occhio all'inflazione. E naturalmente stabilità politica, ma non mascherata da una perenne rissa, giusto mentre la crisi divide l'euro e l'Europa.ù
Sfogliare oggi questo giornale, dallo storico risultato di Mirafiori al grido di allarme delle aziende, illustra l'agenda del 2011 italiano. Avanti nei grandi stabilimenti con innovazione e investimenti, avanti nelle piccole e medie imprese che innervano di lavoro i territori. Senza fughe in avanti, senza attese di un passato che non tornerà: mai più. Dalla Fiat oggi si può davvero ripartire, per portare l'intero sistema della produzione italiana, il secondo in Europa, a ricreare occupazione per i giovani, sviluppo, ricerca, benessere. Se non ora, quando?/span>
Come faranno ora gli estremisti del no a dire che gli operai non ci stanno, visto che la metà ha accettato la svolta dell'innovazione? O proveranno a dire che l'han fatto "sotto ricatto", offendendo chi ha compiuto una libera scelta? Dall'altra parte i pasdaran del sì, e anche in questo campo ci sono stati eccessi di albagia, devono prendere atto che le tute blu si son spaccate, e a salvare la giornata per i riformisti son venuti i colletti bianchi, gli impiegati. A guardare ancora più da vicino la fabbrica – come è obbligatorio sempre, per chi di lavoro si voglia occupare davvero – si vedrà come i no abbiano prevalso, più largamente, nelle sezioni dove le mansioni restano più pesanti.
L'accordo di Torino non è dunque una "vittoria della Fiat", un "successo personale di Marchionne", o il "debutto del giovane Elkann" come troppi dicono, applaudendo o fischiando. È la presa d'atto da parte della più grande fabbrica italiana, della capitale industriale del paese e della classe operaia più antica che, o si producono auto secondo lo standard mondiale di produzione di auto, o la produzione di auto si perde. Il resto son chiacchiere, il modello tedesco, i sogni meravigliosi di Olivetti, la Renault francese: se lo stesso Landini della Fiom andasse a guidare Mirafiori, presto dovrebbe fare i conti con Asia, America Latina, Europa e accettare le inesorabili regole globali.
Il successo chiama ora tutti a un grande senso di responsabilità, in un'Italia con un caos politico ancora aperto, un forte debito pubblico e nella crisi dell'euro che si stenta a governare. Marchionne ha, con una spallata, aperto la porta del presente. Ora occorre intraprendere un percorso che porti tutti, non solo la Fiat o Mirafiori, nel futuro. Ognuno dovrà fare la sua parte. Il governo, scuotendosi da una certa sonnecchiosa attesa. L'opposizione, mettendo da parte le faide, e ragionando sulle proposte di nuova rappresentanza.
La Confindustria che ha incoraggiato e difeso la battaglia di Fiat, ma che ora deve proteggere tutto l'esercito delle imprese, grandi e no, e impedire che il rancore di chi si sente battuto e non accetta la sconfitta, generi risentimenti in altre fabbriche e distretti. I sindacati che han vinto, la Cisl di Bonanni, la Uil, Ugl, devono tornare a dialogare con i battuti, perché altrimenti un sordo logorio prevarrà. La Cgil di Camusso che può vantare un no forte ma sconfitto, e chiedere dunque alla Fiom riottosa di non rinunciare alla rappresentanza per un velleitario puntiglio di ideologia. Altro che "firma tecnica". Qui si tratta, se Fiom non vuole lasciare i suoi sostenitori nel campo di Agramante della frustrazione, di stare bene dentro il conflitto del XXI secolo, ma ragionando. E infine la Fiat, che può dispiegare finalmente progetti, investimenti, nuovi modelli, governance, sinergia con la Chrysler, dimostrando che i critici più occhiuti hanno sbagliato e che Fabbrica Italia non è slogan, ma laboratorio.
Di questo parla lo scontro Fiat, di come l'Italia deve e può stare nel XXI secolo. E se inquadrate il voto di Mirafiori nel Dossier economia Italia che Il Sole 24 Ore ha preparato oggi, in esclusiva, con la Banca d'Italia, vedrete come un campione di 481 imprese rivendichi, a nome di tutta la manifattura italiana, il diritto di non essere lasciato solo nel mare della crisi.
Ascoltate le voci di chi non ha ai cancelli della fabbrica né telecamere, né politici in cerca di spot. Sentite il malessere profondo di chi deve, a sua volta, tentare di navigare nel mare della globalità ma non ha ancora sufficienti contatti internazionali. Ridurre al silenzio chi in Italia si ostina a produrre ricchezza e lavoro vanificherebbe perfino il risultato di Mirafiori: perché o entriamo tutti nell'industria della globalità, o non ci entra nessuno.
Cosa chiedono nel nostro Dossier economia Italia le aziende? Accesso al credito. Monitoraggio dei prezzi delle materie prime, di cui nessuno discute e ragiona da noi. Ancora riflessioni e innovazioni sul costo del lavoro. Un sistema fiscale meno punitivo. Difesa del personale qualificato, che i momenti negativi possono disperdere. Occhio all'inflazione. E naturalmente stabilità politica, ma non mascherata da una perenne rissa, giusto mentre la crisi divide l'euro e l'Europa.ù
Sfogliare oggi questo giornale, dallo storico risultato di Mirafiori al grido di allarme delle aziende, illustra l'agenda del 2011 italiano. Avanti nei grandi stabilimenti con innovazione e investimenti, avanti nelle piccole e medie imprese che innervano di lavoro i territori. Senza fughe in avanti, senza attese di un passato che non tornerà: mai più. Dalla Fiat oggi si può davvero ripartire, per portare l'intero sistema della produzione italiana, il secondo in Europa, a ricreare occupazione per i giovani, sviluppo, ricerca, benessere. Se non ora, quando?/span>
«Il sole 24 Ore» del 16 gennaio 2011
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