« - Forse - rispondeva la donna, quasi protendendo il sorriso contro il vento eroico della rapidità, nel battito del suo gran velo ora grigio ora argentino come i salici della pianura fuggente.»
Così inizia quello che Roncoroni definì emblematicamente — scegliendolo come titolo del suo intervento a un convegno dedicato al Forse — «l’ultimo romanzo» del Vate. Fu infatti lo stesso d’Annunzio a definire il successivo La Leda senza cigno (1916) un semplice “racconto”.
La donna a pronunciare quel “forse” è Isabella Inghirami, probabilmente nella realtà la contessa Giuseppina Mancini, come risulta dal taccuino del 14 agosto 1908: «Il vento agita il velo bianco di Giusi». La stesura del romanzo era iniziata con qualche difficoltà già l’anno prima, ma il lavoro non pareva decollare. Quel “forse” sarà un leitmotiv e già ben descrive i continui ripensamenti di Isabella che, innamorata di Paolo Tarsis, prova continui rimorsi per quel suo sentimento: sarà questa indecisione a renderla ancor più affascinante e desiderabile agli occhi dell’amato. Il suo carattere è mosso dall’alternarsi di momenti di ritrosia ad attimi di lascivia furibonda; sente però sempre su di lei il senso di colpa, così profondo e persecutorio da generare nella sua mente stati allucinatori e paranoie. La sorella Vana, nella sua mente, da nome diventerà fantasma e voce. Vana è una visione ossessiva e continua, perché (è questa la causa dei mali di Isa) anche Vana è innamorata di Paolo, pur non essendo corrisposta. Vana, pagina dopo pagina, occuperà sempre più spazio nella mente della sorella, che sentirà sempre più prepotentemente, nella notte stellata come nella sua anima, i passi agitati della solitaria vergine suicida. Amore e gelosia le agiteranno. Suicidio e follia le separeranno.
In quel maggio del 1907, fra il 24 e il 26, Gabriele d’Annunzio è nella terra dei Gonzaga, dove forse spera di trovare sollievo ai tormenti d’amore. «Domattina potrei partire con la stessa automobile per Mantova» scrive all’amante Giuseppina, contessa nata Giorgi e sposa a Lorenzo Mancini. Quell’autobiografico “forse” (recuperato dai suoi carteggi) simboleggia anche il modus operandi e l’arte di d’Annunzio; egli pesca eventi dai suoi taccuini e dalle sue lettere; trasfigura paesaggi e ambienti visti; condensa immagini appartenenti a esperienze diverse; sovrappone e ricompone innumerevoli situazioni e vicende amorose e personali della sua vita nell’arte. È nota fin dai tempi del suo primo romanzo (Il piacere, 1888-1889) l'abitudine scrittoria che lo spinge a inserire nelle opere, con molti rischi — ricordiamo nel caso del Forse la disputa quasi legale con gli Inghirami —, importanti frammenti della sua vita, come ad esempio quelli allora tratti dalle lettere a Barabara Leoni.
Stupisce in d’Annunzio non tanto questo suo far arte della vita, quanto quel suo far dell’arte vita stessa. Spesso infatti la voce e il pensiero di Paolo Tarsis (o dei suoi personaggi romanzeschi) diventeranno ispiratori di frasi e pensieri che poi il Vate inserirà nelle lettere da spedire alle amanti. Risulta complesso quindi, da questa ambiguità, ricostruire filologicamente la sua arte deducendola dalla sua vita, magari separandole. E se inizialmente nel Forse la già citata Manicini e la Franci (amica e per una notte amante) diventano rispettivamente Isabella e Vana, successivamente a ispirare le gesta delle due protagoniste saranno anche le altre donne che in quei mesi accompagneranno i viaggi d’amore del poeta: Nathalie de Goloubef, Beatrice Alvarez de Toledo e il marito Illan de Toledo (Aldo nel romanzo). Verrà ricordata anche la Duse e il loro viaggio in Egitto. Nel lungo flashback sulle avventure di Paolo e Giulio, alle immagini egiziane si aggiungeranno immagini algerine, prese dai libri del pittore Formentin sui viaggi in Algeria, e visioni di paesaggi remoti, raggiunti in quegli anni dall’esploratore inglese Henry Savane Landor (conosciuto da d’Annunzio a Firenze). Compariranno anche citazioni alle anticipazioni futuriste del Marasso di La nuova arma. La macchina (1905), e richiami alle imprese del volo eroico dei fratelli Wright (settembre 1908): Giulio Cambiaso è Orville Wright, precipitato durante un tentativo di record di volo; Paolo Tarsis è invece Wilbur Wright, che vendicherà la morte del fratello-amico sorvolando e superando traguardi mai raggiunti prima.
Il Forse è ambientato fra le «più moderne vicende» dell’epoca ma questo modernismo non dev’essere frainteso. La macchina viene quasi glorificata: nell’iniziale precipitosa corsa verso Mantova della macchina rossa lanciata in una furibonda gara mortale; nella gara verso il cielo sull’ordigno dedaleo lanciato «a un’altezza non raggiunta mai»; nei voli d’amore sull’Arno e su Pisa; nella folle corsa nei pressi di Covigliaio verso Firenze e verso Isabella e poi ancora nell’attraversamento del mare «d’Ulisse e d’Enea» sull’Ardea verso la morte, poi vinta dalla quasi gridata «volontà di vivere». Ma questo continuo alternarsi di «rapidità che striscia» e «di rapidità che si solleva» non deve però trarre in inganno: non bisogna fraintendere il Modernismo con il Futurismo, che proprio in quegli anni stava nascendo. La celebrazione del meccanismo perfetto è anche demistificazione. Fra rombi guerreschi e settuple consonanze si scopre come a essere glorificato sia l’uomo, nonostante tutto, più che il mezzo. È un uomo silenzioso, assorto e chiuso nei suoi pensieri ermetici. Sopra la pulsazione del motore e il riso della donna c’è «un silenzio senza confine», una «solitudine aerea», il dolore e l’attesa. La volontà è l’unica difesa e arma dell’uomo; una volontà temeraria, perfetta, rude, tesa, cieca, tortuosa, vacillante, disperata, angusta e vittoriosa; la volontà di giungere, di piangere, di martirio, di ripulsa, di vivere e di gioco. Ma l’unica potenza senza limiti capace di disarmarla è l’amore: il turbinio dell’amore. L’amore implacabile vince Isabella, vince Vana, Aldo e Paolo; è l’amore a sfidare «la morte compagna d’ogni gioco che valga la pena d’esser giocato». Perché nulla è certo fuorché la crudeltà e la fame del cuore. L’amore e l’amicizia sono i protagonisti, e nello strazio e nella voluttà sono una sola febbre. Quella voluttà selvaggia, sanguigna, letale, nemica e nuova, piloterà il funzionamento del «congegno esatto» che dipende scioccamente anche dallo «scocco di una scintilla», dal «distacco di un filo», dalla rottura di un’elica o dal «distacco di una tavoletta contrapposta al tubo di scarico». Ciò che sospinge la macchina è insomma l’uomo, e solo nella competizione folle e nella follia di un atroce senso di colpa fraterno, l’impossibilità di voler ridiscendere o di svoltare immediatamente sull’erta ripida e stretta, viene detto “destino”. Senza uomo la macchina è una «carcassa inanime».
A questo modernismo (a tratti anche drammatico) dei temi, tipico dell’euforia meccanica dei primi anni del ‘900 e prima degli eventi bellici, si aggiunge la classicità, la citazione erudita e il recupero dei classici. Esemplare il volo verticale di Cambiaso: «E affascinato dal cielo si portò più in alto. La vicinanza del sole ardente ammorbidì la cera odorosa che teneva unite le penne. Si strusse, la cera» (Ovidio) e «non più col disco di bronzo ma con l’ala di canapa […] forse tal fu la prima penna caduta dall’omero d’Icaro» (d’Annunzio). Così inizia la descrizione dell’aereo di Giulio che inizia a precipitare: con la rievocazione della vicenda di Dedalo e Icaro delle Metamorfosi (tema già peraltro utilizzato per chiudere la serie di Ditirambi). Sono innumerevoli gli altri esempi possibili. Grande è l’eco delle immagini antiche che rimbombano fra le mura del palazzo dei Gonzaga, come anche nei nomi Dauno e Pilumno; rievocazioni e citazioni che si confondono ancora una volta con gli appunti registrati sul taccuino: «In un soffitto del Palazzo a Mantova è rappresentato un labirinto d’oro in campo oltremarino; e vi ricorrono parole dubitose: “Forse che sì” “Forse che no” ».
E fra il giallo del sole su Mantova e Brescia, e il blu del mar d’Enea e Ulisse, si compierà il romanzo dannunziano.
Il libro inizia nelle strade verso la “Mantua” virgiliana e si può dire che finisca col decollo dalla spiaggia della virgiliana Ardea. L’evocatività di Ardea, decadente già ai tempi di Virgilio e dell’Eneide, ma soprattutto le pagine con le descrizioni della ruina della reggia estense e di Volterra — «costruita di quella pietra etrusca che imprigiona il sole, sopra una voragine infernale che sembra scavata dall’irosa fantasia dantesca» (a Emilio Treves, 30 ottobre 1909) — meglio di qualsiasi studio critico e di qualsiasi altro romanzo ci consentono, fra l’altro, di ripercorrere in chiave decadente e romanzesca Le città del silenzio.
Le descrizioni nel Forse del Palazzo di Mantova e quelle del Palazzo di Volterra devono essere considerate il più chiaro manifesto del Decadentismo italiano, colto in tutta la sua cupa forza evocativa e nel momento più profondo: lontano dalle fuorvianti aspirazioni aristocratiche, eroiche (tutte europee) di Effrena o Sperelli e lontano dagli eccessi di A rebours o dall’ostentato gioco aforistico di Wilde. D’Annunzio in queste sue pagine così prossime all’esilio francese e così vicine all’Uomo, alla fragilità della mente e alla follia (a Volterra discuterà a lungo con uno psichiatra per rappresentare la pazzia di Isabella), si proclamerà «leso dalla vita». Il Forse che sì, forse che no è «un romanzo di passione mortale», dirà lui stesso in una lettera a Treves datata 30 agosto 1908. Il Forse dà vita alle figure shakespeariane, disseppellisce i mostri dell’Inferno dantesco facendoli vagare per Volterra (come dimenticare Andrea de’ Mozzi?), ha il coraggio di denunciare il “lordume” che si cela dietro ogni sentimento e dentro ciascuno di noi. C’è il fazzoletto dell’Otello, la prova del tradimento subito e dell’affronto. Ciò che in William era lirica creazione e geniale immaginazione metaforica, qui diventa tragico simbolo e realtà: c’è Iago in Isabella e in Vera. E in Paolo, come in noi stessi, convivono l’amore, la dolcezza, l’invidia, la gelosia e la violenza: incubi e vizi di ogni uomo. «Ma chi può giudicare l’amore? E chi può dire il termine della voluttà e il termine del tormento, e dove il bene cessi d’essere il bene, e per che modo una nuova vergogna crei un amore nuovo, e di che cosa debba vivere l’amore per piacere alla morte? Come fate voi a condannare e ad assolvere?». Forse, proprio in questa consapevolezza del dubbio e dell’incertezza, sta tutta la modernità di quest’opera. Il ripetersi come un'eco di quel nome simbolico (Vana), ricorda il drammatico ripetersi dell’onomatopeico «Nevermore» del Corvo di Poe; Vana compare riflessa nei cristalli della galleria degli Specchi nel palazzo dei Gonzaga (specchio, tema già caro al d’Annunzio della Contemplazione), dove si specchia Isabella con il volto di Tamar [cfr. Samuele, II, XIII.] della quale il fratello Ammon (Aldo nel romanzo) si innamorerà. La presenza e l’ombra di Vana incombono su ogni cosa.
C’è in Tarsis l’incapacità di compiere, fino in fondo, atti eroici: l’incertezza accompagna ogni atto di forza. Nulla, nessuna impresa è possibile senza davvero temere la morte e senza davvero sentirsi ancorati alla preziosità della vita; pur stando fra le nuvole, verso la morte, la vita si fa improvvisamente sentire nel bruciore del piede che vuole essere lenito. Parafrasando il Vate direi che nel Forse di eroico c’è solo il sentimento dell’amicizia, non l’uomo — le ultime righe del romanzo liquidato nel 1910 erano diverse e ben più significative: «… scivolò fino alla riva, e tenne il piede immerso nel mare». Nel 1927 il nuovo finale (l’attuale) diventò: «… parve che gli medicassero la piaga immersa gli spiriti del mare». Questa modifica (l’unica poiché gli altri furono ritocchi di punteggiatura) ha spesso fatto fraintendere il messaggio di tutto il romanzo. Sembrerebbe infatti che quegli attenti spiriti del mare rappresentino l’eroicità dell’uomo. Invece non devono essere sopravvalutati i riemersi caratteri del superuomo, riconoscibili in quel già citato medicamento: tutto il romanzo è basato sull’umana incertezza, presente in ogni azione, in ogni personaggio. Possiamo giustificare e comprendere quella correzione al finale se pensiamo alla mutata situazione politica italiana del ’27 rispetto ai tempi dell’intera stesura del romanzo. Resta tuttavia un dubbio: perché la Mondadori ha scelto di pubblicare la versione del ’27, narrativamente meno coraggiosa? Il finale del 1910, non rappresenta forse un caso stilisticamente eccezionale nella prosa di d’Annunzio e che pertanto andrebbe preferito al rimaneggiamento successivo, che andrebbe messo in nota?
In tutte le immagini del romanzo, come in un certo Naturalismo che evoca Balzac e i suoi personaggi, v’è la corrispondenza fra l’animo e le cose: un viso d’angelo si trasforma in demone, una creatura tremante si trasforma in titanica sibilla michelangiolesca… «Vedi? vedi? […] sono io così, dentro di te? È così la tua arsura?» chiede Isa al compagno disperato mentre guardano una «terra senza dolcezza, una landa malvagia, un deserto di cenere». «Il casale tristo come i tufi […] con un solo cipresso nero in tanta pallidezza, ritto su la sua ombra corta» e le Balze, rispecchiano la desolazione di un paesaggio tutto interiore. Il paesaggio triste simboleggia la tragica storia dei protagonisti, e anche le stelle cadenti nella notte di san Lorenzo, come sgorgate lacrime di fuoco bianche, colano sulla faccia della notte e si precipitano dall’alto come silenziosi e terribili responsi di morte, come un profetico pianto di stelle, sul triste destino dei protagonisti. Tutto è ammantato da un’aura misteriosa che accompagna la sventura. La natura è «chiamata a far da testimone», e le cose misteriosamente paiono contenere un sovrasenso, in un regime di coincidentia oppositorum, così da far apparire in tutte le manifestazioni del visibile la molteplicità e l’incertezza dell’animo umano.
Ed è significativo che proprio quel paradisiaco hortus conclusus di Isabella (il suo amato giardino di gelsomini), confini con la «reggia della Follia»: il manicomio.
Fonte: http://www.italialibri.net/opere/forsechesiforsecheno.html
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