di Paola Mastrocola e Luca Ricolfi
Ma chi è? Ma che film è? Non sappiamo niente, ma ne abbiamo sentito dir bene. Bontà del passaparola... Ci arriviamo per caso: dovevamo vedere tutt’altro film, ma il sabato è un disastro, non c’erano più posti. Ripieghiamo su questo titolo a noi sconosciuto: Che bella giornata. Entriamo in una sala enorme, gremita. Centinaia di spettatori. Noi due ignari, inconsapevoli... e travolti! Subito travolti da una comicità inaspettata, inedita, che non riusciamo a ricondurre a nulla di recente e noto. Il contrario del déjà vu, la piacevolissima sensazione di essere finalmente davanti a qualcosa di nuovo, veloce, in questo nostro mondo vecchio, ripetitivo, incollato a se stesso e alle sue idee sempre uguali.
Ma chi è questo Checco Zalone? Nel film è un giovane del Sud, disoccupato, precario, allegro, solare, ridente. Raccomandato, donnaiolo, sbruffone. Ingenuo, candido... Ci viene in mente Marcovaldo. E un po’ anche Candide. E Alberto Sordi, Totò, Peter Sellers, Massimo Troisi. E Charlot... Personaggi inconsapevoli di sé, ignari. Di un’ignoranza innocente e salvifica, che rende leggeri e persino fortunati. La semplicità delle anime belle, l’ingenuità, una spontaneità un po’ sbruffonesca, monelleria malandrina al limite della legge: come per esempio lasciare il posto di lavoro - il Duomo di Milano! - incustodito, tutta la gente in coda, e un cartello appeso con su scritto «Sono al bar». Sfacciati e veri, spregiudicatamente leali. Checco Zalone è così: buono, aperto, generoso. Gli va tutto male, ma lui non se ne accorge. E come per miracolo il male si trasforma in bene, o comunque in qualcosa che non fa poi così danno, come un temporale che si allontana, un buio che si stempera e poi, alla fine, diventa quasi luce.
Ci viene da ripensare a che cosa è mai il comico. Oggi spesso è solo satira, grottesco; e invece forse dovrebbe essere uno sguardo ironico su di sé. Ridere di noi, prima di tutto. Il comico è uno specchio. Unione di disincanto e pietà. Non facile. Questo film comico ci sorprende perché ignora i meccanismi soliti, le cinque armi improprie dei film di cassetta: volgarità, turpiloquio, sesso, violenza... e Berlusconi! Riesce a farci ridere, e riflettere, senza adoperare nessuno di questi cinque ingredienti che un po’ - bisogna dirlo - ci sono anche venuti a noia. Li scavalca, li sorpassa, ne fa brillantemente a meno. Non c’è una sola parola volgare, un solo insulto, neanche un bacio... Eppure è travolgente. Vedetevi la scena della «pancia retrattile», o della «nonna intermittente»...
È la realtà? Sì, ma non è realismo. È il verosimile, finalmente! È invenzione, nel senso migliore del termine, quando l’invenzione assomiglia alla realtà ma non lo è. Certo, c’è la nostra Italia, in questo film. Ci siamo noi, gli irriducibili italiani. Ci sono tutti i nostri difetti e tutti i nostri incubi peggiori, i temi più cruciali, i vizi, le illegalità: parentopoli, il terrorismo, il Mezzogiorno, l’Islam, il precariato, la mafia, la Chiesa, Bin Laden. Ma tutto è come trasformato, alleggerito, buttato in aria come una manciata di coriandoli. Effetto-Checco, il «cozzalone» del Sud che non capisce il rischio, non sa chi ha davanti, corre pericoli che non vede, diventa amico dei nemici, s’innamora di chi non dovrebbe. C’è la realtà, ma c’è sempre quel guizzo in più, quella trovata, quel doppio salto mortale che ci solleva dal piatto resoconto documentaristico. È il trionfo del «potrebbe essere». Sarebbe piaciuto un sacco ad Aristotele, questo film... I terribili terroristi islamici vinti da un piatto di cozze, il quadro rubato per amore... Ci torna in mente La vita è bella, quando Benigni entra a cavallo nel ristorante per corteggiare la sua amata. E i cavalieri della tavola rotonda, e Orlando che diventa pazzo, e don Chisciotte che s’inventa Dulcinea... Ci viene in mente che solo la follia guarirà il mondo, il gesto liberatorio, il coraggio di rompere gli schemi.
Credo che la chiave del successo, quel che alla fine, uscendo dal cinema, scopriamo che ci ha preso, è proprio questo: un senso di liberazione e di sfida, il coraggio di un sottile politicamente scorretto, o meglio, un «politicamente non corretto gentile», quasi tenero, mai offensivo. Come quando Checco dice della ragazza araba di cui si sta innamorando: «È un po’ negra, giusto qualche gradazione, zio, non dà fastidio...».
Alla fine non sappiamo se siamo colpevoli o innocenti. Se sia bene o male essere così italiani.... Ma non importa. Ci sentiamo buoni, quasi eroi. Ci riconfortiamo.
Soprattutto, sappiamo che qualcuno, inconsapevolmente, potrebbe anche salvarci... Una specie di varco ci viene offerto, la possibilità di rompere le gabbie quotidiane di un pensiero unico tedioso, sgusciare via dalle grinfie dei tanti buonismi-moralismi ipocriti e non più credibili. Checco Zalone ci dà aria, ci rinfresca i pensieri, ci libera da tutti quei tabù nei quali ci siamo noi stessi impigliati. È come uscire da una stanza buia, polverosa e piena di ragnatele. Come se fosse, finalmente, una bella giornata.
Ma chi è questo Checco Zalone? Nel film è un giovane del Sud, disoccupato, precario, allegro, solare, ridente. Raccomandato, donnaiolo, sbruffone. Ingenuo, candido... Ci viene in mente Marcovaldo. E un po’ anche Candide. E Alberto Sordi, Totò, Peter Sellers, Massimo Troisi. E Charlot... Personaggi inconsapevoli di sé, ignari. Di un’ignoranza innocente e salvifica, che rende leggeri e persino fortunati. La semplicità delle anime belle, l’ingenuità, una spontaneità un po’ sbruffonesca, monelleria malandrina al limite della legge: come per esempio lasciare il posto di lavoro - il Duomo di Milano! - incustodito, tutta la gente in coda, e un cartello appeso con su scritto «Sono al bar». Sfacciati e veri, spregiudicatamente leali. Checco Zalone è così: buono, aperto, generoso. Gli va tutto male, ma lui non se ne accorge. E come per miracolo il male si trasforma in bene, o comunque in qualcosa che non fa poi così danno, come un temporale che si allontana, un buio che si stempera e poi, alla fine, diventa quasi luce.
Ci viene da ripensare a che cosa è mai il comico. Oggi spesso è solo satira, grottesco; e invece forse dovrebbe essere uno sguardo ironico su di sé. Ridere di noi, prima di tutto. Il comico è uno specchio. Unione di disincanto e pietà. Non facile. Questo film comico ci sorprende perché ignora i meccanismi soliti, le cinque armi improprie dei film di cassetta: volgarità, turpiloquio, sesso, violenza... e Berlusconi! Riesce a farci ridere, e riflettere, senza adoperare nessuno di questi cinque ingredienti che un po’ - bisogna dirlo - ci sono anche venuti a noia. Li scavalca, li sorpassa, ne fa brillantemente a meno. Non c’è una sola parola volgare, un solo insulto, neanche un bacio... Eppure è travolgente. Vedetevi la scena della «pancia retrattile», o della «nonna intermittente»...
È la realtà? Sì, ma non è realismo. È il verosimile, finalmente! È invenzione, nel senso migliore del termine, quando l’invenzione assomiglia alla realtà ma non lo è. Certo, c’è la nostra Italia, in questo film. Ci siamo noi, gli irriducibili italiani. Ci sono tutti i nostri difetti e tutti i nostri incubi peggiori, i temi più cruciali, i vizi, le illegalità: parentopoli, il terrorismo, il Mezzogiorno, l’Islam, il precariato, la mafia, la Chiesa, Bin Laden. Ma tutto è come trasformato, alleggerito, buttato in aria come una manciata di coriandoli. Effetto-Checco, il «cozzalone» del Sud che non capisce il rischio, non sa chi ha davanti, corre pericoli che non vede, diventa amico dei nemici, s’innamora di chi non dovrebbe. C’è la realtà, ma c’è sempre quel guizzo in più, quella trovata, quel doppio salto mortale che ci solleva dal piatto resoconto documentaristico. È il trionfo del «potrebbe essere». Sarebbe piaciuto un sacco ad Aristotele, questo film... I terribili terroristi islamici vinti da un piatto di cozze, il quadro rubato per amore... Ci torna in mente La vita è bella, quando Benigni entra a cavallo nel ristorante per corteggiare la sua amata. E i cavalieri della tavola rotonda, e Orlando che diventa pazzo, e don Chisciotte che s’inventa Dulcinea... Ci viene in mente che solo la follia guarirà il mondo, il gesto liberatorio, il coraggio di rompere gli schemi.
Credo che la chiave del successo, quel che alla fine, uscendo dal cinema, scopriamo che ci ha preso, è proprio questo: un senso di liberazione e di sfida, il coraggio di un sottile politicamente scorretto, o meglio, un «politicamente non corretto gentile», quasi tenero, mai offensivo. Come quando Checco dice della ragazza araba di cui si sta innamorando: «È un po’ negra, giusto qualche gradazione, zio, non dà fastidio...».
Alla fine non sappiamo se siamo colpevoli o innocenti. Se sia bene o male essere così italiani.... Ma non importa. Ci sentiamo buoni, quasi eroi. Ci riconfortiamo.
Soprattutto, sappiamo che qualcuno, inconsapevolmente, potrebbe anche salvarci... Una specie di varco ci viene offerto, la possibilità di rompere le gabbie quotidiane di un pensiero unico tedioso, sgusciare via dalle grinfie dei tanti buonismi-moralismi ipocriti e non più credibili. Checco Zalone ci dà aria, ci rinfresca i pensieri, ci libera da tutti quei tabù nei quali ci siamo noi stessi impigliati. È come uscire da una stanza buia, polverosa e piena di ragnatele. Come se fosse, finalmente, una bella giornata.
«La Stampa» del 18 gennaio 2011
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