di Franco Cardini
Tra XII e XIII secolo, l’Europa rischiò di mutar profondamente la propria anima cristiana. Avrebbe forse continuato, se le cose fossero andate altrimenti da come andarono – e sarebbe potuto accadere – a ispirarsi al Cristo: ma si sarebbe trattato in realtà di qualcosa di molto diverso dal Gesù di Nazareth che conosciamo attraverso il Vangelo. Per comprendere la portata di quegli avvenimenti bisognerebbe forse risalire al III secolo e al profeta mesopotamico-persiano Mani, che ispirandosi a un cristianesimo profondamente permeato della cultura religiosa mazdea – che era allora la religione ufficiale dell’Impero persiano – elaborò un sistema che si sarebbe incontrato più tardi con il neoplatonismo e che consisteva nel ritenere l’universo percorso incessantemente dalla forza di due principii, quello della Verità, della Luce e del Bene e quello della Menzogna, dell’Oscurità e del Male: l’uno signore dello Spirito, l’altro padrone della Materia.
Il manicheismo, pur avversato nell’Impero romano come in quello persiano, riuscì a penetrare in entrambi, a fondersi in vario modo con altri culti (incluso quello cristiano) e a espandersi dall’Africa all’Egitto alla Persia all’India all’Asia centrale. Affrontando e superando molte persecuzioni e mutando spesso nome, le sette manichee riuscirono a sopravvivere anche al Medioevo: assistiamo al loro progredire, con nomi diversi ("pauliciani", "bogomili") nella penisola anatolica e in quella balcanica sino al loro impiantarsi, nel corso del XII secolo, un po’ in tutta l’Europa meridionale: dalla Toscana del centro-nord alla Francia meridionale all’area pirenaica. Furono allora conosciuti col nome di "catari", dalla parola greca che significa "puro".
E la "purezza" era il centro del loro credo. Predicavano nel nome di Dio, incentrandosi soprattutto sul Vangelo di Giovanni e sulla lotta dello Spirito contro la Materia, del Bene contro il Male. In un tempo nel quale la cristianità latina era percorsa dal brivido dei movimenti religiosi che auspicavano una piena purificazione dei costumi della società e lottavano contro la corruzione del clero auspicando un ritorno alla Chiesa delle origini, i catari riuscirono a fare molti adepti. Ma quella catara era una dottrina iniziatica.
Al di sopra dei semplici "credenti", che si ritenevano buoni e semplici cristiani, v’era l’élite dei "perfetti", asceti-predicatori ch’erano passati attraverso la cerimonia del consolamentum e che, sempre austeramente vestiti di abiti scuri, pallidi e smagriti per i frequanti digiuni, non toccavano cibi carnei o frutto di unione sessuale (quindi nemmeno uova e latticini) e spingevano sovente il loro rigore fino all’"endura", a lasciarsi cioè morire di fame.
Essi erano i depositari dell’ultimo, supremo nucleo dell’insegnamento cataro: tutta la Creazione, in quanto trionfo della Materia che imprigionava lo Spirito nelle forme viventi, era malvagia; il Dio creatore era il Signore Malvagio; la riproduzione della vita il massimo peccato, in quanto perpetuava la prigionia dello Spirito nella Materia. Il catarismo, data la sua somiglianza apparente con il cristianesimo e la sua equivoca ricerca di purificazione, guadagnò a sé la maggioranza di intere regioni, dalla Lombardia alla Provenza e alla Linguadoca: e proprio in tali aree della Francia meridionale furono necessarie una crociata, durata tra 1208 e 1244, che ebbe peraltro aspetti crudelissimi e un lungo lavoro inquisitoriale per ricondurre all’obbedienza e all’ortodossia cattolica.
Ma epigoni della fede catara continuarono a sussistere e a predicare a lungo, tra i Pirenei e le Alpi, variamente fondendosi con altri gruppi eterodossi o diluendosi in un cristianesimo venato di credenze folcloristiche dalle quali, di lì a qualche decennio, si sarebbero sviluppate le credenze stregoniche. Già negli anni Settanta uno storico francese, Emmanuel Le Roy Ladurie, studiando i registri dell’inquisitore Jacques Fournier vescovo di Pamiers – che sarebbe poi divenuto papa Benedetto XII – aveva esaminato la vita spirituale e le superstizioni del paese pirenaico di Montaillou.
Ora, le confessioni degli ultimi catari della regione occitanica del Sabartès rese al Fournier e contenute in un codice della Biblioteca Apostoilica Vaticana, il Ms. Vat. Lat. 4030 – ch’è stato tradotto integralmente in francese da J. Douvernoy in tre volumi (1978), ma non ha avuto finora edizione italiana – sono state esaminate e studiate dalla medievista Elena Bonoldi Gattermeyer, studiosa dell’Università Statale di Milano che già ha pubblicato una monografia su Bianca di Castiglia, madre del re di Francia san Luigi, e che ora ci presenta il risultato delle sue indagini nel volume Il processo agli ultimi catari. Inquisitori, confessioni, storie (Jaca Book, pagine 336, euro 24,00). Ne risulta un quadro in parte nuovo e che, per altri versi, conferma quel che studiosi anche italiani – citiamo per tutti Grado Giovanni Merlo – avevano già notato anche, ad esempio, per certe aree del Piemonte: tra Duecento e la prima metà del Trecento il catarismo era tutt’altro che sradicato, anzi era diffuso in tutta l’area occitanica e nelle regioni vicine, dove avrebbe avuto contatti con il valdismo, con il movimento dei "fraticelli" e con altre componenti dell’inquieto nonconformismo religioso tardomedievale (si pensi al dolcinianesimo nel Novarese).
Dalle confessioni rese al Fournier emerge la viva e concreta realtà di uomini e donne di tutti i ceti sociali – aristocratici, mercanti, artigiani, contadini, pastori, chierici e religiosi – che nelle loro confessioni descrivevano a forti tratti un complesso mondo di "vinti", che purtroppo ci è noto solo attraverso gli interrogatori condotti dai vincitori (e questo è senza dubbio un grave limite delle nostre conoscenze) e che ha duramente lottato per mantenere e per testimoniare il suo credo religioso.
Ci si si trova così dinanzi a una fede complessa e per molti versi oscura, ma profondamente radicata nell’universo occitanico con il suo idioma, le sue tradizioni, insomma, come si direbbe oggi, la sua "identità". Non a caso, anche in tempi moderni, l’indipendentismo occitano (che i governi francesi, a differenza di quel che – a parte il periodo franchista – hanno fatto quelli spagnoli con l’analogo indipendentismo catalano, hanno duramente represso) ha potuto esprimersi anche attraverso la creazione di una "Chiesa neocatara".
La Bonoldi Gattermeyer ci aiuta a recuperare un pezzo sconosciuto o poco noto di un’Europa "profonda" e "negata", senza la quale non si capiscono tuttavia né certe resistenze nazionali, né il fenomeno della caccia alle streghe, né l’affermarsi nel Cinquecento della Riforma protestante.
Il manicheismo, pur avversato nell’Impero romano come in quello persiano, riuscì a penetrare in entrambi, a fondersi in vario modo con altri culti (incluso quello cristiano) e a espandersi dall’Africa all’Egitto alla Persia all’India all’Asia centrale. Affrontando e superando molte persecuzioni e mutando spesso nome, le sette manichee riuscirono a sopravvivere anche al Medioevo: assistiamo al loro progredire, con nomi diversi ("pauliciani", "bogomili") nella penisola anatolica e in quella balcanica sino al loro impiantarsi, nel corso del XII secolo, un po’ in tutta l’Europa meridionale: dalla Toscana del centro-nord alla Francia meridionale all’area pirenaica. Furono allora conosciuti col nome di "catari", dalla parola greca che significa "puro".
E la "purezza" era il centro del loro credo. Predicavano nel nome di Dio, incentrandosi soprattutto sul Vangelo di Giovanni e sulla lotta dello Spirito contro la Materia, del Bene contro il Male. In un tempo nel quale la cristianità latina era percorsa dal brivido dei movimenti religiosi che auspicavano una piena purificazione dei costumi della società e lottavano contro la corruzione del clero auspicando un ritorno alla Chiesa delle origini, i catari riuscirono a fare molti adepti. Ma quella catara era una dottrina iniziatica.
Al di sopra dei semplici "credenti", che si ritenevano buoni e semplici cristiani, v’era l’élite dei "perfetti", asceti-predicatori ch’erano passati attraverso la cerimonia del consolamentum e che, sempre austeramente vestiti di abiti scuri, pallidi e smagriti per i frequanti digiuni, non toccavano cibi carnei o frutto di unione sessuale (quindi nemmeno uova e latticini) e spingevano sovente il loro rigore fino all’"endura", a lasciarsi cioè morire di fame.
Essi erano i depositari dell’ultimo, supremo nucleo dell’insegnamento cataro: tutta la Creazione, in quanto trionfo della Materia che imprigionava lo Spirito nelle forme viventi, era malvagia; il Dio creatore era il Signore Malvagio; la riproduzione della vita il massimo peccato, in quanto perpetuava la prigionia dello Spirito nella Materia. Il catarismo, data la sua somiglianza apparente con il cristianesimo e la sua equivoca ricerca di purificazione, guadagnò a sé la maggioranza di intere regioni, dalla Lombardia alla Provenza e alla Linguadoca: e proprio in tali aree della Francia meridionale furono necessarie una crociata, durata tra 1208 e 1244, che ebbe peraltro aspetti crudelissimi e un lungo lavoro inquisitoriale per ricondurre all’obbedienza e all’ortodossia cattolica.
Ma epigoni della fede catara continuarono a sussistere e a predicare a lungo, tra i Pirenei e le Alpi, variamente fondendosi con altri gruppi eterodossi o diluendosi in un cristianesimo venato di credenze folcloristiche dalle quali, di lì a qualche decennio, si sarebbero sviluppate le credenze stregoniche. Già negli anni Settanta uno storico francese, Emmanuel Le Roy Ladurie, studiando i registri dell’inquisitore Jacques Fournier vescovo di Pamiers – che sarebbe poi divenuto papa Benedetto XII – aveva esaminato la vita spirituale e le superstizioni del paese pirenaico di Montaillou.
Ora, le confessioni degli ultimi catari della regione occitanica del Sabartès rese al Fournier e contenute in un codice della Biblioteca Apostoilica Vaticana, il Ms. Vat. Lat. 4030 – ch’è stato tradotto integralmente in francese da J. Douvernoy in tre volumi (1978), ma non ha avuto finora edizione italiana – sono state esaminate e studiate dalla medievista Elena Bonoldi Gattermeyer, studiosa dell’Università Statale di Milano che già ha pubblicato una monografia su Bianca di Castiglia, madre del re di Francia san Luigi, e che ora ci presenta il risultato delle sue indagini nel volume Il processo agli ultimi catari. Inquisitori, confessioni, storie (Jaca Book, pagine 336, euro 24,00). Ne risulta un quadro in parte nuovo e che, per altri versi, conferma quel che studiosi anche italiani – citiamo per tutti Grado Giovanni Merlo – avevano già notato anche, ad esempio, per certe aree del Piemonte: tra Duecento e la prima metà del Trecento il catarismo era tutt’altro che sradicato, anzi era diffuso in tutta l’area occitanica e nelle regioni vicine, dove avrebbe avuto contatti con il valdismo, con il movimento dei "fraticelli" e con altre componenti dell’inquieto nonconformismo religioso tardomedievale (si pensi al dolcinianesimo nel Novarese).
Dalle confessioni rese al Fournier emerge la viva e concreta realtà di uomini e donne di tutti i ceti sociali – aristocratici, mercanti, artigiani, contadini, pastori, chierici e religiosi – che nelle loro confessioni descrivevano a forti tratti un complesso mondo di "vinti", che purtroppo ci è noto solo attraverso gli interrogatori condotti dai vincitori (e questo è senza dubbio un grave limite delle nostre conoscenze) e che ha duramente lottato per mantenere e per testimoniare il suo credo religioso.
Ci si si trova così dinanzi a una fede complessa e per molti versi oscura, ma profondamente radicata nell’universo occitanico con il suo idioma, le sue tradizioni, insomma, come si direbbe oggi, la sua "identità". Non a caso, anche in tempi moderni, l’indipendentismo occitano (che i governi francesi, a differenza di quel che – a parte il periodo franchista – hanno fatto quelli spagnoli con l’analogo indipendentismo catalano, hanno duramente represso) ha potuto esprimersi anche attraverso la creazione di una "Chiesa neocatara".
La Bonoldi Gattermeyer ci aiuta a recuperare un pezzo sconosciuto o poco noto di un’Europa "profonda" e "negata", senza la quale non si capiscono tuttavia né certe resistenze nazionali, né il fenomeno della caccia alle streghe, né l’affermarsi nel Cinquecento della Riforma protestante.
«Avvenire» del 12 gennaio 2011
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