Libertarismo e relativismo non garantiscono la convivenza civile
di Giovanni Martino
"Senza moralità civile le comunità periscono; senza moralità privata la loro sopravvivenza è priva di valore".
(Bertrand Russell)
Molti di coloro che difendono – legittimamente – la libertà e il pluralismo culturale e sociale sostengono che la società non ha bisogno di valori condivisi. Anzi, affermare l’importanza di tali valori, attribuire ad essi un fondamento di “verità”, sarebbe in contraddizione con l’idea stessa di pluralismo, intesa quale convivenza di idee e valori diversi.
La considerazione – piuttosto ovvia – che in una società possono convivere idee diverse non risolve però un nodo essenziale: se esista – debba esistere – un nocciolo di valori fondamentali condivisi che garantisca la convivenza e la crescita sociale.
Le radici culturali del rifiuto dei valori possono essere rinvenute essenzialmente nel liberalismo assoluto e nel relativismo.
Il rifiuto dei valori comuni: il liberalismo assoluto
Cercando di analizzare la libertà umana nella sua pienezza di significato, abbiamo ricordato che il liberalismo filosofico assoluto proclama un’idea di libertà umana “assoluta”, cioè “sciolta” da ogni regola e ogni scopo, da ogni “valore”. Una libertà fine a se stessa.
Abbiamo anche visto che quando questa ideologia si traduce - sul piano dei comportamenti individuali - in libertarismo, rifiutando i valori morali, la libertà della persona si rivela illusoria, degenera – in una sorta di eterogenesi dei fini - nel contrario di sé, in forme diverse di schiavitù.
Lo stesso capovolgimento della libertà si produce con il rifiuto dei valori nella sfera socio-culturale.
Il liberalismo assoluto, infatti, non può tradursi in un credibile sistema di convivenza. Promette di realizzare i desiderî attraverso la creazione indefinita di nuovi diritti (pomposamente definiti "diritti civili"), senza preoccuparsi su chi ricadano i corrispondenti doveri (spesso si tratta di soggetti deboli: così il ‘diritto’ all’aborto ignora il diritto alla vita del nascituro). L’esaltazione smisurata dell’io presuppone la schiavitù degli altri; le relazioni non sono più di reciproco dono, ma di rapporto mezzo-fine.
L’anarco-liberalismo (il progetto socio-politico più vicino al liberalismo estremo) non ha mai avuto credibili tentativi di realizzazione. In effetti, dove tutto è permesso nulla è garantito, neanche i diritti fondamentali: prevale la “legge della giungla”, del più forte. La conciliazione spontanea delle libertà assolute, viste come assenza di legami, esiste solo nell’utopia.
Ci si deve allora arrendere ad una libertà meramente formale. Il liberalismo utilitarista, che ha la sua matrice nell’empirismo inglese, individua nella soddisfazione delle preferenze personali l’unico criterio oggettivo per guidare i comportamenti umani, e nel libero accordo tra i consociati la maniera per realizzarlo; diventa liberalismo anche politico, propugnando uno Stato “minimo”. Ma l’accordo tra parti che hanno forza contrattuale diseguale non è “libero”: si traduce, concretamente, nella sopraffazione del più forte (del più ricco, del più influente, del più preparato). Questo tipo di Stato non promuove il bene comune, ma cerca solo di limitare il male economico (si traduce nel liberismo, o laissez-faire): così sono considerati ‘inevitabili’ i fenomeni della microcriminalità, della prostituzione pubblica, della droga, della corruzione, ecc.
L’instabilità cronica del modello libertario, nelle sue varianti, può anche far sì che esso degeneri nella direzione opposta. Infatti, chi non vuole rinunciare al mito delle libertà assolute, ma non si rassegna alla loro conflittualità, ritorna a confidare in uno Stato simile a quello dei razionalisti: espandere a dismisura la sfera d’intervento pubblico dovrebbe rendere possibile soddisfare tutti i bisogni individuali, soprattutto materiali, senza che nessuno ne sopporti i costi (era la tesi di Rousseau e del liberalismo illuminista), in un compromesso tra permissivismo libertino nei costumi personali, e rinuncia ad ogni autodeterminazione economica, sociale, politica.
La sfera complessiva delle libertà (che è una sfera indivisibile: libertà private e pubbliche, economiche e spirituali, culturali e politiche, familiari e sociali), insomma, anziché espandersi si riduce, o viene ‘delegata’ allo Stato. Il risultato che si ottiene è quello di sviluppare la passività degli individui, la perdita di responsabilità, la nascita di nuovi vincoli. Un modello sociale cui potrebbe ben applicarsi la massima di Lenin: "È vero che la libertà è preziosa. Così preziosa che bisogna razionarla".
Il liberalismo classico, nelle sue migliori espressioni (Locke, Jefferson, Kant, Smith, Tocqueville), ha invero elaborato sistemi più complessi, che potremmo definire di liberalismo democratico, in cui la libertà si concilia con altri valori (diritti naturali, diritti delle minoranze, ecc.), affinché la sua espressione sia piena e garantita a tutti. La libertà possibile è quella della realtà democratica, del suo delicato equilibrio con un’etica civile.
Il liberalismo democratico proclama valori che hanno validità universale, e nella ricerca di tali valori è debitore al pensiero e all'antropologia cristiana.
Il rifiuto dei valori comuni: il relativismo
Se il liberalismo assoluto è stato contraddetto dalla teoria filosofica e dall’esperienza storica, il rifiuto dei valori ha di recente ripreso nuova forza col relativismo, che cerca di minare in radice la possibilità stessa di effettuare una riflessione sulla verità (considerata "dogmatica" e "pericolosa per la libertà").
I valori non esisterebbero, o non sarebbero in ogni caso conoscibili. Tutti gli ideali sarebbero, quindi, moralmente indifferenti: è impossibile e inutile pensare di fondare la convivenza sociale e civile su valori comuni.
La contestazione dei valori è spostata dal piano della prassi a quello della conoscenza. Uno spostamento che peraltro, come abbiamo evidenziato nell’articolo Relativismo e verità, è dato da una somma di ipocrisia, di incongruenze logiche, di antirealismo: una mistura che alimenta un pericoloso autoinganno.
Il relativismo, se da una parte si presta quale strumento del libertarismo, dall'altra è in aperta contraddizione con la pretesa di universalità che abbiamo visto essere propria del liberalismo classico (democratico).
Nella nostra analisi su Relativismo e verità abbiamo cercato di dimostrare che la verità esiste, sia pure oggetto di una ricerca sempre faticosa e forse incompleta. Essa fonda valori che sono di guida all'uomo nella sua dimensione personale, ma anche - come vogliamo di seguito illustrare - in quella socio-culturale. Anzi, è proprio in questa dimensione che si avverte con più immediatezza l'esigenza di valori comuni.
Possiamo fare a meno di valori comuni?
Come abbiamo altrove ricordato, "in tutte le attività umane (insegnare, lavorare, legiferare, amministrare, giudicare) è necessario continuamente scegliere tra diversi interessi quelli meritevoli di tutela, in base ad un criterio di selezione. Tale criterio non richiede semplicemente una competenza "tecnica", ma è anche un criterio "valutativo": non esistono soluzioni “tecniche” o “neutrali”. Si sceglie, dunque, in base a principî, o valori. Valori che possono a loro volta entrare in conflitto, e richiedere una scelta in base ad una gerarchia, un ordine d'importanza. Sostenere che si possa fare a meno di discutere dei valori comuni (o che i valori siano tutti uguali) è un grande imbroglio, serve a imporre alcuni princìpî (funzionali a interessi forti) spacciandoli come inevitabili, tecnici, neutrali, e sottraendoli al libero confronto culturale e democratico".
Ad esempio, se gli insegnanti - anche i più eruditi e preparati metodologicamente - non avessero valori su cui fondare l’insegnamento, una scuola non sarebbe in grado di insegnare nulla. Avere valori, contenuti di riferimento, non significa indottrinare o plagiare. Trasmettere ai discenti il senso critico, fornire chiavi di interpretazione, distinguere la qualità di ciò che è fondamentale apprendere (perché prima Dante e poi – che so… - Gonzales?), orientarsi nel pluralismo: sono tutte operazioni che, pur non essendo dottrinarie o ideologiche, partono da un certo sistema di valori.
Ancora: una comunità di lavoratori, un'impresa, in cui gli addetti abbiano grande perizia tecnica, ma in cui non ci siano la stessa cultura del lavoro, lo stesso senso dell'impegno e del dovere, lo stesso spirito di collaborazione, fiducia reciproca, voglia di perseguire un obiettivo comune, è condannata al fallimento. Non è ipotesi astratta: nessuna azienda internazionale riesce a far collaborare lavoratori di nazionalità diversa, se non dopo che questi siano stati selezionati sulla base di determinati parametri e abbiano seguito lunghi corsi di formazione sulla mission e lo stile di lavoro aziendali; altrimenti, un tedesco e un giamaicano si manderebbero a quel paese dopo cinque minuti...
E così in tutte le realtà umane: nello sport, nella ricerca scientifica, sino al più vasto ambito della comunità culturale e sociale.
Tutti i gruppi sociali, per la loro stessa esistenza, necessitano di regole organizzative e di regole "istituzionali" (che valgono a creare il gruppo e a dargli stabilità, conferendogli la fisionomia di istituzione). Ebbene, "un giudizio di valore viene espresso nelle regole [istituzionali] con le quali, a seconda dei casi, l'intero gruppo, alcuni o uno solo dei suoi componenti stabiliscono che determinati interessi assumono rilevanza rispetto ad altri" (T. Martines, Diritto costituzionale, Milano 1992, p. 13).
Valori comuni, cultura, crescita sociale.
La rilevanza sociale dei valori, insomma, appartiene al grande campo delle idee umane, che guidano lo sviluppo della civiltà.
E' il campo della cultura: nessuno può negare che la cultura sia un fenomeno sociale! Gli elementi che compongono la cultura di una comunità fondano il senso di appartenenza alla comunità stessa.
Tutte le realtà naturali (scuola, lavoro, politica, scienza, arte, ecc.), infatti, hanno leggi e valori proprî. "Leggi" di funzionamento, da conoscere e applicare mediante le competenze tecniche. Ma anche "valori" (termine cui diamo una connotazione positiva, ancor più che "principio" o "ideale"), i quali sono espressione del ‘dover essere’ di quelle realtà, assicurandone la rispondenza al fine che è loro proprio.
Questi valori hanno una componente universale, oggettiva, naturale, che gli uomini devono scoprire; ed una componente mutevole, legata al contesto storico-sociale, che gli uomini devono verificare e rielaborare.
Le realtà sociali, dunque, hanno valori "comuni" alle persone che in esse si muovono. Il rispetto di tali valori è condizione della crescita sociale.
Come individuare i valori comuni
Come procedere concretamente per individuare i valori comuni? Non è sempre facile, anche perché non esiste un catalogo di valori immutabile.
Serve innanzitutto un metodo.
Sul piano socio-culturale - quello che stiamo prendendo in particolare considerazione in questa esposizione - il metodo più invocato è il dialogo razionale. Ma è sufficiente? La realtà ci offre tanti esempi di dialoghi "tra sordi"...
Allora può capitare che si arrivi a conclusioni affrettate ("il dialogo non trova i valori comuni perché questi non esistono, non servono, è sufficiente la tolleranza"), e si cerchino scorciatoie per far convivere pacificamente idee diverse od opposte, magari invocando il principio di maggioranza.
Ma la verità preesiste alla nostra conoscenza, non si determina mettendola ai voti. E, inoltre, applicare il principio di maggioranza significa effettuare un indebito spostamento della mediazione dal piano culturale a quello politico-giuridico. Questo spostamento di piano, in molti casi (quando un rapporto richiede una regolamentazione più forte e vincolante), è normale che avvenga; ma senza saltare il fondamentale passaggio intermedio, l'individuazione del valore su cui fondare la norma, valore che ne garantisce l'efficacia ed il consenso più largo possibile. Altrimenti, siamo sicuri che sia facile accettare decisioni che - sia pure fornite di sanzione legale - si sentono come profondamente ingiuste?
Allora, oltre che un metodo, per individuare i valori serve trovare agli stessi un fondamento, qualcosa che attinga alla componente naturale (di verità) dei valori, e che ci faccia sentire la comune appartenenza alla società in cui viviamo.
Il primo tra i valori, che è fondamento costante di tutti gli altri (come spieghiamo nell'articolo Quali valori?), è l’eminente dignità dell’individuo. Tale dignità esige il rispetto e la promozione di tutto l’uomo ‑ nelle sue componenti materiale, morale, spirituale ‑ e di tutti gli uomini. Solo su queste basi comuni - perché comune è la natura umana - può esservi un dialogo costruttivo.
Il riconoscimento di un fondamento, dunque, muta anche la natura del dialogo, che rinuncia ad essere solo mera comunicazione dei proprî istinti e desiderî. Piuttosto, diviene strumento di ricerca, esercizio concreto (e non verboso) della razionalità, sforzo sincero di elaborare - o rinvenire nella natura e in una tradizione - valori comuni più precisi, razionalmente condivisibili, adeguati ai diversi contesti sociali e storici, ordinati secondo una gerarchia armonica ed equilibrata. Un fondamento solido rende il dialogo capace di perseguire - nella libertà - la verità propria di ogni realtà umana. Ricercare la verità, sul piano socio-culturale, significa anche saper ricercare la qualità, il bello: come le opere classiche, che sanno divenire punto di riferimento (e di dibattito) universale per le culture.
La libertà individuale, il consenso sociale (poiché si parla di valori comuni) sono fondamentali: non si tratta di valori che possano essere imposti.
Non bisogna fare confusione: la libertà non è il metodo per individuare i valori, o il fondamento degli stessi, bensì la condizione per cui il metodo possa essere efficacemente esercitato e il fondamento accettato (o respinto). Il consenso non "produce" il valore, bensì lo "riconosce"; la verità del valore preesiste al consenso che la accoglie o la respinge.
Va anche aggiunto che il consenso può concorrere a definire il valore nella sua componente mutevole, arricchendolo e inserendolo nel particolare contesto storico-sociale.
Valori e convivenza: l'etica sociale e civile
La rilevanza sociale dei valori, oltre che condizione del pieno sviluppo delle realtà sociali, è anche un’esigenza pratica della convivenza: i valori fondano l’etica sociale e civile.
Sia detto per inciso: alcuni sono convinti che le parole "etica", "morale", siano riservate alla sfera intima e privatissima dell'individuo. Per cui parlare di "etica (o di morale) sociale e civile" significherebbe sovrapporre il piano personale con quello sociale o, peggio, politico, ai confini dello Stato Etico.
Ora: quello dello Stato Etico è un pericolo grave, che suscita giustificati timori e deve essere sempre respinto. Questi giustificati timori, però, non possono indurre a negare la realtà dell'etica sociale.
La "responsabilità" - la necessità di rispondere delle nostre azioni - è un'esigenza interna della libertà. Un'esigenza che emerge già nella dimensione della morale individuale; ma che diventa di tutta evidenza nella dimensione sociale.
Esiste anche una responsabilità sociale: le nostre azioni hanno ricadute sugli altri, di tali ricadute dobbiamo rispondere. Chi si rapporta con gli altri, e ne chiede la collaborazione, deve aspettarsi le loro reazioni...
In certi casi, senza l’applicazione del principio di responsabilità, può soffrire la dignità dell’uomo, del quale viene misconosciuto il contributo alla crescita della realtà in cui opera. Inoltre, soffre la realtà sociale stessa, poiché se l’uomo non vede riconosciuti i suoi giusti meriti, e non vede frenate le sue inevitabili debolezze, fornisce inevitabilmente un contributo scadente; la mancanza di responsabilità precise è il male principale che affligge statalismi e burocrazie.
Quando poi commettiamo l'azzardo di trasferire una cultura permissivista anche sul piano legale, creando la falsa alternativa tra "prevenzione" e "repressione", creiamo le basi della disgregazione sociale.
Rimarcare l’importanza della responsabilità, come stiamo facendo, non sembra però sufficiente a fondare solo su di essa un sistema etico, pensando - come ha fatto Max Weber - a un’ “etica della responsabilità”. La quale, in fin dei conti, non è altro che un’etica utilitaristica, sia pure rapportata a criterî di utilità sociale (1 - vedi in basso). È l’idea di etica a cui si rifanno quanti propongono – anziché una semplice amoralità – un’etica “laica”.
Ci rendiamo tutti ben conto, ogni giorno, che i nostri comportamenti sono vincolati dal rispetto di una serie di valori, iscritti in norme non giuridiche ma morali: la sincerità, la fedeltà, la correttezza (come, ad esempio, non “fare le scarpe” al collega di lavoro), la disponibilità, il rispetto della parola data, la gratitudine, ecc. Regole che sentiamo intimamente giuste, regole il cui rispetto gli altri si attendono da noi e, soprattutto, noi pretendiamo da loro.
Tali norme richiedono certo, innanzitutto, un consenso spontaneo; ma hanno anche una dimensione oggettiva (i valori), che conferisce loro diversi gradi di "necessità" (se non le si rispetta, le cose vanno male) e di "obbligatorietà" (c'è una pressione sociale a rispettarle, ad assumersi le responsabilità sociali, magari col meccanismo del premio-disincentivo).
La morale, dunque, non è solo una scala di valori personale e interiore (peraltro, la stessa morale personale ha una dimensione oggettiva e relazionale); ma, per alcuni dei valori che guidano i nostri comportamenti, è anche un codice sociale. L’etimologia di “morale” (dal latino mores = usi, costumi), così come quella di “etica” (dal greco êthos, che parimenti indica usi e costumi), ci rammentano ciò.
In tutti i contesti sociali e culturali troveremo sempre, inevitabilmente, norme morali da rispettare: chi ha vissuto negli anni ’60/’70 l’esperienza delle “comuni”, improntate teoricamente alla massima promiscuità sessuale, racconta di furibonde scenate di gelosia (!), che hanno infine portato alla dissoluzione di quelle esperienze. Chi pensasse di attenersi alle sole norme giuridiche, infischiandosene allegramente di quelle morali, danneggerebbe probabilmente il proprio equilibrio interiore, incontrerebbe certamente l’ostilità delle persone che lo circondano, non troverebbe la chiave di mediazione e di soluzione dei conflitti comunitari e sociali.
La necessità del consenso, nell'adesione all'etica sociale, non elimina la dimensione oggettiva dei valori che fondano tale etica. Reciprocamente, questa dimensione oggettiva non è in grado di coartare la libertà personale.
La voce delle autorità morali (la Chiesa, esponenti di altre confessioni religiose, personalità di riconosciuta autorevolezza), dunque, può fornire un contributo pienamente coerente con questa visione. La legittimità delle pronunce non coattive delle autorità morali, anche nella sfera pubblica, si basa non solo sul principio della libertà di espressione (che di per sé sarebbe sufficiente), ma anche sull'esigenza del corpo sociale di attingere ad insostituibili risorse di sapienza nell'individuazione dei valori.
In particolare, il carattere religioso di una voce che si pronuncia, o l'ispirazione religiosa di un principio, non è in alcun modo in contraddizione col valore della laicità correttamente inteso.
La differenza tra morale personale e morale sociale
Esistono, dunque, una morale - entro certi limiti - personale ed una morale sociale e civile (Hegel, a dire il vero, utilizzò il termine "etica" per definire il codice sociale, preferendo riservare quello di morale alle azioni che incidono più direttamente sulla sfera individuale: si tratta di convenzioni linguistiche).
Sottolineato che esiste una dimensione sociale della moralità, bisogna altresì sottolineare che i due piani non sono né separabili drasticamente né sovrapponibili. Come è sbagliato considerare "privati" o "soggettivi" valori che hanno essenzialmente una rilevanza sociale e una dimensione oggettiva, così è sbagliato "pubblicizzare" valori che attengono primariamente alla sfera personale dell'individuo.
È difficile, in poche righe, fare un "catalogo" di questi differenti valori. Aver chiara questa distinzione, però, può già aiutare a "formare rettamente" il giudizio della propria coscienza (esistono, ovviamente, anche veri e proprî trattati di morale per approfondire la questione).
Per fare un solo esempio: la sfera dei comportamenti sessuali ha una dimensione più marcatamente privata, delimitata dal "pudore", che dovrebbe essere sottratta al giudizio morale pubblico.
A meno che non sia la persona stessa ad ostentare i comportamenti attinenti quella sfera, pretendendo di ridefinire la dimensione oggettiva del valore, e 'provocando' così il giudizio di chi non condivide il comportamento. A maggior ragione, tale giudizio potrebbe essere provocato da chi adotta comportamenti sessuali che assumono il sapore di sfida verso istituti sociali come il matrimonio; o da chi adotta comportamenti sessuali che contrastino stridentemente con quanto apertamente proclamato (un fustigatore di costumi altrui è maggiormente tenuto alla coerenza privata); o da chi pecca di superficialità nell'adottare comportamenti non conformi ad una dignità pubblica rivestita (non a caso l'art. 54 della Costituzione italiana recita: "I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore").
Stiamo esaltando un modello di "vizî privati e pubbliche virtù"? Facendo l'elogio dell'ipocrisia? No.
La differenza tra morale personale e sociale si fonda innanzitutto sul contesto in cui i valori vengono vissuti. Siamo chiamati alla coerenza - per quanto possibile alla debolezza umana - in tutti i contesti, privati e pubblici. La violazione del codice morale sociale, però, assume una rilevanza più estesa. Non perché sia "più grave" della violazione della morale privata, ma semplicemente perché infrange una responsabilità più vasta, e provoca un giudizio più esteso. Sottoporre allo stesso giudizio pubblico i comportamenti "privati" (quelli realmente tali, ovviamente, non quelli che si vorrebbe definire tali solo per sottrarsi alle responsabilità sociali) significa invocare la cappa di un soffocante moralismo.
Valori comuni, relativismo e pluralismo sociale
L’esistenza di valori sociali comuni naturali, ordinati secondo una propria gerarchia, da scoprire pazientemente, è il dato che fonda la convivenza umana, è il punto di riferimento del dialogo tra idee diverse, la condizione stessa del pluralismo. Che cosa sono le idee, se non la personale visione della verità? I padri del pensiero liberale (John Stuart Mill) difendevano la libertà di pensiero e il confronto di opinioni proprio quali strumenti più efficaci per raggiungere la verità.
Giovanni Paolo II, nel discorso pronunciato il 5 ottobre 1995 di fronte all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ricordò che, anche nel dialogo tra popoli diversi, “dobbiamo trovare la strada per discutere, con un linguaggio comprensibile e comune, circa il futuro dell'uomo. La legge morale universale, scritta nel cuore dell'uomo, è quella sorta di "grammatica" che serve al mondo per affrontare questa discussione circa il suo stesso futuro. Sotto tale profilo, è motivo di seria preoccupazione il fatto che oggi alcuni neghino l'universalità dei diritti umani, così come negano che vi sia una natura umana condivisa da tutti. Certo, non vi è un unico modello di organizzazione politica ed economica della libertà umana, poiché culture differenti ed esperienze storiche diverse danno origine, in una società libera e responsabile, a differenti forme istituzionali. Ma una cosa è affermare un legittimo pluralismo di 'forme di libertà', ed altra cosa è negare qualsiasi universalità o intelligibilità alla natura dell'uomo o all'esperienza umana”.
La necessità di un punto di riferimento comune è ovviamente maggiore se, dal dialogo tra popoli diversi, passiamo a quello necessario a definire le regole della convivenza all'interno della stessa comunità.
E' dunque falso sostenere che chi propugna l'idea di verità non sia aperto al pluralismo. Il pluralismo non deriva dall’inesistenza di valori universali, ma dal ruolo ineliminabile che riveste la libertà nella ricerca e nel riconoscimento di tali valori. Anche una società pluralistica si fonda su un patrimonio di linguaggio, di simboli, di valori comuni. E' proprio questo patrimonio che rende il pluralismo arricchente e includente, non conflittuale.
E' altrettanto falso sostenere che chi crede in una verità sia 'inevitabilmente' portato ad imporla, minando le basi della democrazia e della pace (come propugnano i sostenitori del cosiddetto “pensiero debole” o i fautori di un ingenuo pacifismo).
Questo può accadere se si tratta di una 'verità' astratta, prodotta dalla ragione soggettiva (magari mascherata da relativismo), lontana dalla realtà della natura umana. La ragione realista, invece, non può imporre nessuna verità, ma solo proporla, perché è consapevole dei proprî limiti, perché sa che parte ineliminabile della natura umana è la libera adesione ai principî ritenuti veri.
L'esempio più elementare: si può considerare "prevaricatore" il cristiano che propone come verità quella della croce, cioè del sacrificio e del perdono?
Si pensi anche a Gandhi: egli fondò la sua dottrina della non violenza sul principio del satyāgraha, che significa "insistenza per la verità": ogni essere umano deve difendere le proprie concezioni morali e politiche fondamentali, anche se deve subire ingiustizie e violenze per questo. Anzi, ogni tentativo di mascherare la verità era per Gandhi un atto di violenza; da combattere, naturalmente, con fermezza non violenta.
Esiste, in questa prospettiva, un "relativismo" positivo, quello che, pur riconoscendo e avendo come riferimento verità oggettive, ne conosce la mutevole realizzazione e percezione in una realtà imperfetta. Questo atteggiamento realista - e non ideologico - è necessario nell'ambito della politica, e fonda i sistemi liberal-democratici (contro l'ideologia dello Stato assoluto portatore di una verità totalitaria); un realismo che rifiuta di assolutizzare i problemi politici e di imporre soluzioni, perché sa che sono "relativi" al contesto storico e sociale.
Il relativismo che nega la verità (o ne fa un prodotto del volontarismo), al contrario, nel momento in cui ammette al dibattito civile e politico solo alcune visioni (quelle "politicamente corrette"), è il vero nemico del pluralismo sociale e culturale (così come, nella sua forma giuridica – il positivismo -, lo è del pluralismo politico e della democrazia).
Il pluralismo sostiene che "tutte le idee sono libere, ma non tutte sono uguali", nel senso che tutte le idee possono essere liberamente espresse, anche quelle che ritengono di avere un fondamento migliore di altre (senza per questo volerle reprimere).
Per il relativismo, invece, "tutte le idee sono uguali, ma non tutte sono libere" ovvero debbono essere represse quelle che negano l'equivalenza di ogni posizione. Ovviamente è una trappola logica, perché ogni idea ha implicitamente in sé la pretesa di essere migliore di un'altra; per cui si tratta solo di un pretesto con il quale alcune lobbies si arrogano il diritto di dare o negare il bollino di "democraticità", dissimulando i proprî interessi o le proprie ideologie con pretesa di verità (utilitarismo, scientismo). È in questo senso che l'allora cardinal Ratzinger, poco prima dell'elezione a Pontefice, poté parlare di "dittatura del relativismo".
In un'ottica pluralista, ad esempio, è possibile sostenere che i genitori hanno il diritto di scegliere l'educazione sessuale dei proprî figli - che nella generalità dei casi rispetterà un'inclinazione di tipo eterosessuale - e che le istituzioni non debbano ostacolare quel diritto. In un'ottica relativista (usata strumentalmente dalle lobbies gay) si pretende che non è possibile sostenere l'inclinazione eterosessuale come preferibile a quella omosessuale (!), che un 'clima' di preferenza per l'eterosessualità lederebbe i diritti degli omosessuali (?), e che - in sostanza - si deve imporre a tutti un'educazione che presenti le due (o più...) tendenze come opzioni equivalenti (??), reprimendo le impostazioni educative differenti !
Il relativismo usa argomenti parzialmente diversi quando si pone il problema della convivenza tra culture diverse (ad esempio a causa dei flussi migratori) o del confronto tra civiltà, che vengono sempre più in contatto in un pianeta dove gli scambi culturali ed economici si fanno sempre più fitti, accrescendo le dimensioni dei problemi da risolvere (inquinamento, energia, povertà, guerre). In questi casi, spesso viene riconosciuta l’esistenza di valori, ma ne viene negato il carattere di verità universale. Si ritiene che siano valori validi per le singole comunità, assolutamente equivalenti tra loro (indifferentismo); non ci si pone, però, il problema di comunità diverse che possono venire in contatto. Questo succede perché il relativismo confonde il pluralismo includente (in cui diverse culture convivono, si confrontano in un dialogo interculturale capace di individuare valori comuni, e continuano a svilupparli anche in direzioni nuove) col separatismo escludente, definito eufemisticamente "multiculturalismo": si lascia che si creino mondi e comunità limitrofe e non comunicanti, in una sorta di apartheid di fatto, che evoca a parole il "dialogo" e la "tolleranza" come soluzione ai problemi della convivenza, ma si ritrova in concreto incapace a risolverli.
Ad esempio, si fa un bel parlare di "multiculturalismo", definendolo prospettiva "inevitabile" delle nostre società. Quasi che il termine "inevitabile" elimini di per sé i problemi. Ma come immaginiamo la convivenza di culture opposte?
Ci si affida alla soluzione della "tolleranza", talismano piuttosto semplicistico, che non può conciliare posizioni destinate allo scontro.
Dal principio della tolleranza, ad esempio, sembrerebbe derivare senza problemi la necessità di rispettare i diritti fondamentali dell'altro; sennonché la "tolleranza" non si premura di individuare concretamente quali sono questi diritti, lasciando alla legge positiva lo spazio per la loro manipolazione e negazione (nell’articolo sul diritto naturale ricordiamo i più eclatanti casi storici di violazione dei diritti umani che hanno avuto la copertura formale della legge).
Bisogna 'tollerare' che un medico dia la morte ad un malato, ritenendolo senza speranza? E i diritti del malato?
Bisogna 'tollerare' la poligamia? Che fine fanno i diritti della donna?
C'è, piuttosto, il problema dell'integrazione di culture diverse in una stessa società; e questo problema è risolvibile solo se, pur in un ambito di pluralismo, vengono individuati i valori comuni e condivisi.
Dall’incapacità del relativismo - sin qui descritta - di trovare gli strumenti per individuare valori universali, deriva inevitabilmente l’incapacità di effettuare qualsiasi comparazione tra valori: essi vengono riconosciuti solo nominalmente, come elemento folkloristico, come placebo sociale, come compromesso utilitaristico.
Nell'articolo su relativismo e verità, analizzando il percorso storico-filosofico che ha condotto al relativismo, abbiamo anche constatato che il rifiuto dei valori è associato al rifiuto di sé di una parte della società occidentale .
Questo rifiuto ha indotto a cercare altrove "sistemi" di valori più seducenti, magari perché meno responsabilizzanti (vedi le mode orientaleggianti), esaltandone esageratamente i pregi e sminuendone superficialmente i difetti. E alla fine ci si accorge che forse quelle culture sono meno capaci di offrire risposte alla complessità delle esigenze dell'uomo moderno. L’indifferentismo, il rifiuto della comparazione tra valori, il separatismo, nascono anche dal rifiuto dell’idea di qualità. La tentazione di eludere la ricerca della qualità, con l’impegno e la responsabilità che comporta; la ricerca di garanzie dei risultati (e non solo delle opportunità): sono eredità del fallimento del socialismo, che possono in parte trovare sfogo e rifugio in un gruppo di appartenenza. Un gruppo che costituisca una minoranza (etnica, religiosa, linguistica, culturale, sessuale) ben organizzata, può rivendicare garanzie e privilegi, rifiutare responsabilità verso il bene comune, lamentando come “discriminazione”, intolleranza verso i proprî valori, ogni tentativo di cercare il dialogo sui valori comuni.
E' un meccanismo di autoaffermazione che nasce all'interno della nostra cultura (un gruppo di giovani può pretendere di “sfogare la propria creatività” col vandalismo, una coppia gay può richiedere l'adozione di figli come se fosse una famiglia, ecc.), ma che può essere ripreso e ingigantito da comunità che hanno un'identità ben più forte e "tradizioni" ben più contrastanti con la nostra: una comunità islamica può pretendere di mutilare le donne, una comunità cinese di tener segregati come schiavi-lavoratori i bambini, ecc.
I valori che esprimono il sentimento comune non sono normalmente organizzati in gruppi di pressione. Cosicché può accadere che su di essi si impongono gli interessi particolari e disgreganti promossi da lobbies culturali attive e militanti. Interessi i cui costi sociali ed economici sono scaricati sulla collettività, almeno finché il tessuto sociale (che proprio queste lobbies cercano di disgregare) lo consente.
Insomma, la parola d’ordine del separatismo e dell'indifferentismo resta quella del “pluralismo”. Ma nasconde un’azione contraria al pluralismo includente che abbiamo descritto in precedenza, il quale ha piuttosto bisogno di valori universali, fondati anche sul diritto di natura, capaci di riconoscere e apprezzare la qualità. E per sostenere questa ipocrisia, questa contraddizione tra appello al pluralismo e suo rifiuto sostanziale, si rende quanto mai necessaria la dittatura del linguaggio e dei comportamenti imposta dalla “correttezza politica” (nata, non a caso, negli Stati Uniti, dove la convivenza tra etnie e culture è un tratto caratteristico).
Dal piano socio-culturale a quello politico-giuridico
I valori che hanno rilevanza sul piano sociale e culturale possono trasporla anche sul piano politico-giuridico.
Innanzitutto, all'etica sociale non possono sottrarsi, nei loro comportamenti, i titolari di cariche pubbliche.
Essi devono essere giudicati, innanzitutto, per gli atti politici e amministrativi. Ma non si può sostenere che tutti i loro comportamenti personali rientrano nella sfera privata; è un aspetto che abbiamo cercato di illustrare poc'anzi nel paragrafo sulla differenza tra morale personale e morale sociale, nonché in un articolo sul diritto alla riservatezza.
Questo non significa scadere in un moralismo alla Savonarola, o pretendere figure angeliche (e magari incompetenti), o invocare una "coerenza" piena - e nei fatti impossibile - tra ciò a cui si tende e ciò che si riesce a realizzare.
Significa semplicemente ricordare che la distinzione tra moralità privata e sociale segue, per i titolari di cariche pubbliche, un confine particolare. I comportamenti degli uomini pubblici, peraltro, hanno un rilievo particolare anche perché contribuiscono a forgiare - nel bene e nel male - il sentire collettivo.
Alcuni valori, che hanno particolare rilevanza sul piano morale, sociale, culturale, possono trasporla sul piano politico-giuridico anche nel senso che possono fondare norme giuridiche, dotate del massimo grado di "coattività": un patto può divenire un contratto, tutelato dall'ordinamento statale. Il furto non è più solo un'offesa privata, ma un reato pubblico.
Anche le scelte politiche esprimono un criterio "valutativo": un'ideologia, una scala di princìpî o valori. Difendere il ladro o il derubato? L’innocenza del bambino o il piacere del pedofilo?
E ancora: un tribunale che non applicasse la legge (basata sui valori della Costituzione) non sarebbe in grado di giudicare secondo giustizia; esprimerebbe, al massimo, l'estro del giudice.
Del resto, la compresenza di regole organizzative e regole istituzionali (che, come visto inizialmente, si fondano su giudizî di valore) è quella che individua il fenomeno giuridico in sé, laddove queste regole siano dotate del carattere della coattività (Martines, cit., p. 25).
Anche la realtà politica, il piano politico-giuridico, ha le sue leggi di funzionamento e i suoi valori. Ha un metodo per individuarli, il metodo democratico, e un fondamento formale, il diritto naturale.
Di questi aspetti, dello spazio che possono occupare i valori nella sfera pubblica senza la deriva dello Stato etico, ci occupiamo proprio nell'articolo sull'Attualità del diritto naturale.
Ben sapendo che il dibattito politico può essere fecondo solo in una società unita da un idem sentire culturale e sociale.
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(1) Max Weber intendeva elaborare un sistema etico che superasse, almeno sul piano sociale, l'etica tradizionale cristiana e, più in generale, religiosa.
Per classificare quest'ultima in senso deontologico-precettivo, creò la categoria dell’ "etica dell'intenzione" (o della convinzione). Si badi bene: l'uso corrente del termine "intenzione" potrebbe indurre a pensare ad un sistema etico motivazionale ("intenzione" come motivo soggettivo o fine che ci si prefigge); Weber, invece, lo utilizza per qualificare un sistema come deontologico-precettivo ("intenzione" intesa quale principio normativo assoluto). Questa "etica dell'intenzione" o “della convinzione”, secondo Weber, sarebbe astratta e dogmatica; “deontologica”, in quanto si limiterebbe a porre regole rigide e assolute, senza tener conto degli effetti concreti delle azioni.
Ad essa sarebbe da preferire – soprattutto nelle scienze sociali e in una società sempre più complessa - una nuova "etica della responsabilità", di tipo consequenziale-utilitaristico.
Il suo sistema, però, parte da una comprensione errata dell’etica tradizionale cristiana, sviluppatasi nell’alveo del cattolicesimo.
Weber, cresciuto in un contesto protestante, non tenne in conto che il cristianesimo non è un sistema etico, ma l'incontro con una Persona che salva. Da un messaggio di salvezza universale nascono inevitabilmente principî etici, non riconducibili però ad una classificazione rigida e riduttiva.
Quella cristiana – quanto al suo fondamento - è un'etica al tempo stesso oggettiva (fondata sulla legge di Dio) e soggettiva (fondata sul giudizio della coscienza rettamente formata).
Quanto al suo contenuto, è un'etica al tempo stesso motivazionale (la spinta emotiva, la motivazione iniziale qualifica moralmente l’atto), deontologica (in casi oggettivamente definiti e moralmente significanti esistono comportamenti moralmente qualificati) e consequenziale (l’atto è qualificato anche dal fine, che non “giustifica” i mezzi). Aspetti chiaramente riassunti nel Catechismo della Chiesa Cattolica ai nn.1750/1756.
Weber, ponendosi come bersaglio principale l’etica religiosa, dimenticava tra l’altro che l'etica cristiana - nella sua complessità - ricompone in maniera nuova e completa concetti che l'hanno anche preceduta e hanno contribuito alla formazione del pensiero occidentale: platonismo, aristotelismo e stoicismo erano sistemi etici deontologici o - per dirla con Weber - "dell'intenzione”.
Un altro errore di prospettiva, forse, è stato quello di confondere la morale col moralismo, cioè quell’atteggiamento (sempre troppo diffuso) che riprende le regole morali senza comprenderle, sclerotizzandole, a volte anche strumentalizzandole. Questa confusione è ancora più arbitraria nel caso della morale cristiana, che richiede la conversione del cuore e vuole liberare dal "giogo della legge".
Venendo al merito delle sue posizioni, Weber riteneva che la distinzione delle conseguenze in buone o cattive fosse del tutto arbitraria e soggettiva, sostenendo l’avalutatività dei valori (scelte razionali erano possibili solo con riferimento alle "leggi" di funzionamento sociale). Egli, pertanto, non intendeva la responsabilità come fedeltà alla verità complessiva delle realtà umane, ma solo a quella parte di verità scientificamente misurabile; in politica, per intenderci, non sarebbe ‘responsabile’ chi sceglie la democrazia (giudicandola buona) al posto della dittatura (giudicata cattiva), ma solo chi sa rendere efficiente ciascuno dei due sistemi. Un precursore del relativismo, insomma.
Il fondamento di una tale morale resta molto debole; il richiamo alla responsabilità si riduce ad appello ad una generica buona volontà personale. Weber non teneva conto, tra l’altro, che la debolezza umana, la difficoltà a rispettare i principî che si scontrano contro istinti ed egoismi, vale tanto per le verità “scientifiche” quanto per quelle morali. E non seppe prevedere che la pretesa di supremazia della verità “scientifica”, passata la sbornia positivista, sarebbe definitivamente tramontata.
La considerazione – piuttosto ovvia – che in una società possono convivere idee diverse non risolve però un nodo essenziale: se esista – debba esistere – un nocciolo di valori fondamentali condivisi che garantisca la convivenza e la crescita sociale.
Le radici culturali del rifiuto dei valori possono essere rinvenute essenzialmente nel liberalismo assoluto e nel relativismo.
Il rifiuto dei valori comuni: il liberalismo assoluto
Cercando di analizzare la libertà umana nella sua pienezza di significato, abbiamo ricordato che il liberalismo filosofico assoluto proclama un’idea di libertà umana “assoluta”, cioè “sciolta” da ogni regola e ogni scopo, da ogni “valore”. Una libertà fine a se stessa.
Abbiamo anche visto che quando questa ideologia si traduce - sul piano dei comportamenti individuali - in libertarismo, rifiutando i valori morali, la libertà della persona si rivela illusoria, degenera – in una sorta di eterogenesi dei fini - nel contrario di sé, in forme diverse di schiavitù.
Lo stesso capovolgimento della libertà si produce con il rifiuto dei valori nella sfera socio-culturale.
Il liberalismo assoluto, infatti, non può tradursi in un credibile sistema di convivenza. Promette di realizzare i desiderî attraverso la creazione indefinita di nuovi diritti (pomposamente definiti "diritti civili"), senza preoccuparsi su chi ricadano i corrispondenti doveri (spesso si tratta di soggetti deboli: così il ‘diritto’ all’aborto ignora il diritto alla vita del nascituro). L’esaltazione smisurata dell’io presuppone la schiavitù degli altri; le relazioni non sono più di reciproco dono, ma di rapporto mezzo-fine.
L’anarco-liberalismo (il progetto socio-politico più vicino al liberalismo estremo) non ha mai avuto credibili tentativi di realizzazione. In effetti, dove tutto è permesso nulla è garantito, neanche i diritti fondamentali: prevale la “legge della giungla”, del più forte. La conciliazione spontanea delle libertà assolute, viste come assenza di legami, esiste solo nell’utopia.
Ci si deve allora arrendere ad una libertà meramente formale. Il liberalismo utilitarista, che ha la sua matrice nell’empirismo inglese, individua nella soddisfazione delle preferenze personali l’unico criterio oggettivo per guidare i comportamenti umani, e nel libero accordo tra i consociati la maniera per realizzarlo; diventa liberalismo anche politico, propugnando uno Stato “minimo”. Ma l’accordo tra parti che hanno forza contrattuale diseguale non è “libero”: si traduce, concretamente, nella sopraffazione del più forte (del più ricco, del più influente, del più preparato). Questo tipo di Stato non promuove il bene comune, ma cerca solo di limitare il male economico (si traduce nel liberismo, o laissez-faire): così sono considerati ‘inevitabili’ i fenomeni della microcriminalità, della prostituzione pubblica, della droga, della corruzione, ecc.
L’instabilità cronica del modello libertario, nelle sue varianti, può anche far sì che esso degeneri nella direzione opposta. Infatti, chi non vuole rinunciare al mito delle libertà assolute, ma non si rassegna alla loro conflittualità, ritorna a confidare in uno Stato simile a quello dei razionalisti: espandere a dismisura la sfera d’intervento pubblico dovrebbe rendere possibile soddisfare tutti i bisogni individuali, soprattutto materiali, senza che nessuno ne sopporti i costi (era la tesi di Rousseau e del liberalismo illuminista), in un compromesso tra permissivismo libertino nei costumi personali, e rinuncia ad ogni autodeterminazione economica, sociale, politica.
La sfera complessiva delle libertà (che è una sfera indivisibile: libertà private e pubbliche, economiche e spirituali, culturali e politiche, familiari e sociali), insomma, anziché espandersi si riduce, o viene ‘delegata’ allo Stato. Il risultato che si ottiene è quello di sviluppare la passività degli individui, la perdita di responsabilità, la nascita di nuovi vincoli. Un modello sociale cui potrebbe ben applicarsi la massima di Lenin: "È vero che la libertà è preziosa. Così preziosa che bisogna razionarla".
Il liberalismo classico, nelle sue migliori espressioni (Locke, Jefferson, Kant, Smith, Tocqueville), ha invero elaborato sistemi più complessi, che potremmo definire di liberalismo democratico, in cui la libertà si concilia con altri valori (diritti naturali, diritti delle minoranze, ecc.), affinché la sua espressione sia piena e garantita a tutti. La libertà possibile è quella della realtà democratica, del suo delicato equilibrio con un’etica civile.
Il liberalismo democratico proclama valori che hanno validità universale, e nella ricerca di tali valori è debitore al pensiero e all'antropologia cristiana.
Il rifiuto dei valori comuni: il relativismo
Se il liberalismo assoluto è stato contraddetto dalla teoria filosofica e dall’esperienza storica, il rifiuto dei valori ha di recente ripreso nuova forza col relativismo, che cerca di minare in radice la possibilità stessa di effettuare una riflessione sulla verità (considerata "dogmatica" e "pericolosa per la libertà").
I valori non esisterebbero, o non sarebbero in ogni caso conoscibili. Tutti gli ideali sarebbero, quindi, moralmente indifferenti: è impossibile e inutile pensare di fondare la convivenza sociale e civile su valori comuni.
La contestazione dei valori è spostata dal piano della prassi a quello della conoscenza. Uno spostamento che peraltro, come abbiamo evidenziato nell’articolo Relativismo e verità, è dato da una somma di ipocrisia, di incongruenze logiche, di antirealismo: una mistura che alimenta un pericoloso autoinganno.
Il relativismo, se da una parte si presta quale strumento del libertarismo, dall'altra è in aperta contraddizione con la pretesa di universalità che abbiamo visto essere propria del liberalismo classico (democratico).
Nella nostra analisi su Relativismo e verità abbiamo cercato di dimostrare che la verità esiste, sia pure oggetto di una ricerca sempre faticosa e forse incompleta. Essa fonda valori che sono di guida all'uomo nella sua dimensione personale, ma anche - come vogliamo di seguito illustrare - in quella socio-culturale. Anzi, è proprio in questa dimensione che si avverte con più immediatezza l'esigenza di valori comuni.
Possiamo fare a meno di valori comuni?
Come abbiamo altrove ricordato, "in tutte le attività umane (insegnare, lavorare, legiferare, amministrare, giudicare) è necessario continuamente scegliere tra diversi interessi quelli meritevoli di tutela, in base ad un criterio di selezione. Tale criterio non richiede semplicemente una competenza "tecnica", ma è anche un criterio "valutativo": non esistono soluzioni “tecniche” o “neutrali”. Si sceglie, dunque, in base a principî, o valori. Valori che possono a loro volta entrare in conflitto, e richiedere una scelta in base ad una gerarchia, un ordine d'importanza. Sostenere che si possa fare a meno di discutere dei valori comuni (o che i valori siano tutti uguali) è un grande imbroglio, serve a imporre alcuni princìpî (funzionali a interessi forti) spacciandoli come inevitabili, tecnici, neutrali, e sottraendoli al libero confronto culturale e democratico".
Ad esempio, se gli insegnanti - anche i più eruditi e preparati metodologicamente - non avessero valori su cui fondare l’insegnamento, una scuola non sarebbe in grado di insegnare nulla. Avere valori, contenuti di riferimento, non significa indottrinare o plagiare. Trasmettere ai discenti il senso critico, fornire chiavi di interpretazione, distinguere la qualità di ciò che è fondamentale apprendere (perché prima Dante e poi – che so… - Gonzales?), orientarsi nel pluralismo: sono tutte operazioni che, pur non essendo dottrinarie o ideologiche, partono da un certo sistema di valori.
Ancora: una comunità di lavoratori, un'impresa, in cui gli addetti abbiano grande perizia tecnica, ma in cui non ci siano la stessa cultura del lavoro, lo stesso senso dell'impegno e del dovere, lo stesso spirito di collaborazione, fiducia reciproca, voglia di perseguire un obiettivo comune, è condannata al fallimento. Non è ipotesi astratta: nessuna azienda internazionale riesce a far collaborare lavoratori di nazionalità diversa, se non dopo che questi siano stati selezionati sulla base di determinati parametri e abbiano seguito lunghi corsi di formazione sulla mission e lo stile di lavoro aziendali; altrimenti, un tedesco e un giamaicano si manderebbero a quel paese dopo cinque minuti...
E così in tutte le realtà umane: nello sport, nella ricerca scientifica, sino al più vasto ambito della comunità culturale e sociale.
Tutti i gruppi sociali, per la loro stessa esistenza, necessitano di regole organizzative e di regole "istituzionali" (che valgono a creare il gruppo e a dargli stabilità, conferendogli la fisionomia di istituzione). Ebbene, "un giudizio di valore viene espresso nelle regole [istituzionali] con le quali, a seconda dei casi, l'intero gruppo, alcuni o uno solo dei suoi componenti stabiliscono che determinati interessi assumono rilevanza rispetto ad altri" (T. Martines, Diritto costituzionale, Milano 1992, p. 13).
Valori comuni, cultura, crescita sociale.
La rilevanza sociale dei valori, insomma, appartiene al grande campo delle idee umane, che guidano lo sviluppo della civiltà.
E' il campo della cultura: nessuno può negare che la cultura sia un fenomeno sociale! Gli elementi che compongono la cultura di una comunità fondano il senso di appartenenza alla comunità stessa.
Tutte le realtà naturali (scuola, lavoro, politica, scienza, arte, ecc.), infatti, hanno leggi e valori proprî. "Leggi" di funzionamento, da conoscere e applicare mediante le competenze tecniche. Ma anche "valori" (termine cui diamo una connotazione positiva, ancor più che "principio" o "ideale"), i quali sono espressione del ‘dover essere’ di quelle realtà, assicurandone la rispondenza al fine che è loro proprio.
Questi valori hanno una componente universale, oggettiva, naturale, che gli uomini devono scoprire; ed una componente mutevole, legata al contesto storico-sociale, che gli uomini devono verificare e rielaborare.
Le realtà sociali, dunque, hanno valori "comuni" alle persone che in esse si muovono. Il rispetto di tali valori è condizione della crescita sociale.
Come individuare i valori comuni
Come procedere concretamente per individuare i valori comuni? Non è sempre facile, anche perché non esiste un catalogo di valori immutabile.
Serve innanzitutto un metodo.
Sul piano socio-culturale - quello che stiamo prendendo in particolare considerazione in questa esposizione - il metodo più invocato è il dialogo razionale. Ma è sufficiente? La realtà ci offre tanti esempi di dialoghi "tra sordi"...
Allora può capitare che si arrivi a conclusioni affrettate ("il dialogo non trova i valori comuni perché questi non esistono, non servono, è sufficiente la tolleranza"), e si cerchino scorciatoie per far convivere pacificamente idee diverse od opposte, magari invocando il principio di maggioranza.
Ma la verità preesiste alla nostra conoscenza, non si determina mettendola ai voti. E, inoltre, applicare il principio di maggioranza significa effettuare un indebito spostamento della mediazione dal piano culturale a quello politico-giuridico. Questo spostamento di piano, in molti casi (quando un rapporto richiede una regolamentazione più forte e vincolante), è normale che avvenga; ma senza saltare il fondamentale passaggio intermedio, l'individuazione del valore su cui fondare la norma, valore che ne garantisce l'efficacia ed il consenso più largo possibile. Altrimenti, siamo sicuri che sia facile accettare decisioni che - sia pure fornite di sanzione legale - si sentono come profondamente ingiuste?
Allora, oltre che un metodo, per individuare i valori serve trovare agli stessi un fondamento, qualcosa che attinga alla componente naturale (di verità) dei valori, e che ci faccia sentire la comune appartenenza alla società in cui viviamo.
Il primo tra i valori, che è fondamento costante di tutti gli altri (come spieghiamo nell'articolo Quali valori?), è l’eminente dignità dell’individuo. Tale dignità esige il rispetto e la promozione di tutto l’uomo ‑ nelle sue componenti materiale, morale, spirituale ‑ e di tutti gli uomini. Solo su queste basi comuni - perché comune è la natura umana - può esservi un dialogo costruttivo.
Il riconoscimento di un fondamento, dunque, muta anche la natura del dialogo, che rinuncia ad essere solo mera comunicazione dei proprî istinti e desiderî. Piuttosto, diviene strumento di ricerca, esercizio concreto (e non verboso) della razionalità, sforzo sincero di elaborare - o rinvenire nella natura e in una tradizione - valori comuni più precisi, razionalmente condivisibili, adeguati ai diversi contesti sociali e storici, ordinati secondo una gerarchia armonica ed equilibrata. Un fondamento solido rende il dialogo capace di perseguire - nella libertà - la verità propria di ogni realtà umana. Ricercare la verità, sul piano socio-culturale, significa anche saper ricercare la qualità, il bello: come le opere classiche, che sanno divenire punto di riferimento (e di dibattito) universale per le culture.
La libertà individuale, il consenso sociale (poiché si parla di valori comuni) sono fondamentali: non si tratta di valori che possano essere imposti.
Non bisogna fare confusione: la libertà non è il metodo per individuare i valori, o il fondamento degli stessi, bensì la condizione per cui il metodo possa essere efficacemente esercitato e il fondamento accettato (o respinto). Il consenso non "produce" il valore, bensì lo "riconosce"; la verità del valore preesiste al consenso che la accoglie o la respinge.
Va anche aggiunto che il consenso può concorrere a definire il valore nella sua componente mutevole, arricchendolo e inserendolo nel particolare contesto storico-sociale.
Valori e convivenza: l'etica sociale e civile
La rilevanza sociale dei valori, oltre che condizione del pieno sviluppo delle realtà sociali, è anche un’esigenza pratica della convivenza: i valori fondano l’etica sociale e civile.
Sia detto per inciso: alcuni sono convinti che le parole "etica", "morale", siano riservate alla sfera intima e privatissima dell'individuo. Per cui parlare di "etica (o di morale) sociale e civile" significherebbe sovrapporre il piano personale con quello sociale o, peggio, politico, ai confini dello Stato Etico.
Ora: quello dello Stato Etico è un pericolo grave, che suscita giustificati timori e deve essere sempre respinto. Questi giustificati timori, però, non possono indurre a negare la realtà dell'etica sociale.
La "responsabilità" - la necessità di rispondere delle nostre azioni - è un'esigenza interna della libertà. Un'esigenza che emerge già nella dimensione della morale individuale; ma che diventa di tutta evidenza nella dimensione sociale.
Esiste anche una responsabilità sociale: le nostre azioni hanno ricadute sugli altri, di tali ricadute dobbiamo rispondere. Chi si rapporta con gli altri, e ne chiede la collaborazione, deve aspettarsi le loro reazioni...
In certi casi, senza l’applicazione del principio di responsabilità, può soffrire la dignità dell’uomo, del quale viene misconosciuto il contributo alla crescita della realtà in cui opera. Inoltre, soffre la realtà sociale stessa, poiché se l’uomo non vede riconosciuti i suoi giusti meriti, e non vede frenate le sue inevitabili debolezze, fornisce inevitabilmente un contributo scadente; la mancanza di responsabilità precise è il male principale che affligge statalismi e burocrazie.
Quando poi commettiamo l'azzardo di trasferire una cultura permissivista anche sul piano legale, creando la falsa alternativa tra "prevenzione" e "repressione", creiamo le basi della disgregazione sociale.
Rimarcare l’importanza della responsabilità, come stiamo facendo, non sembra però sufficiente a fondare solo su di essa un sistema etico, pensando - come ha fatto Max Weber - a un’ “etica della responsabilità”. La quale, in fin dei conti, non è altro che un’etica utilitaristica, sia pure rapportata a criterî di utilità sociale (1 - vedi in basso). È l’idea di etica a cui si rifanno quanti propongono – anziché una semplice amoralità – un’etica “laica”.
Ci rendiamo tutti ben conto, ogni giorno, che i nostri comportamenti sono vincolati dal rispetto di una serie di valori, iscritti in norme non giuridiche ma morali: la sincerità, la fedeltà, la correttezza (come, ad esempio, non “fare le scarpe” al collega di lavoro), la disponibilità, il rispetto della parola data, la gratitudine, ecc. Regole che sentiamo intimamente giuste, regole il cui rispetto gli altri si attendono da noi e, soprattutto, noi pretendiamo da loro.
Tali norme richiedono certo, innanzitutto, un consenso spontaneo; ma hanno anche una dimensione oggettiva (i valori), che conferisce loro diversi gradi di "necessità" (se non le si rispetta, le cose vanno male) e di "obbligatorietà" (c'è una pressione sociale a rispettarle, ad assumersi le responsabilità sociali, magari col meccanismo del premio-disincentivo).
La morale, dunque, non è solo una scala di valori personale e interiore (peraltro, la stessa morale personale ha una dimensione oggettiva e relazionale); ma, per alcuni dei valori che guidano i nostri comportamenti, è anche un codice sociale. L’etimologia di “morale” (dal latino mores = usi, costumi), così come quella di “etica” (dal greco êthos, che parimenti indica usi e costumi), ci rammentano ciò.
In tutti i contesti sociali e culturali troveremo sempre, inevitabilmente, norme morali da rispettare: chi ha vissuto negli anni ’60/’70 l’esperienza delle “comuni”, improntate teoricamente alla massima promiscuità sessuale, racconta di furibonde scenate di gelosia (!), che hanno infine portato alla dissoluzione di quelle esperienze. Chi pensasse di attenersi alle sole norme giuridiche, infischiandosene allegramente di quelle morali, danneggerebbe probabilmente il proprio equilibrio interiore, incontrerebbe certamente l’ostilità delle persone che lo circondano, non troverebbe la chiave di mediazione e di soluzione dei conflitti comunitari e sociali.
La necessità del consenso, nell'adesione all'etica sociale, non elimina la dimensione oggettiva dei valori che fondano tale etica. Reciprocamente, questa dimensione oggettiva non è in grado di coartare la libertà personale.
La voce delle autorità morali (la Chiesa, esponenti di altre confessioni religiose, personalità di riconosciuta autorevolezza), dunque, può fornire un contributo pienamente coerente con questa visione. La legittimità delle pronunce non coattive delle autorità morali, anche nella sfera pubblica, si basa non solo sul principio della libertà di espressione (che di per sé sarebbe sufficiente), ma anche sull'esigenza del corpo sociale di attingere ad insostituibili risorse di sapienza nell'individuazione dei valori.
In particolare, il carattere religioso di una voce che si pronuncia, o l'ispirazione religiosa di un principio, non è in alcun modo in contraddizione col valore della laicità correttamente inteso.
La differenza tra morale personale e morale sociale
Esistono, dunque, una morale - entro certi limiti - personale ed una morale sociale e civile (Hegel, a dire il vero, utilizzò il termine "etica" per definire il codice sociale, preferendo riservare quello di morale alle azioni che incidono più direttamente sulla sfera individuale: si tratta di convenzioni linguistiche).
Sottolineato che esiste una dimensione sociale della moralità, bisogna altresì sottolineare che i due piani non sono né separabili drasticamente né sovrapponibili. Come è sbagliato considerare "privati" o "soggettivi" valori che hanno essenzialmente una rilevanza sociale e una dimensione oggettiva, così è sbagliato "pubblicizzare" valori che attengono primariamente alla sfera personale dell'individuo.
È difficile, in poche righe, fare un "catalogo" di questi differenti valori. Aver chiara questa distinzione, però, può già aiutare a "formare rettamente" il giudizio della propria coscienza (esistono, ovviamente, anche veri e proprî trattati di morale per approfondire la questione).
Per fare un solo esempio: la sfera dei comportamenti sessuali ha una dimensione più marcatamente privata, delimitata dal "pudore", che dovrebbe essere sottratta al giudizio morale pubblico.
A meno che non sia la persona stessa ad ostentare i comportamenti attinenti quella sfera, pretendendo di ridefinire la dimensione oggettiva del valore, e 'provocando' così il giudizio di chi non condivide il comportamento. A maggior ragione, tale giudizio potrebbe essere provocato da chi adotta comportamenti sessuali che assumono il sapore di sfida verso istituti sociali come il matrimonio; o da chi adotta comportamenti sessuali che contrastino stridentemente con quanto apertamente proclamato (un fustigatore di costumi altrui è maggiormente tenuto alla coerenza privata); o da chi pecca di superficialità nell'adottare comportamenti non conformi ad una dignità pubblica rivestita (non a caso l'art. 54 della Costituzione italiana recita: "I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore").
Stiamo esaltando un modello di "vizî privati e pubbliche virtù"? Facendo l'elogio dell'ipocrisia? No.
La differenza tra morale personale e sociale si fonda innanzitutto sul contesto in cui i valori vengono vissuti. Siamo chiamati alla coerenza - per quanto possibile alla debolezza umana - in tutti i contesti, privati e pubblici. La violazione del codice morale sociale, però, assume una rilevanza più estesa. Non perché sia "più grave" della violazione della morale privata, ma semplicemente perché infrange una responsabilità più vasta, e provoca un giudizio più esteso. Sottoporre allo stesso giudizio pubblico i comportamenti "privati" (quelli realmente tali, ovviamente, non quelli che si vorrebbe definire tali solo per sottrarsi alle responsabilità sociali) significa invocare la cappa di un soffocante moralismo.
Valori comuni, relativismo e pluralismo sociale
L’esistenza di valori sociali comuni naturali, ordinati secondo una propria gerarchia, da scoprire pazientemente, è il dato che fonda la convivenza umana, è il punto di riferimento del dialogo tra idee diverse, la condizione stessa del pluralismo. Che cosa sono le idee, se non la personale visione della verità? I padri del pensiero liberale (John Stuart Mill) difendevano la libertà di pensiero e il confronto di opinioni proprio quali strumenti più efficaci per raggiungere la verità.
Giovanni Paolo II, nel discorso pronunciato il 5 ottobre 1995 di fronte all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ricordò che, anche nel dialogo tra popoli diversi, “dobbiamo trovare la strada per discutere, con un linguaggio comprensibile e comune, circa il futuro dell'uomo. La legge morale universale, scritta nel cuore dell'uomo, è quella sorta di "grammatica" che serve al mondo per affrontare questa discussione circa il suo stesso futuro. Sotto tale profilo, è motivo di seria preoccupazione il fatto che oggi alcuni neghino l'universalità dei diritti umani, così come negano che vi sia una natura umana condivisa da tutti. Certo, non vi è un unico modello di organizzazione politica ed economica della libertà umana, poiché culture differenti ed esperienze storiche diverse danno origine, in una società libera e responsabile, a differenti forme istituzionali. Ma una cosa è affermare un legittimo pluralismo di 'forme di libertà', ed altra cosa è negare qualsiasi universalità o intelligibilità alla natura dell'uomo o all'esperienza umana”.
La necessità di un punto di riferimento comune è ovviamente maggiore se, dal dialogo tra popoli diversi, passiamo a quello necessario a definire le regole della convivenza all'interno della stessa comunità.
E' dunque falso sostenere che chi propugna l'idea di verità non sia aperto al pluralismo. Il pluralismo non deriva dall’inesistenza di valori universali, ma dal ruolo ineliminabile che riveste la libertà nella ricerca e nel riconoscimento di tali valori. Anche una società pluralistica si fonda su un patrimonio di linguaggio, di simboli, di valori comuni. E' proprio questo patrimonio che rende il pluralismo arricchente e includente, non conflittuale.
E' altrettanto falso sostenere che chi crede in una verità sia 'inevitabilmente' portato ad imporla, minando le basi della democrazia e della pace (come propugnano i sostenitori del cosiddetto “pensiero debole” o i fautori di un ingenuo pacifismo).
Questo può accadere se si tratta di una 'verità' astratta, prodotta dalla ragione soggettiva (magari mascherata da relativismo), lontana dalla realtà della natura umana. La ragione realista, invece, non può imporre nessuna verità, ma solo proporla, perché è consapevole dei proprî limiti, perché sa che parte ineliminabile della natura umana è la libera adesione ai principî ritenuti veri.
L'esempio più elementare: si può considerare "prevaricatore" il cristiano che propone come verità quella della croce, cioè del sacrificio e del perdono?
Si pensi anche a Gandhi: egli fondò la sua dottrina della non violenza sul principio del satyāgraha, che significa "insistenza per la verità": ogni essere umano deve difendere le proprie concezioni morali e politiche fondamentali, anche se deve subire ingiustizie e violenze per questo. Anzi, ogni tentativo di mascherare la verità era per Gandhi un atto di violenza; da combattere, naturalmente, con fermezza non violenta.
Esiste, in questa prospettiva, un "relativismo" positivo, quello che, pur riconoscendo e avendo come riferimento verità oggettive, ne conosce la mutevole realizzazione e percezione in una realtà imperfetta. Questo atteggiamento realista - e non ideologico - è necessario nell'ambito della politica, e fonda i sistemi liberal-democratici (contro l'ideologia dello Stato assoluto portatore di una verità totalitaria); un realismo che rifiuta di assolutizzare i problemi politici e di imporre soluzioni, perché sa che sono "relativi" al contesto storico e sociale.
Il relativismo che nega la verità (o ne fa un prodotto del volontarismo), al contrario, nel momento in cui ammette al dibattito civile e politico solo alcune visioni (quelle "politicamente corrette"), è il vero nemico del pluralismo sociale e culturale (così come, nella sua forma giuridica – il positivismo -, lo è del pluralismo politico e della democrazia).
Il pluralismo sostiene che "tutte le idee sono libere, ma non tutte sono uguali", nel senso che tutte le idee possono essere liberamente espresse, anche quelle che ritengono di avere un fondamento migliore di altre (senza per questo volerle reprimere).
Per il relativismo, invece, "tutte le idee sono uguali, ma non tutte sono libere" ovvero debbono essere represse quelle che negano l'equivalenza di ogni posizione. Ovviamente è una trappola logica, perché ogni idea ha implicitamente in sé la pretesa di essere migliore di un'altra; per cui si tratta solo di un pretesto con il quale alcune lobbies si arrogano il diritto di dare o negare il bollino di "democraticità", dissimulando i proprî interessi o le proprie ideologie con pretesa di verità (utilitarismo, scientismo). È in questo senso che l'allora cardinal Ratzinger, poco prima dell'elezione a Pontefice, poté parlare di "dittatura del relativismo".
In un'ottica pluralista, ad esempio, è possibile sostenere che i genitori hanno il diritto di scegliere l'educazione sessuale dei proprî figli - che nella generalità dei casi rispetterà un'inclinazione di tipo eterosessuale - e che le istituzioni non debbano ostacolare quel diritto. In un'ottica relativista (usata strumentalmente dalle lobbies gay) si pretende che non è possibile sostenere l'inclinazione eterosessuale come preferibile a quella omosessuale (!), che un 'clima' di preferenza per l'eterosessualità lederebbe i diritti degli omosessuali (?), e che - in sostanza - si deve imporre a tutti un'educazione che presenti le due (o più...) tendenze come opzioni equivalenti (??), reprimendo le impostazioni educative differenti !
Il relativismo usa argomenti parzialmente diversi quando si pone il problema della convivenza tra culture diverse (ad esempio a causa dei flussi migratori) o del confronto tra civiltà, che vengono sempre più in contatto in un pianeta dove gli scambi culturali ed economici si fanno sempre più fitti, accrescendo le dimensioni dei problemi da risolvere (inquinamento, energia, povertà, guerre). In questi casi, spesso viene riconosciuta l’esistenza di valori, ma ne viene negato il carattere di verità universale. Si ritiene che siano valori validi per le singole comunità, assolutamente equivalenti tra loro (indifferentismo); non ci si pone, però, il problema di comunità diverse che possono venire in contatto. Questo succede perché il relativismo confonde il pluralismo includente (in cui diverse culture convivono, si confrontano in un dialogo interculturale capace di individuare valori comuni, e continuano a svilupparli anche in direzioni nuove) col separatismo escludente, definito eufemisticamente "multiculturalismo": si lascia che si creino mondi e comunità limitrofe e non comunicanti, in una sorta di apartheid di fatto, che evoca a parole il "dialogo" e la "tolleranza" come soluzione ai problemi della convivenza, ma si ritrova in concreto incapace a risolverli.
Ad esempio, si fa un bel parlare di "multiculturalismo", definendolo prospettiva "inevitabile" delle nostre società. Quasi che il termine "inevitabile" elimini di per sé i problemi. Ma come immaginiamo la convivenza di culture opposte?
Ci si affida alla soluzione della "tolleranza", talismano piuttosto semplicistico, che non può conciliare posizioni destinate allo scontro.
Dal principio della tolleranza, ad esempio, sembrerebbe derivare senza problemi la necessità di rispettare i diritti fondamentali dell'altro; sennonché la "tolleranza" non si premura di individuare concretamente quali sono questi diritti, lasciando alla legge positiva lo spazio per la loro manipolazione e negazione (nell’articolo sul diritto naturale ricordiamo i più eclatanti casi storici di violazione dei diritti umani che hanno avuto la copertura formale della legge).
Bisogna 'tollerare' che un medico dia la morte ad un malato, ritenendolo senza speranza? E i diritti del malato?
Bisogna 'tollerare' la poligamia? Che fine fanno i diritti della donna?
C'è, piuttosto, il problema dell'integrazione di culture diverse in una stessa società; e questo problema è risolvibile solo se, pur in un ambito di pluralismo, vengono individuati i valori comuni e condivisi.
Dall’incapacità del relativismo - sin qui descritta - di trovare gli strumenti per individuare valori universali, deriva inevitabilmente l’incapacità di effettuare qualsiasi comparazione tra valori: essi vengono riconosciuti solo nominalmente, come elemento folkloristico, come placebo sociale, come compromesso utilitaristico.
Nell'articolo su relativismo e verità, analizzando il percorso storico-filosofico che ha condotto al relativismo, abbiamo anche constatato che il rifiuto dei valori è associato al rifiuto di sé di una parte della società occidentale .
Questo rifiuto ha indotto a cercare altrove "sistemi" di valori più seducenti, magari perché meno responsabilizzanti (vedi le mode orientaleggianti), esaltandone esageratamente i pregi e sminuendone superficialmente i difetti. E alla fine ci si accorge che forse quelle culture sono meno capaci di offrire risposte alla complessità delle esigenze dell'uomo moderno. L’indifferentismo, il rifiuto della comparazione tra valori, il separatismo, nascono anche dal rifiuto dell’idea di qualità. La tentazione di eludere la ricerca della qualità, con l’impegno e la responsabilità che comporta; la ricerca di garanzie dei risultati (e non solo delle opportunità): sono eredità del fallimento del socialismo, che possono in parte trovare sfogo e rifugio in un gruppo di appartenenza. Un gruppo che costituisca una minoranza (etnica, religiosa, linguistica, culturale, sessuale) ben organizzata, può rivendicare garanzie e privilegi, rifiutare responsabilità verso il bene comune, lamentando come “discriminazione”, intolleranza verso i proprî valori, ogni tentativo di cercare il dialogo sui valori comuni.
E' un meccanismo di autoaffermazione che nasce all'interno della nostra cultura (un gruppo di giovani può pretendere di “sfogare la propria creatività” col vandalismo, una coppia gay può richiedere l'adozione di figli come se fosse una famiglia, ecc.), ma che può essere ripreso e ingigantito da comunità che hanno un'identità ben più forte e "tradizioni" ben più contrastanti con la nostra: una comunità islamica può pretendere di mutilare le donne, una comunità cinese di tener segregati come schiavi-lavoratori i bambini, ecc.
I valori che esprimono il sentimento comune non sono normalmente organizzati in gruppi di pressione. Cosicché può accadere che su di essi si impongono gli interessi particolari e disgreganti promossi da lobbies culturali attive e militanti. Interessi i cui costi sociali ed economici sono scaricati sulla collettività, almeno finché il tessuto sociale (che proprio queste lobbies cercano di disgregare) lo consente.
Insomma, la parola d’ordine del separatismo e dell'indifferentismo resta quella del “pluralismo”. Ma nasconde un’azione contraria al pluralismo includente che abbiamo descritto in precedenza, il quale ha piuttosto bisogno di valori universali, fondati anche sul diritto di natura, capaci di riconoscere e apprezzare la qualità. E per sostenere questa ipocrisia, questa contraddizione tra appello al pluralismo e suo rifiuto sostanziale, si rende quanto mai necessaria la dittatura del linguaggio e dei comportamenti imposta dalla “correttezza politica” (nata, non a caso, negli Stati Uniti, dove la convivenza tra etnie e culture è un tratto caratteristico).
Dal piano socio-culturale a quello politico-giuridico
I valori che hanno rilevanza sul piano sociale e culturale possono trasporla anche sul piano politico-giuridico.
Innanzitutto, all'etica sociale non possono sottrarsi, nei loro comportamenti, i titolari di cariche pubbliche.
Essi devono essere giudicati, innanzitutto, per gli atti politici e amministrativi. Ma non si può sostenere che tutti i loro comportamenti personali rientrano nella sfera privata; è un aspetto che abbiamo cercato di illustrare poc'anzi nel paragrafo sulla differenza tra morale personale e morale sociale, nonché in un articolo sul diritto alla riservatezza.
Questo non significa scadere in un moralismo alla Savonarola, o pretendere figure angeliche (e magari incompetenti), o invocare una "coerenza" piena - e nei fatti impossibile - tra ciò a cui si tende e ciò che si riesce a realizzare.
Significa semplicemente ricordare che la distinzione tra moralità privata e sociale segue, per i titolari di cariche pubbliche, un confine particolare. I comportamenti degli uomini pubblici, peraltro, hanno un rilievo particolare anche perché contribuiscono a forgiare - nel bene e nel male - il sentire collettivo.
Alcuni valori, che hanno particolare rilevanza sul piano morale, sociale, culturale, possono trasporla sul piano politico-giuridico anche nel senso che possono fondare norme giuridiche, dotate del massimo grado di "coattività": un patto può divenire un contratto, tutelato dall'ordinamento statale. Il furto non è più solo un'offesa privata, ma un reato pubblico.
Anche le scelte politiche esprimono un criterio "valutativo": un'ideologia, una scala di princìpî o valori. Difendere il ladro o il derubato? L’innocenza del bambino o il piacere del pedofilo?
E ancora: un tribunale che non applicasse la legge (basata sui valori della Costituzione) non sarebbe in grado di giudicare secondo giustizia; esprimerebbe, al massimo, l'estro del giudice.
Del resto, la compresenza di regole organizzative e regole istituzionali (che, come visto inizialmente, si fondano su giudizî di valore) è quella che individua il fenomeno giuridico in sé, laddove queste regole siano dotate del carattere della coattività (Martines, cit., p. 25).
Anche la realtà politica, il piano politico-giuridico, ha le sue leggi di funzionamento e i suoi valori. Ha un metodo per individuarli, il metodo democratico, e un fondamento formale, il diritto naturale.
Di questi aspetti, dello spazio che possono occupare i valori nella sfera pubblica senza la deriva dello Stato etico, ci occupiamo proprio nell'articolo sull'Attualità del diritto naturale.
Ben sapendo che il dibattito politico può essere fecondo solo in una società unita da un idem sentire culturale e sociale.
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(1) Max Weber intendeva elaborare un sistema etico che superasse, almeno sul piano sociale, l'etica tradizionale cristiana e, più in generale, religiosa.
Per classificare quest'ultima in senso deontologico-precettivo, creò la categoria dell’ "etica dell'intenzione" (o della convinzione). Si badi bene: l'uso corrente del termine "intenzione" potrebbe indurre a pensare ad un sistema etico motivazionale ("intenzione" come motivo soggettivo o fine che ci si prefigge); Weber, invece, lo utilizza per qualificare un sistema come deontologico-precettivo ("intenzione" intesa quale principio normativo assoluto). Questa "etica dell'intenzione" o “della convinzione”, secondo Weber, sarebbe astratta e dogmatica; “deontologica”, in quanto si limiterebbe a porre regole rigide e assolute, senza tener conto degli effetti concreti delle azioni.
Ad essa sarebbe da preferire – soprattutto nelle scienze sociali e in una società sempre più complessa - una nuova "etica della responsabilità", di tipo consequenziale-utilitaristico.
Il suo sistema, però, parte da una comprensione errata dell’etica tradizionale cristiana, sviluppatasi nell’alveo del cattolicesimo.
Weber, cresciuto in un contesto protestante, non tenne in conto che il cristianesimo non è un sistema etico, ma l'incontro con una Persona che salva. Da un messaggio di salvezza universale nascono inevitabilmente principî etici, non riconducibili però ad una classificazione rigida e riduttiva.
Quella cristiana – quanto al suo fondamento - è un'etica al tempo stesso oggettiva (fondata sulla legge di Dio) e soggettiva (fondata sul giudizio della coscienza rettamente formata).
Quanto al suo contenuto, è un'etica al tempo stesso motivazionale (la spinta emotiva, la motivazione iniziale qualifica moralmente l’atto), deontologica (in casi oggettivamente definiti e moralmente significanti esistono comportamenti moralmente qualificati) e consequenziale (l’atto è qualificato anche dal fine, che non “giustifica” i mezzi). Aspetti chiaramente riassunti nel Catechismo della Chiesa Cattolica ai nn.1750/1756.
Weber, ponendosi come bersaglio principale l’etica religiosa, dimenticava tra l’altro che l'etica cristiana - nella sua complessità - ricompone in maniera nuova e completa concetti che l'hanno anche preceduta e hanno contribuito alla formazione del pensiero occidentale: platonismo, aristotelismo e stoicismo erano sistemi etici deontologici o - per dirla con Weber - "dell'intenzione”.
Un altro errore di prospettiva, forse, è stato quello di confondere la morale col moralismo, cioè quell’atteggiamento (sempre troppo diffuso) che riprende le regole morali senza comprenderle, sclerotizzandole, a volte anche strumentalizzandole. Questa confusione è ancora più arbitraria nel caso della morale cristiana, che richiede la conversione del cuore e vuole liberare dal "giogo della legge".
Venendo al merito delle sue posizioni, Weber riteneva che la distinzione delle conseguenze in buone o cattive fosse del tutto arbitraria e soggettiva, sostenendo l’avalutatività dei valori (scelte razionali erano possibili solo con riferimento alle "leggi" di funzionamento sociale). Egli, pertanto, non intendeva la responsabilità come fedeltà alla verità complessiva delle realtà umane, ma solo a quella parte di verità scientificamente misurabile; in politica, per intenderci, non sarebbe ‘responsabile’ chi sceglie la democrazia (giudicandola buona) al posto della dittatura (giudicata cattiva), ma solo chi sa rendere efficiente ciascuno dei due sistemi. Un precursore del relativismo, insomma.
Il fondamento di una tale morale resta molto debole; il richiamo alla responsabilità si riduce ad appello ad una generica buona volontà personale. Weber non teneva conto, tra l’altro, che la debolezza umana, la difficoltà a rispettare i principî che si scontrano contro istinti ed egoismi, vale tanto per le verità “scientifiche” quanto per quelle morali. E non seppe prevedere che la pretesa di supremazia della verità “scientifica”, passata la sbornia positivista, sarebbe definitivamente tramontata.
Fonte:http://www.europaoggi.it/content/view/1838/45/
Postato il 25 gennaio 2011
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