Paul Veyne tra studio dell'antichità e interpretazione del presente
di Laurent Larcher
Pubblichiamo in una nostra traduzione un articolo apparso su "La Croix" del 15-16 gennaio 2011
È accaduto due anni fa, negli incontri di Blois. Di fronte a un parterre di professori di storia e geografia, Paul Veyne, il volto nascosto dietro i suoi grandi occhiali, diceva divertito: "Sono per l'America, la corrida e il nucleare!". Il pubblico, educato, sorrise. L'aura da intellettuale, le sue amicizie (da Claude Roy a Michel Foucault) e la sua carriera (professore al Collège de France) lo proteggono da una scarica di legnate. Nessuno osa levare la propria voce contro l'eminente esperto dell'antichità. "Non sono un provocatore - reagisce oggi ricordando quell'episodio - è un controsenso pensarlo. Dico sempre alle persone quello che credo sia vero... soprattutto quando si sbagliano. Lo studio della storia antica mi ha mostrato quanto siamo pieni di idee false e di illusioni. Quando ero comunista, tutto si spiegava con il materialismo storico. Era un'idea falsa generalmente condivisa".
Abitato dalla parresìa greca (il "parlare vero") - tema al quale il suo amico Michel Foucault ha dedicato il suo ultimo corso al Collège de France - Paul Veyne, a ottant'anni, non ha peli sulla lingua.
Si dedica con forza, loquacità, passione e umorismo a quelle che chiama idee preconcette del nostro tempo, in storia come sull'andamento del mondo. Così, nel 2004, lo storico assesta un bel colpo mostrando che la conversione dell'imperatore Costantino era sincera: "Questo atto importantissimo mediante il quale l'impero romano diviene cristiano non era un calcolo politico, com'è ancora di bon ton insegnare o scrivere. Costantino non aveva nessuna ragione obiettiva per sposare il cristianesimo. Lo fece per convinzione religiosa. Questa conversione è incomprensibile agli occhi di coloro per i quali la storia è il terreno dell'economia, della politica e della sociologia", afferma infervorato.
Se difende la sincerità della conversione di Costantino, Paul Veyne se la prende con molti altri temi del momento: la nozione di "radici cristiane dell'Europa", una costruzione del pensiero; la celebrazione beata del darwinismo, "la mia bestia nera!"; le buone anime che denunciano la società consumistica.
Per queste ultime non ha parole abbastanza dure: "Sono dei privilegiati che ignorano la storia - sotto l'Ancien Régime, la vita dei nostri avi era totalmente sottoposta all'imperativo del consumismo - che disdegnano la nostra epoca e le sue attività giudicate poco elevate. Mi ricordano il disprezzo delle persone ingenuamente fasciste che ho conosciuto nel 1936: si tappavano il naso davanti al Fronte Popolare e al suo "materialismo di massa", opposto all'idealismo di Norimberga, più nobile e disinteressato!".
Se quest'uomo non ha paura di niente, se ama venire alle mani con gli imperativi categorici del pensiero comune, resta il grande agrimensore dell'antichità. Nella sua casa di Bédoin (Valchiusa), all'ombra del monte Ventoux, Paul Veyne mette il punto finale alla sua traduzione dell'Eneide. "La condizione quasi divina prestata a Virgilio ci porta a non rimettere in discussione la traduzione che abbiamo. È tuttavia inferiore ai testi in inglese o in tedesco".
Il professore riceve nel suo ufficio. Pile di libri, foto, un grande monitor, una stanza abitata dallo spirito dello studio. Sorridente, loquace, cordiale, a volte esplosivo. Paul Veyne offre una Perrier o un whisky e non nasconde la sua sorpresa se gli si dice di preferire, alle 10 di mattina, un caffè. "Essere subito sullo stesso piano di chiunque altro è un principio che mi viene dai miei anni comunisti. Con i miei giovani compagni dell'Ecole Normale avevamo adottato tre regole non negoziabili: restare semplici nei nostri rapporti, non approfittare mai della nostra posizione per dominare gli altri e dare del lei alle donne che ci concedevano i loro favori!".
Fra i libri accatastati gli uni sugli altri, alcuni ritratti e una foto storica, quella del gruppo Manouchain che sta per essere fucilato: "Questi uomini non mi lasciano mai". Nel corso della conversazione emerge un Paul Veyne serio ed esigente.
Per capirlo, occorre ricordare tre esperienze inaugurali, che lui confessa umilmente. La prima, solare, è la sua scoperta all'età di otto anni di un frammento di anfora. Questo tesoro gli apre il cammino della storia, dell'esperienza esistenziale al centro dell'attività storica: "Quel frammento era un oggetto di qui, si trovava sotterrato dove io vivevo. Eppure era completamente diverso da ciò che ero abituato a vedere. Ho fatto l'esperienza della sua estraneità rispetto alla nostra epoca e a me stesso. Era assolutamente affascinante".
La seconda esperienza, buia, è il modo in cui attraversa la guerra. "La mia famiglia era dalla parte dei tedeschi. E con lei ho preferito Hitler a Stalin. A tredici anni ero un giovane fascista. Non ho festeggiato la Liberazione. I miei occhi si sono aperti nel 1945, leggendo Julien Benda (La Grande Épreuve des démocraties). Ho capito quanto mi ero sbagliato. E per farmi perdonare, per espiare questa colpa terribile, ho aderito al partito comunista. Cosa sarei diventato, quali sarebbero stati i miei valori, se i nazisti avessero vinto la guerra? È una domanda che non ha mai smesso di assillarmi".
Terza esperienza, decisiva, la sua miscredenza. "Ho ricevuto, come tutti i bambini dell'epoca, un'educazione religiosa: sono stato battezzato e ho fatto la prima comunione. Ma un giorno, durante la guerra, all'uscita da un corso di catechismo, sulla spianata di Nimes, mi sono improvvisamente chiesto: condivido veramente la stessa fede del parroco? Non sentivo nulla, la mia testa era vuota. Non affermo la non esistenza di Dio. Ma io non ci credo, sono completamente sprovvisto di questa facoltà. Ho vissuto ciò come una malattia. Per questo ho dedicato più di quarant'anni della mia vita a "braccare" la pratica e il sentimento religioso nell'antichità greco-romana, come un asessuato che cerca di capire cos'è il piacere sensuale".
Tutta l'opera di Paul Veyne è legata a queste tre esperienze. Il frammento della sua infanzia, l'accecamento ideologico (fascista e marxista), la ricerca di Dio da parte di un "malato". Illuminata da questi elementi biografici, l'opera di Paul Veyne si comprende in modo nuovo.
Al centro dei suoi lavori sull'antichità greco-romana c'è l'idea che questa civiltà ci è completamente estranea: fra un romano del i secolo e un francese del xxi non c'è nulla o quasi nulla in comune. "Per avvicinarsi a questo romano, bisogna innanzitutto sapersi disfare di se stessi, accettare di spogliarci di tutto ciò che ci forma, ci modella, ci permea". Significa quindi che la ricerca storica è votata al fallimento? "Se diffido del presupposto universalista per il quale l'uomo è lo stesso ovunque, al di là del tempo e dello spazio, sono profondamente aristotelico nel senso che credo in un intelletto agente. La nostra ragione è capace di conoscere ciò che è intelligibile, ciò che rivela realtà pensate come la luce permette di cogliere il visibile".
Non possiamo pertanto rinchiuderci totalmente nella tradizione pirroniana. Paul Veyne confessa di essere anche tomista: "Ho qui tutta la Summa theologiae. La leggo e la medito regolarmente". È una sorpresa. Di fatto, dopo aver pubblicato il suo saggio sferzante (Comment écrit-on l'histoire?) Paul Veyne è stato innalzato fra i maestri della decostruzione. Anche se oggi si prende la testa fra le mani quando gli viene ricordato come il suo saggio, alimentato dal pensiero tedesco, abbia inferto un duro colpo alle pretese obiettive della disciplina storica.
Paul Veyne arrossisce quando gli viene ricordato che con lui la storia ha lasciato le rive della scienza per affrontare l'orizzonte incerto di un sapere imperfetto. Un lavoro di demistificazione che ha proseguito con l'antichità: il rapporto dei greci con i loro miti, la vita sessuale dei romani, la questione del dono pubblico, la figura dell'imperatore, la fine dell'impero.
In questo momento in cui ormai sa che la morte non è più un'idea, è abitato non dalla paura di morire ("La morte è la fine di tutto o ci conduce nell'anima del mondo?") ma dalla tristezza dell'effimero.
Paul Veyne ha appena pubblicato Mon musée imaginaire. Un magnifico viaggio nella pittura italiana che si può leggere come un modo elegante di scongiurare l'annichilamento. La pittura, in fondo, come bagliore dell'eternità. Ma anche, dinanzi agli orrori commessi dall'uomo, come possibilità di riscatto: "Claude Roy mi ha detto a proposito di un requiem scritto dopo la Shoah: "Un po' riscatta. Ma agli occhi di chi?"". Un interrogativo che sovrasta la biblioteca dello studioso allo stesso modo del verso di Malebranche: "Il Signore racchiude tutto nelle Sue braccia invisibili, il Suo verbo è la dimora delle nostre intelligenze, come quaggiù lo spazio è quella dei nostri corpi". Un verso che ha ascoltato da adolescente e che non lo lascia più. Perché? "Perché è magnifico e sconvolgente".
(©L'Osservatore Romano 21 gennaio 2011)
Abitato dalla parresìa greca (il "parlare vero") - tema al quale il suo amico Michel Foucault ha dedicato il suo ultimo corso al Collège de France - Paul Veyne, a ottant'anni, non ha peli sulla lingua.
Si dedica con forza, loquacità, passione e umorismo a quelle che chiama idee preconcette del nostro tempo, in storia come sull'andamento del mondo. Così, nel 2004, lo storico assesta un bel colpo mostrando che la conversione dell'imperatore Costantino era sincera: "Questo atto importantissimo mediante il quale l'impero romano diviene cristiano non era un calcolo politico, com'è ancora di bon ton insegnare o scrivere. Costantino non aveva nessuna ragione obiettiva per sposare il cristianesimo. Lo fece per convinzione religiosa. Questa conversione è incomprensibile agli occhi di coloro per i quali la storia è il terreno dell'economia, della politica e della sociologia", afferma infervorato.
Se difende la sincerità della conversione di Costantino, Paul Veyne se la prende con molti altri temi del momento: la nozione di "radici cristiane dell'Europa", una costruzione del pensiero; la celebrazione beata del darwinismo, "la mia bestia nera!"; le buone anime che denunciano la società consumistica.
Per queste ultime non ha parole abbastanza dure: "Sono dei privilegiati che ignorano la storia - sotto l'Ancien Régime, la vita dei nostri avi era totalmente sottoposta all'imperativo del consumismo - che disdegnano la nostra epoca e le sue attività giudicate poco elevate. Mi ricordano il disprezzo delle persone ingenuamente fasciste che ho conosciuto nel 1936: si tappavano il naso davanti al Fronte Popolare e al suo "materialismo di massa", opposto all'idealismo di Norimberga, più nobile e disinteressato!".
Se quest'uomo non ha paura di niente, se ama venire alle mani con gli imperativi categorici del pensiero comune, resta il grande agrimensore dell'antichità. Nella sua casa di Bédoin (Valchiusa), all'ombra del monte Ventoux, Paul Veyne mette il punto finale alla sua traduzione dell'Eneide. "La condizione quasi divina prestata a Virgilio ci porta a non rimettere in discussione la traduzione che abbiamo. È tuttavia inferiore ai testi in inglese o in tedesco".
Il professore riceve nel suo ufficio. Pile di libri, foto, un grande monitor, una stanza abitata dallo spirito dello studio. Sorridente, loquace, cordiale, a volte esplosivo. Paul Veyne offre una Perrier o un whisky e non nasconde la sua sorpresa se gli si dice di preferire, alle 10 di mattina, un caffè. "Essere subito sullo stesso piano di chiunque altro è un principio che mi viene dai miei anni comunisti. Con i miei giovani compagni dell'Ecole Normale avevamo adottato tre regole non negoziabili: restare semplici nei nostri rapporti, non approfittare mai della nostra posizione per dominare gli altri e dare del lei alle donne che ci concedevano i loro favori!".
Fra i libri accatastati gli uni sugli altri, alcuni ritratti e una foto storica, quella del gruppo Manouchain che sta per essere fucilato: "Questi uomini non mi lasciano mai". Nel corso della conversazione emerge un Paul Veyne serio ed esigente.
Per capirlo, occorre ricordare tre esperienze inaugurali, che lui confessa umilmente. La prima, solare, è la sua scoperta all'età di otto anni di un frammento di anfora. Questo tesoro gli apre il cammino della storia, dell'esperienza esistenziale al centro dell'attività storica: "Quel frammento era un oggetto di qui, si trovava sotterrato dove io vivevo. Eppure era completamente diverso da ciò che ero abituato a vedere. Ho fatto l'esperienza della sua estraneità rispetto alla nostra epoca e a me stesso. Era assolutamente affascinante".
La seconda esperienza, buia, è il modo in cui attraversa la guerra. "La mia famiglia era dalla parte dei tedeschi. E con lei ho preferito Hitler a Stalin. A tredici anni ero un giovane fascista. Non ho festeggiato la Liberazione. I miei occhi si sono aperti nel 1945, leggendo Julien Benda (La Grande Épreuve des démocraties). Ho capito quanto mi ero sbagliato. E per farmi perdonare, per espiare questa colpa terribile, ho aderito al partito comunista. Cosa sarei diventato, quali sarebbero stati i miei valori, se i nazisti avessero vinto la guerra? È una domanda che non ha mai smesso di assillarmi".
Terza esperienza, decisiva, la sua miscredenza. "Ho ricevuto, come tutti i bambini dell'epoca, un'educazione religiosa: sono stato battezzato e ho fatto la prima comunione. Ma un giorno, durante la guerra, all'uscita da un corso di catechismo, sulla spianata di Nimes, mi sono improvvisamente chiesto: condivido veramente la stessa fede del parroco? Non sentivo nulla, la mia testa era vuota. Non affermo la non esistenza di Dio. Ma io non ci credo, sono completamente sprovvisto di questa facoltà. Ho vissuto ciò come una malattia. Per questo ho dedicato più di quarant'anni della mia vita a "braccare" la pratica e il sentimento religioso nell'antichità greco-romana, come un asessuato che cerca di capire cos'è il piacere sensuale".
Tutta l'opera di Paul Veyne è legata a queste tre esperienze. Il frammento della sua infanzia, l'accecamento ideologico (fascista e marxista), la ricerca di Dio da parte di un "malato". Illuminata da questi elementi biografici, l'opera di Paul Veyne si comprende in modo nuovo.
Al centro dei suoi lavori sull'antichità greco-romana c'è l'idea che questa civiltà ci è completamente estranea: fra un romano del i secolo e un francese del xxi non c'è nulla o quasi nulla in comune. "Per avvicinarsi a questo romano, bisogna innanzitutto sapersi disfare di se stessi, accettare di spogliarci di tutto ciò che ci forma, ci modella, ci permea". Significa quindi che la ricerca storica è votata al fallimento? "Se diffido del presupposto universalista per il quale l'uomo è lo stesso ovunque, al di là del tempo e dello spazio, sono profondamente aristotelico nel senso che credo in un intelletto agente. La nostra ragione è capace di conoscere ciò che è intelligibile, ciò che rivela realtà pensate come la luce permette di cogliere il visibile".
Non possiamo pertanto rinchiuderci totalmente nella tradizione pirroniana. Paul Veyne confessa di essere anche tomista: "Ho qui tutta la Summa theologiae. La leggo e la medito regolarmente". È una sorpresa. Di fatto, dopo aver pubblicato il suo saggio sferzante (Comment écrit-on l'histoire?) Paul Veyne è stato innalzato fra i maestri della decostruzione. Anche se oggi si prende la testa fra le mani quando gli viene ricordato come il suo saggio, alimentato dal pensiero tedesco, abbia inferto un duro colpo alle pretese obiettive della disciplina storica.
Paul Veyne arrossisce quando gli viene ricordato che con lui la storia ha lasciato le rive della scienza per affrontare l'orizzonte incerto di un sapere imperfetto. Un lavoro di demistificazione che ha proseguito con l'antichità: il rapporto dei greci con i loro miti, la vita sessuale dei romani, la questione del dono pubblico, la figura dell'imperatore, la fine dell'impero.
In questo momento in cui ormai sa che la morte non è più un'idea, è abitato non dalla paura di morire ("La morte è la fine di tutto o ci conduce nell'anima del mondo?") ma dalla tristezza dell'effimero.
Paul Veyne ha appena pubblicato Mon musée imaginaire. Un magnifico viaggio nella pittura italiana che si può leggere come un modo elegante di scongiurare l'annichilamento. La pittura, in fondo, come bagliore dell'eternità. Ma anche, dinanzi agli orrori commessi dall'uomo, come possibilità di riscatto: "Claude Roy mi ha detto a proposito di un requiem scritto dopo la Shoah: "Un po' riscatta. Ma agli occhi di chi?"". Un interrogativo che sovrasta la biblioteca dello studioso allo stesso modo del verso di Malebranche: "Il Signore racchiude tutto nelle Sue braccia invisibili, il Suo verbo è la dimora delle nostre intelligenze, come quaggiù lo spazio è quella dei nostri corpi". Un verso che ha ascoltato da adolescente e che non lo lascia più. Perché? "Perché è magnifico e sconvolgente".
(©L'Osservatore Romano 21 gennaio 2011)
«A» del gennaio 2011
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