brano tratto dal capitolo XI de Il ritratto di Dorian Gray (1891)
Nessuna teoria della vita gli pareva avere qualche importanza se paragonata alla vita stessa. Era acutamente consapevole di quanto sia sterile ogni speculazione intellettuale quando è separata dall'azione e dall'esperienza. Sapeva che i sensi non meno dell'anima hanno i loro misteri spirituali da rivelare.
Per questo volle studiare i profumi e i segreti della loro fabbricazione distillando olii odorosi e bruciando resine profumate provenienti dall'Oriente. Si rese conto che non vi era nessuno stato d'animo che non avesse una controparte nella vita dei sensi e tentò di scoprire i loro veri legami, domandandosi perché l'incenso spinge al misticismo, perché l'ambra grigia eccita le passioni, le violette evocano il ricordo di spente passioni, il muschio turba l'intelletto e la magnolia colora l'immaginazione. Numerosi furono i tentativi di elaborare un'autentica psicologia dei profumi e di valutare le molteplici influenze delle radici dall'aroma dolce e dei fiori ricchi di polline profumato, dei balsami aromatici, dei legni scuri e fragranti, dello spiganardo nauseante, dell'ovenia che fa impazzire, dell'aloe che, dicono, scaccia la malinconia dall'anima.
In un altro periodo si dedicò totalmente alla musica, e in una lunga stanza dalle finestre inferriate con il soffitto rosso e oro e pareti di lacca verde oliva, era solito tenere strani concerti, in cui zingari appassionati strappavano musiche selvagge da piccole cetre, o gravi tunisini dai gialli barracani pizzicavano le corde di enormi liuti, mentre negri sorridenti battevano con monotonia su tamburi di rame e, rannicchiati su tappeti scarlatti, sottili indiani in turbante soffiavano in lunghi pifferi di canna o di ottone e incantavano, o fingevano di incantare, grandi serpenti dal cappuccio e orribili vipere cornute. I tempi discordanti e le acute dissonanze della musica primitiva a volte lo commuovevano, quando ormai la grazia di Schubert, la bella malinconia di Chopin e le possenti armonie dello stesso Beethoven non ridestavano più il suo interesse. Raccolse da tutte le parti del mondo i più strani strumenti che era possibile trovare sia nelle tombe di popoli scomparsi, che tra le poche tribù selvagge sopravvissute al contatto con la civiltà occidentale, e amava toccarli e provarli. Possedeva il misterioso juruparis degli indios del Rio Negro, che le donne non devono mai vedere, e sul quale nemmeno i giovani possono posare lo sguardo se non dopo una prova di digiuno e di flagellazione, le giare di terracotta degli indiani che hanno un suono acuto come grida di uccelli; flauti di ossa umane come quelli che Alfonso de Ovalle udì in Cile, i sonori diaspri verdi che si trovano nella zona di Cuzco e che emettono note di singolare dolcezza. Aveva zucche dipinte, piene di sassolini che crepitavano quando erano scosse; il lungo clarino messicano nel quale l'aria non viene soffiata ma aspirata dal suonatore; l'aspro ture delle tribù amazzoniche suonato dalle sentinelle che siedono tutto il giorno su alti alberi e che si dice possa essere udito alla distanza di tre leghe; il teponazil che ha due linguette vibranti di legno e viene percosso con bastoncini ricoperti da una gomma elastica tratta dalla linfa lattiginosa delle piante; le campane yotl degli aztechi riunite in grappoli come l'uva; un enorme tamburo cilindrico coperto dalla pelle di grossi serpenti come quello che Bernal Diaz vide quando andò con Cortés nel tempio messicano e del cui suono pieno di tristezza ci lasciò una così vivida descrizione. Il carattere fantastico di questi strumenti lo affascinava e provava uno strano piacere al pensiero che l'arte, come la natura, ha i suoi mostri, esseri di forma bestiale e dalle orribili voci. Tuttavia dopo qualche tempo se ne stancò e, nel suo palco all'Opera, solo o in compagnia di Lord Henry, ascoltava con gioia rapita il Tannhäuser, ritrovando nel preludio di questa grande opera d'arte la rappresentazione della tragedia della sua anima.
In un certo periodo si dedicò allo studio dei gioielli e apparve a un ballo nel costume di Anne de Joyeuse, ammiraglia di Francia, con un vestito coperto di cinquecentosessanta perle. Questa passione lo dominò per anni interi, e in verità bisogna dire che non lo abbandonò mai. Spesso trascorreva l'intera giornata ordinando e riordinando nei loro astucci le varie pietre della sua collezione, come il crisoberillo verde oliva che diviene rosso sotto la luce artificiale, il cimofano striato da un filo d'argento, il crisolito color pistacchio, i topazi rosa o ambrati come il vino, i carbonchi dall'intenso colore scarlatto e dalle tremule stelle a quattro raggi, i cinnami rosso fiamma, le spinelle arancioni o violette e le ametiste con i loro strati alternati di zaffiro e rubino. Amava l'oro rosso dell'arenaria, la bianchezza perlacea della pietra lunare, lo spezzato arcobaleno dell'opale lattea. Fece arrivare da Amsterdam tre smeraldi di dimensioni straordinarie e di colore intensissimo e si procurò una turchese de la vieille roche che tutti gli intenditori gli invidiavano.
Per questo volle studiare i profumi e i segreti della loro fabbricazione distillando olii odorosi e bruciando resine profumate provenienti dall'Oriente. Si rese conto che non vi era nessuno stato d'animo che non avesse una controparte nella vita dei sensi e tentò di scoprire i loro veri legami, domandandosi perché l'incenso spinge al misticismo, perché l'ambra grigia eccita le passioni, le violette evocano il ricordo di spente passioni, il muschio turba l'intelletto e la magnolia colora l'immaginazione. Numerosi furono i tentativi di elaborare un'autentica psicologia dei profumi e di valutare le molteplici influenze delle radici dall'aroma dolce e dei fiori ricchi di polline profumato, dei balsami aromatici, dei legni scuri e fragranti, dello spiganardo nauseante, dell'ovenia che fa impazzire, dell'aloe che, dicono, scaccia la malinconia dall'anima.
In un altro periodo si dedicò totalmente alla musica, e in una lunga stanza dalle finestre inferriate con il soffitto rosso e oro e pareti di lacca verde oliva, era solito tenere strani concerti, in cui zingari appassionati strappavano musiche selvagge da piccole cetre, o gravi tunisini dai gialli barracani pizzicavano le corde di enormi liuti, mentre negri sorridenti battevano con monotonia su tamburi di rame e, rannicchiati su tappeti scarlatti, sottili indiani in turbante soffiavano in lunghi pifferi di canna o di ottone e incantavano, o fingevano di incantare, grandi serpenti dal cappuccio e orribili vipere cornute. I tempi discordanti e le acute dissonanze della musica primitiva a volte lo commuovevano, quando ormai la grazia di Schubert, la bella malinconia di Chopin e le possenti armonie dello stesso Beethoven non ridestavano più il suo interesse. Raccolse da tutte le parti del mondo i più strani strumenti che era possibile trovare sia nelle tombe di popoli scomparsi, che tra le poche tribù selvagge sopravvissute al contatto con la civiltà occidentale, e amava toccarli e provarli. Possedeva il misterioso juruparis degli indios del Rio Negro, che le donne non devono mai vedere, e sul quale nemmeno i giovani possono posare lo sguardo se non dopo una prova di digiuno e di flagellazione, le giare di terracotta degli indiani che hanno un suono acuto come grida di uccelli; flauti di ossa umane come quelli che Alfonso de Ovalle udì in Cile, i sonori diaspri verdi che si trovano nella zona di Cuzco e che emettono note di singolare dolcezza. Aveva zucche dipinte, piene di sassolini che crepitavano quando erano scosse; il lungo clarino messicano nel quale l'aria non viene soffiata ma aspirata dal suonatore; l'aspro ture delle tribù amazzoniche suonato dalle sentinelle che siedono tutto il giorno su alti alberi e che si dice possa essere udito alla distanza di tre leghe; il teponazil che ha due linguette vibranti di legno e viene percosso con bastoncini ricoperti da una gomma elastica tratta dalla linfa lattiginosa delle piante; le campane yotl degli aztechi riunite in grappoli come l'uva; un enorme tamburo cilindrico coperto dalla pelle di grossi serpenti come quello che Bernal Diaz vide quando andò con Cortés nel tempio messicano e del cui suono pieno di tristezza ci lasciò una così vivida descrizione. Il carattere fantastico di questi strumenti lo affascinava e provava uno strano piacere al pensiero che l'arte, come la natura, ha i suoi mostri, esseri di forma bestiale e dalle orribili voci. Tuttavia dopo qualche tempo se ne stancò e, nel suo palco all'Opera, solo o in compagnia di Lord Henry, ascoltava con gioia rapita il Tannhäuser, ritrovando nel preludio di questa grande opera d'arte la rappresentazione della tragedia della sua anima.
In un certo periodo si dedicò allo studio dei gioielli e apparve a un ballo nel costume di Anne de Joyeuse, ammiraglia di Francia, con un vestito coperto di cinquecentosessanta perle. Questa passione lo dominò per anni interi, e in verità bisogna dire che non lo abbandonò mai. Spesso trascorreva l'intera giornata ordinando e riordinando nei loro astucci le varie pietre della sua collezione, come il crisoberillo verde oliva che diviene rosso sotto la luce artificiale, il cimofano striato da un filo d'argento, il crisolito color pistacchio, i topazi rosa o ambrati come il vino, i carbonchi dall'intenso colore scarlatto e dalle tremule stelle a quattro raggi, i cinnami rosso fiamma, le spinelle arancioni o violette e le ametiste con i loro strati alternati di zaffiro e rubino. Amava l'oro rosso dell'arenaria, la bianchezza perlacea della pietra lunare, lo spezzato arcobaleno dell'opale lattea. Fece arrivare da Amsterdam tre smeraldi di dimensioni straordinarie e di colore intensissimo e si procurò una turchese de la vieille roche che tutti gli intenditori gli invidiavano.
Postato il 18 gennaio 2011
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