brano tratto dal capitolo II di Controcorrente (A rebour)
Prendeva i suoi pasti - che ad ogni inizio di stagione venivano fissati una volta per sempre in tutti i loro particolari - ad un tavolo al centro di una stanzetta, separata dallo studio da un corridoio imbottito, a chiusura ermetica, che non lasciava filtrare né rumori né odori in nessuno dei due ambienti cui serviva di passaggio.
Questa stanza da pranzo aveva l’aspetto d’una cabina di nave, col suo soffitto a volta munito di travi a semicerchio, con gli assiti e il pavimento d’abete d’America, la finestrella che si apriva nel rivestimento di legno come un oblò in un sabordo ( = portello della murata di una nave).
A somiglianza di quelle scatole giapponesi che rientrano le une nelle altre, questa stanza era compresa in una più grande: la stanza da pranzo propriamente detta, nel progetto dell’architetto. In questa, due finestre s’aprivano; una - ora invisibile - nascosta da un assito ribaltabile a volontà per dar aria all’una come all’altra stanza da pranzo; l’altra, visibile (trovandosi giusto in faccia all’oblò aperto nel legno), ma condannata; infatti il grande aquarium occupava tutto lo spazio compreso tra questo oblò e la vera finestra aperta nel vero muro. La luce traversava quindi, per arrivare alla cabina, la finestra - i cui vetri erano stati sostituiti da uno specchio senza stagnola - l’acqua e finalmente il vetro fisso del sabordo.
D’autunno, quando il bricco del tè fumava sulla tavola, nel momento che il sole stava per sparire, l’acqua dell’acquario, lungo tutta la mattina vitrea e torbida, s’arrossava e filtrava sulle bionde paratie riflessi di brace.
A volte, nel pomeriggio, se per caso era sveglio e in piedi, Des Esseintes faceva agire il congegno di condotti e tubi di scarico che vuotavano l’acquario e vi rinnovava l’acqua. Nell’acqua limpida faceva versare una, due gocce d’essenze colorate; si godeva così, senza scomodarsi, i toni verdi o salmastri, opalini od argentati che assumono i fiumi in natura a seconda del colore del cielo, del sole più o meno vivo, della minaccia di pioggia più o meno imminente; a seconda insomma della stagione e dello stato dell’aria.
S’immaginava allora d’essere su un brigantino, sottocoperta; e incuriosito osservava dei meravigliosi pesci meccanici, caricati come orologi, passare davanti al vetro del sabordo, impigliarsi in finte erbe; oppure, respirare l’odor di catrame immesso nella stanza prima che lui entrasse, esaminava delle stampe a colori appese al muro, quali se ne vedono nelle agenzie dei piroscafi e dei Lloyd, rappresentanti dei vapori in rotta per Valparaiso o per la Plata; e delle tabelle incorniciate, recanti l’itinerario della linea del Royal mail steam Packet, delle compagnie Lopez e Valéry, i noli e gli scali dei servizi postali dell’Atlantico.
Quand’era stanco di questo passatempo, riposava gli occhi sui cronometri e le bussole, i sestanti ed i compassi, i binocoli e le carte sparpagliate su un tavolo. Sopra il tavolo, un solo libro, rilegato in pelle di foca: le Avventure d’Arthur Gordon Pym, in esemplare stampato appositamente per lui, su carta vergata puro filo, scelta foglio per foglio, con un gabbiano in filigrana.
Né mancavano canne da pesca, reti scurite dalla concia, rotoli di vele rosse, una minuscola ancora di sughero, intonacata di nero: il tutto gettato alla rinfusa presso la porta che comunicava con la cucina per un corridoio, imbottito anche questo e che come l’altro smaltiva in sé odori e rumori.
Così, senza muoversi di dov’era, senza fare un passo, Des Esseintes compendiava in un minuto, in meno ancora, le sensazioni che gli avrebbe dato un lungo viaggio di mare. Il piacere di spostarsi, questo piacere che non esiste insomma che grazie al ricordo e quasi mai nel presente, nell’atto del viaggio, egli lo godeva in pieno, a suo agio, senza fatica, senza arrabattamenti, in quella cabina dal disordine voluto, dall’arredamento provvisorio, posticcio quasi, che s’accordava benissimo col poco tempo che vi restava, il tempo dei pasti; e che era invece in contrasto con lo studio: un ambiente, questo, definitivo, ordinato, stabile, fornito del necessario per vivervi a lungo in pantofole.
Muoversi gli pareva del resto inutile se la fantasia può, come stimava, facilmente supplire alla plebea realtà dei fatti.
A suo avviso, era possibile appagare i desideri ritenuti nella vita normale più difficili ad esaudire; e ciò grazie ad un piccolo sotterfugio: falsificando d’un niente l’oggetto del desiderio.
Nei ristoranti rinomati per le loro cantine il buongustaio, ad esempio, non si estasia centellinandosi vini di marca, ottenuti con vinelli qualunque trattati col procedimento di Pasteur? Ora, questo vino sofisticato ha lo stesso aroma, lo stesso colore, la stessa fragranza dell’autentico; e di conseguenza il piacere che si prova gustandolo, nulla ha da invidiare a quello che si proverebbe bevendo il vino ch’esso imita e che neanche a prezzo d’oro sarebbe possibile procurarsi.
Applichiamo questo capzioso scarto, questa sottile menzogna alle cose dell’intelletto. Nessun dubbio che si possa altrettanto facilmente godere chimeriche gioie, simili in tutto alle vere; nessun dubbio, ad esempio, che si possano compiere lunghissimi viaggi standosene nel cantuccio del fuoco: basterà, occorrendo, stimolare la fantasia pigra o restìa con la suggestiva lettura di lontani viaggi. Come non v’ha dubbio che si può, senza allontanarsi da Parigi, procurarsi la ristorante sensazione d’un bagno di mare: non c’è che recarsi al bagno Vigier, sito su un battello in piena Senna.
Ivi, salando l’acqua della propria vasca e mescendovi, come insegna il ricettario, solfato di soda, idroclorato di magnesia e calcio; aspirando l’odor di mare d’un pezzetto di gomena o d’un gomitolo di lenza come se ne possono trovare, impregnati ancora di salino (che s’avrà avuto cura di non lasciar svaporare) nei magazzeni e nei sottosuoli, odoranti di porto e di marea, delle ben fornite corderie; concentrandosi nella contemplazione d’una riuscita fotografia dello stabilimento balneare dove si vorrebbe essere, e commentandosela con l’avida lettura della guida Joanne, laddove descrive gli incanti di quella spiaggia; lasciandosi quindi cullare dalle onde che suscita, nell’acqua in cui si è immersi, il risucchio dei vaporetti che rasentano il pontone; tenendo infine l’orecchio ai lagni del vento che a due passi da voi, sul vostro capo, s’ingolfa sotto le arcate del Pont Royal ed al sordo traino degli omnibus che lo scuotono, l’illusione che s’ha del mare è innegabile, prepotente, da giurarvi su.
Tutto sta saper fare, saper concentrare l’attenzione su un unico punto; sapersi astrarre abbastanza da produrre l’allucinazione e da sostituire alla realtà reale la realtà fantasticata.
L’artifizio del resto Des Esseintes lo considerava il segno distintivo del genio. Per dirla con le sue parole, la natura ha fatto il suo tempo: essa ha per sempre stancato con la stucchevole monotonia dei suoi paesaggi e cieli la pazienza e l’aspettativa dei raffinati.
A ben pensarci, che trivialità d’operaia specializzata, la sua! d’operaia che non vede al di là di ciò che sa fare! che grettezza di piccola bottegaia, che tiene un solo articolo ad esclusione di tutti gli altri! Il suo, che monotono emporio di alberi e prati! che banale spaccio di mari e montagne!
Non c’è d’altronde una sola delle sue trovate - e prendi pure la più sottile o la più imponente - che il genio dell’uomo non possa emulare; nessuna foresta di Fontainebleau, nessun chiaro di luna che scenari inondati da fasci di luce elettrica non creino; nessuna cascata che l’idraulica non sappia imitare da farla scambiare per vera; nessuna roccia che la cartapesta non rifaccia; nessun fiore che un po’ di cartavelina a colori e la delicatezza di certi taffetà non imitino alla perfezione.
Non c’è dubbio: questa sempiterna barbogia ha ormai stancato la sempliciotta ammirazione dei veri artisti; e il tempo è venuto di soppiantarla, sin dove si potrà, con l’artifizio.
E poi, a ben considerare, quella fra le sue opere che è stimata la più squisita, quella delle sue creazioni che, per universale consenso, è la più perfetta e originale, la donna, non ha forse l’uomo, a sua volta, messo al mondo da sé solo una creatura viva e fittizia che come bellezza plastica, nulla ha da invidiare alla donna?
Esiste forse quaggiù un essere concepito nelle gioie della fornicazione ed uscito dalle doglie di una matrice, il cui modello sia più abbagliante, più perfetto delle due locomotive in servizio sulle ferrovie del Nord?
L’una, la Crampton, un’adorabile bionda dalla voce squillante, dalla taglia imponente e delicata imprigionata in uno scintillante busto di rame, dalle mosse elastiche e nervose di gatta; una bionda azzimata e dorata, d’una straordinaria grazia, d’una grazia che incute spavento allorché, irrigidendo i muscoli d’acciaio, grondando dai caldi fianchi sudore, mette in moto l’immenso rosone della snella ruota e, prepotente di vita, s’avventa in testa alle rapide e alle maree.
L’altra, la Engerth, una maestosa e fosca bruna, dal grido sordo e rauco, dalle reni possenti prese in una corazza di ghisa; mostruoso animale dalla criniera scarmigliata di negro fumo, che poggia su sei tozze coppie di ruote, quale tremenda forza sviluppa, allorché, facendo tremare la terra, rimorchia, greve e massiccia, il pesante codazzo delle sue mercanzie!
Indarno cerchereste tra le fragili beltà bionde e le maestose beltà brune, tipi di delicata sveltezza e di terrificante forza che reggano al confronto. Senza tema di smentita, lo si può proclamare: nel suo genere l’uomo non è riuscito men bene del Dio nel quale crede.
Questa stanza da pranzo aveva l’aspetto d’una cabina di nave, col suo soffitto a volta munito di travi a semicerchio, con gli assiti e il pavimento d’abete d’America, la finestrella che si apriva nel rivestimento di legno come un oblò in un sabordo ( = portello della murata di una nave).
A somiglianza di quelle scatole giapponesi che rientrano le une nelle altre, questa stanza era compresa in una più grande: la stanza da pranzo propriamente detta, nel progetto dell’architetto. In questa, due finestre s’aprivano; una - ora invisibile - nascosta da un assito ribaltabile a volontà per dar aria all’una come all’altra stanza da pranzo; l’altra, visibile (trovandosi giusto in faccia all’oblò aperto nel legno), ma condannata; infatti il grande aquarium occupava tutto lo spazio compreso tra questo oblò e la vera finestra aperta nel vero muro. La luce traversava quindi, per arrivare alla cabina, la finestra - i cui vetri erano stati sostituiti da uno specchio senza stagnola - l’acqua e finalmente il vetro fisso del sabordo.
D’autunno, quando il bricco del tè fumava sulla tavola, nel momento che il sole stava per sparire, l’acqua dell’acquario, lungo tutta la mattina vitrea e torbida, s’arrossava e filtrava sulle bionde paratie riflessi di brace.
A volte, nel pomeriggio, se per caso era sveglio e in piedi, Des Esseintes faceva agire il congegno di condotti e tubi di scarico che vuotavano l’acquario e vi rinnovava l’acqua. Nell’acqua limpida faceva versare una, due gocce d’essenze colorate; si godeva così, senza scomodarsi, i toni verdi o salmastri, opalini od argentati che assumono i fiumi in natura a seconda del colore del cielo, del sole più o meno vivo, della minaccia di pioggia più o meno imminente; a seconda insomma della stagione e dello stato dell’aria.
S’immaginava allora d’essere su un brigantino, sottocoperta; e incuriosito osservava dei meravigliosi pesci meccanici, caricati come orologi, passare davanti al vetro del sabordo, impigliarsi in finte erbe; oppure, respirare l’odor di catrame immesso nella stanza prima che lui entrasse, esaminava delle stampe a colori appese al muro, quali se ne vedono nelle agenzie dei piroscafi e dei Lloyd, rappresentanti dei vapori in rotta per Valparaiso o per la Plata; e delle tabelle incorniciate, recanti l’itinerario della linea del Royal mail steam Packet, delle compagnie Lopez e Valéry, i noli e gli scali dei servizi postali dell’Atlantico.
Quand’era stanco di questo passatempo, riposava gli occhi sui cronometri e le bussole, i sestanti ed i compassi, i binocoli e le carte sparpagliate su un tavolo. Sopra il tavolo, un solo libro, rilegato in pelle di foca: le Avventure d’Arthur Gordon Pym, in esemplare stampato appositamente per lui, su carta vergata puro filo, scelta foglio per foglio, con un gabbiano in filigrana.
Né mancavano canne da pesca, reti scurite dalla concia, rotoli di vele rosse, una minuscola ancora di sughero, intonacata di nero: il tutto gettato alla rinfusa presso la porta che comunicava con la cucina per un corridoio, imbottito anche questo e che come l’altro smaltiva in sé odori e rumori.
Così, senza muoversi di dov’era, senza fare un passo, Des Esseintes compendiava in un minuto, in meno ancora, le sensazioni che gli avrebbe dato un lungo viaggio di mare. Il piacere di spostarsi, questo piacere che non esiste insomma che grazie al ricordo e quasi mai nel presente, nell’atto del viaggio, egli lo godeva in pieno, a suo agio, senza fatica, senza arrabattamenti, in quella cabina dal disordine voluto, dall’arredamento provvisorio, posticcio quasi, che s’accordava benissimo col poco tempo che vi restava, il tempo dei pasti; e che era invece in contrasto con lo studio: un ambiente, questo, definitivo, ordinato, stabile, fornito del necessario per vivervi a lungo in pantofole.
Muoversi gli pareva del resto inutile se la fantasia può, come stimava, facilmente supplire alla plebea realtà dei fatti.
A suo avviso, era possibile appagare i desideri ritenuti nella vita normale più difficili ad esaudire; e ciò grazie ad un piccolo sotterfugio: falsificando d’un niente l’oggetto del desiderio.
Nei ristoranti rinomati per le loro cantine il buongustaio, ad esempio, non si estasia centellinandosi vini di marca, ottenuti con vinelli qualunque trattati col procedimento di Pasteur? Ora, questo vino sofisticato ha lo stesso aroma, lo stesso colore, la stessa fragranza dell’autentico; e di conseguenza il piacere che si prova gustandolo, nulla ha da invidiare a quello che si proverebbe bevendo il vino ch’esso imita e che neanche a prezzo d’oro sarebbe possibile procurarsi.
Applichiamo questo capzioso scarto, questa sottile menzogna alle cose dell’intelletto. Nessun dubbio che si possa altrettanto facilmente godere chimeriche gioie, simili in tutto alle vere; nessun dubbio, ad esempio, che si possano compiere lunghissimi viaggi standosene nel cantuccio del fuoco: basterà, occorrendo, stimolare la fantasia pigra o restìa con la suggestiva lettura di lontani viaggi. Come non v’ha dubbio che si può, senza allontanarsi da Parigi, procurarsi la ristorante sensazione d’un bagno di mare: non c’è che recarsi al bagno Vigier, sito su un battello in piena Senna.
Ivi, salando l’acqua della propria vasca e mescendovi, come insegna il ricettario, solfato di soda, idroclorato di magnesia e calcio; aspirando l’odor di mare d’un pezzetto di gomena o d’un gomitolo di lenza come se ne possono trovare, impregnati ancora di salino (che s’avrà avuto cura di non lasciar svaporare) nei magazzeni e nei sottosuoli, odoranti di porto e di marea, delle ben fornite corderie; concentrandosi nella contemplazione d’una riuscita fotografia dello stabilimento balneare dove si vorrebbe essere, e commentandosela con l’avida lettura della guida Joanne, laddove descrive gli incanti di quella spiaggia; lasciandosi quindi cullare dalle onde che suscita, nell’acqua in cui si è immersi, il risucchio dei vaporetti che rasentano il pontone; tenendo infine l’orecchio ai lagni del vento che a due passi da voi, sul vostro capo, s’ingolfa sotto le arcate del Pont Royal ed al sordo traino degli omnibus che lo scuotono, l’illusione che s’ha del mare è innegabile, prepotente, da giurarvi su.
Tutto sta saper fare, saper concentrare l’attenzione su un unico punto; sapersi astrarre abbastanza da produrre l’allucinazione e da sostituire alla realtà reale la realtà fantasticata.
L’artifizio del resto Des Esseintes lo considerava il segno distintivo del genio. Per dirla con le sue parole, la natura ha fatto il suo tempo: essa ha per sempre stancato con la stucchevole monotonia dei suoi paesaggi e cieli la pazienza e l’aspettativa dei raffinati.
A ben pensarci, che trivialità d’operaia specializzata, la sua! d’operaia che non vede al di là di ciò che sa fare! che grettezza di piccola bottegaia, che tiene un solo articolo ad esclusione di tutti gli altri! Il suo, che monotono emporio di alberi e prati! che banale spaccio di mari e montagne!
Non c’è d’altronde una sola delle sue trovate - e prendi pure la più sottile o la più imponente - che il genio dell’uomo non possa emulare; nessuna foresta di Fontainebleau, nessun chiaro di luna che scenari inondati da fasci di luce elettrica non creino; nessuna cascata che l’idraulica non sappia imitare da farla scambiare per vera; nessuna roccia che la cartapesta non rifaccia; nessun fiore che un po’ di cartavelina a colori e la delicatezza di certi taffetà non imitino alla perfezione.
Non c’è dubbio: questa sempiterna barbogia ha ormai stancato la sempliciotta ammirazione dei veri artisti; e il tempo è venuto di soppiantarla, sin dove si potrà, con l’artifizio.
E poi, a ben considerare, quella fra le sue opere che è stimata la più squisita, quella delle sue creazioni che, per universale consenso, è la più perfetta e originale, la donna, non ha forse l’uomo, a sua volta, messo al mondo da sé solo una creatura viva e fittizia che come bellezza plastica, nulla ha da invidiare alla donna?
Esiste forse quaggiù un essere concepito nelle gioie della fornicazione ed uscito dalle doglie di una matrice, il cui modello sia più abbagliante, più perfetto delle due locomotive in servizio sulle ferrovie del Nord?
L’una, la Crampton, un’adorabile bionda dalla voce squillante, dalla taglia imponente e delicata imprigionata in uno scintillante busto di rame, dalle mosse elastiche e nervose di gatta; una bionda azzimata e dorata, d’una straordinaria grazia, d’una grazia che incute spavento allorché, irrigidendo i muscoli d’acciaio, grondando dai caldi fianchi sudore, mette in moto l’immenso rosone della snella ruota e, prepotente di vita, s’avventa in testa alle rapide e alle maree.
L’altra, la Engerth, una maestosa e fosca bruna, dal grido sordo e rauco, dalle reni possenti prese in una corazza di ghisa; mostruoso animale dalla criniera scarmigliata di negro fumo, che poggia su sei tozze coppie di ruote, quale tremenda forza sviluppa, allorché, facendo tremare la terra, rimorchia, greve e massiccia, il pesante codazzo delle sue mercanzie!
Indarno cerchereste tra le fragili beltà bionde e le maestose beltà brune, tipi di delicata sveltezza e di terrificante forza che reggano al confronto. Senza tema di smentita, lo si può proclamare: nel suo genere l’uomo non è riuscito men bene del Dio nel quale crede.
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Analisi del testo (Baldi-Giusso, Dal testo alla storia, col. 3/1. I generi, pag. 175
Noia e sazietà - L'abolizione della realtà comune - Il rifiuto della natura
Il passo è esemplarmente indicativo del rapporto stabililto da Des Esseintes con la realtà. La noia e la sazietà che l'hanno indotto ad abbandonare Parigi, per cercare in un pressoché assoluto isolamento una diversa ragione di vita, lo spingono a realizzare un modello alternativo, in cui i piaceri più intensi e raffinati risultano il frutto di un processo di astrazione e di sostituzione intellettuale. La realtà comune, «la plebea realtà dei fatti», viene disprezzata e abolita, per dare luogo a una costruzione del tutto artificiale, in cui la «fantasia» riesce a concretizzare ogni suo desiderio. Alla «natura» si sostituisce la cultura, che si identifica con la volontà e l'intelligenza dell'uomo superiore. La natura non può competere con l'uomo, che, al pari di un nuovo Dio, è in grado di superarla nelle sue creazioni. Si veda il rapporto fra la donna e le «due locomotive», che sembra quasi anticipare spunti ripresi poi dai futuristi. Ma non c'è, in Huysmans, un interesse specifico per il "mito della macchina", così come lo sviluppo scientifico viene apprezzato non per i progressi che può permettere all'umanità (in un senso cioè positivistico), ma per l'affinamento delle più rare e squisite sensazioni individuali, sul piano dell'esistenza e dell'arte.
L'artificio - La «realtà fantasticata» - Un’esperienza dabolica
Di qui, anche, il rovesciamento delle tradizionali convenzioni estetiche: «questa sempiterna barbogia [la natura] ha ormai stancato la sempliciotta ammirazione dei veri artisti; e il tempo è venuto di soppiantarla, sin dove si potrà, con l'artificio». E questa la parola chiave di una concezione individuata e proposta nei suoi meccanismi costitutivi: «A suo avviso, era possibile appagare i desideri ritenuti nella vita normale più difficile ad esaudire; e ciò grazie ad un piccolo sotterfugio: falsificando d'un niente l'oggetto del desiderio». L'operazione consiste, per così dire, in un processo di dislocazione e di condensazione, che conduce l'esperienza a un estremo grado di sublimazione e rarefazione: «Ritto sta saper fare, saper concentrare l'attenzione su un unico punto; sapersi astrarre abbastanza da produrre l'allucinazione e da sostituire alla realtà reale la realtà fantasticata». La «realtà fantasticata» e sostituita diventa così la vera e più alta forma di realtà, passando attraverso una sorta di «allucinazione», che indica il carattere malato e innaturale di questa esperienza; un carattere addirittura perverso e diabolico, in quanto, con un gesto supremo di disprezzo e di orgoglio, l'uomo rifiuta l'opera della creazione divina, ritenendosi ad essa superiore («nel suo genere l'uomo non è riuscito men bene del Dio nel quale crede»).
La menzogna - Il rapporto arte-vita - Lo scambio finzione-realtà
Attraverso «questo capzioso scarto», «la sottile menzogna» diventa il veicolo privilegiato del rapporto con il reale, la componente essenziale dell'attività artistica e creativa: «L'artifizio del resto Des Esseintes lo considerava il segno distintivo del genio». Il rapporto fra la vita e l'arte risulta così profondamente alterato: la letteratura, intesa come artificio, può sostituire la vita (si veda il riferimento al Gordon Pym, che simboleggia l'immaginario del viaggio e dell'avventura); la vita, a sua volta, viene ricostruita secondo moduli intellettualistici e artificiali, squisitamente artistici e letterari. Lo scambio tra finzione e realtà risulta così inestricabile: «dopo i fiori finti emulanti quelli veri, voleva fiori veri che emulassero fiori finti», dirà il narratore a proposito di Des Esseintes, quando questo si propone di far crescere nel suo giardino una flora straordinaria, unica e irripetibile.
Il gusto – La forma del catalogo - Malattia e follia
La realtà risulta alla fine interamente plasmata e trasformata dall'arte, che asseconda i gusti sempre più ricercati e originali del protagonista: dall'amore per gli scrittori latini anche meno noti della decadenza a quello per le più recenti tendenze della pittura simbolista. La paralisi dell'azione, interamente assorbita nelle linee di un disegno intellettualistico, si risolve, sul piano della struttura narrativa, nella forma enumerativa e cumulativa del catalogo: interi capitoli sono dedicati alla minuta rassegna e discussione delle preferenze estetiche e culturali di Des Esseintes. La sua estrema ed estenuata raffinatezza impedisce ogni rapporto con la vita concreta, consumando ogni desiderio nell'immaginazione: verso la conclusione dell'opera, per alleviare il suo stato d'animo sempre più allucinato e depresso, il protagonista si prepara a compiere un viaggio in Inghilterra, ma, sul punto di imbarcarsi, decide di tornare a casa, convinto di avere già assaporato e "vissuto" tutte le esperienze che il viaggio avrebbe potuto procurargli (la tematica si collega direttamente al passo che abbiamo qui antologizzato). La malattia e la follia rappresentano così l'esito estremo della vicenda di Des Esseintes, come trionfo e sconfitta del genio decadente.
Postato il 18 gennaio 2011
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