Dei tanti romanzi e racconti scritti sulla Resistenza, pochi sono andati al di là del neorealismo apologetico allora imperante. Fra essi il più importante è Il partigiano Johnny. Dietro il titolo si cela però una vicenda editoriale e filologica fra le più complesse
di Gianluca Montinaro
Quando Renzo De Felice pose la questione sul ruolo della Resistenza, formulò un interrogativo sulla bontà dei valori che l’animarono e sulla correttezza, o meno, di considerarla il momento fondativo dell’Italia repubblicana. Se questo dubbio, in tempi recenti, si è fatto strada in ambito storiografico, attraverso il dibattito sulla «morte della patria», non altrettanto si può dire nella letteratura d’argomento, cristallizzata a quasi 50 anni fa. Dei tanti romanzi e racconti scritti sulla Resistenza, pochi sono andati al di là del neorealismo apologetico allora imperante. Fra essi il più importante (e uno dei pochi a essere ancora letti) è Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio (1922-63) il quale, lontano dai salotti e dai dibattiti culturali, traccia un affresco, critico e disilluso, della partigianeria. Fatti che ben conosceva, avendo militato, dopo l’8 settembre, in formazioni monarchiche.
Ignoto ai più è che dietro il titolo Partigiano Johnny si cela però una vicenda editoriale e filologica fra le più complesse, negli anni alimentata anche dal fastidio della critica marxista nei confronti di un «irregolare». A percorrere la storia di questo romanzo provvede ora un ampio saggio di Roberto Bigazzi, Fenoglio (Salerno, pagg. 252, euro 14), che accompagna il lettore in quello che lo scrittore inizialmente concepì come un ciclo: dal settembre ’43 alla Liberazione. Fenoglio fu invece costretto da Livio Garzanti e Pietro Citati a tagliare il racconto che, intitolato Primavera di bellezza, viene stampato nel ’59. In quelle pagine, depotenziate e di afflato cronachistico, il protagonista, un giovane sottufficiale dell’esercito italiano allo sbando (soprannominato Johnny a causa del suo amore per la cultura anglosassone), muore sul finire del ’43, in una delle sue prime azioni partigiane. Invano Fenoglio tenta di farlo «risorgere», cercando di pubblicare il resto del materiale. Solo dopo la sua morte appare, nel 1968, con titolo Il partigiano Johnny, un testo che mescolando con disinvoltura diverse stesure, pone la fine della narrazione agli inizi del ’45. L’uccisione del protagonista sancisce, in questa versione, un forte orizzonte di pessimismo e impotenza: come non sarà la resistenza comunista (dalla quale Johnny subito si era allontanato) a ricostruire l’Italia, così non sarà quella badogliana (vecchia e senza slanci).
Nel 1978 Maria Corti rintraccia il pezzo finale della storia di Johnny. Scritto in inglese (lingua che Fenoglio predilige) e battezzato UrPartigiano narra gli ultimi mesi di guerra. Ma racconta anche della disillusione del protagonista verso il futuro (verso ciò che sarebbe diventata l’Italia repubblicana), della lacerazione del Paese e della «falsa retorica del mito resistenziale come fenomeno di massa funzionale solo al Pci» (per dirla con De Felice). Tanto è bastato per condannare questo finale che, pubblicato una sola volta, non venne mai più incluso nelle edizioni successive (tutte riferibili alla versione filologicamente scorretta del 1968) e che ora torna si può (ri)leggere nel saggio di Bigazzi.
Ignoto ai più è che dietro il titolo Partigiano Johnny si cela però una vicenda editoriale e filologica fra le più complesse, negli anni alimentata anche dal fastidio della critica marxista nei confronti di un «irregolare». A percorrere la storia di questo romanzo provvede ora un ampio saggio di Roberto Bigazzi, Fenoglio (Salerno, pagg. 252, euro 14), che accompagna il lettore in quello che lo scrittore inizialmente concepì come un ciclo: dal settembre ’43 alla Liberazione. Fenoglio fu invece costretto da Livio Garzanti e Pietro Citati a tagliare il racconto che, intitolato Primavera di bellezza, viene stampato nel ’59. In quelle pagine, depotenziate e di afflato cronachistico, il protagonista, un giovane sottufficiale dell’esercito italiano allo sbando (soprannominato Johnny a causa del suo amore per la cultura anglosassone), muore sul finire del ’43, in una delle sue prime azioni partigiane. Invano Fenoglio tenta di farlo «risorgere», cercando di pubblicare il resto del materiale. Solo dopo la sua morte appare, nel 1968, con titolo Il partigiano Johnny, un testo che mescolando con disinvoltura diverse stesure, pone la fine della narrazione agli inizi del ’45. L’uccisione del protagonista sancisce, in questa versione, un forte orizzonte di pessimismo e impotenza: come non sarà la resistenza comunista (dalla quale Johnny subito si era allontanato) a ricostruire l’Italia, così non sarà quella badogliana (vecchia e senza slanci).
Nel 1978 Maria Corti rintraccia il pezzo finale della storia di Johnny. Scritto in inglese (lingua che Fenoglio predilige) e battezzato UrPartigiano narra gli ultimi mesi di guerra. Ma racconta anche della disillusione del protagonista verso il futuro (verso ciò che sarebbe diventata l’Italia repubblicana), della lacerazione del Paese e della «falsa retorica del mito resistenziale come fenomeno di massa funzionale solo al Pci» (per dirla con De Felice). Tanto è bastato per condannare questo finale che, pubblicato una sola volta, non venne mai più incluso nelle edizioni successive (tutte riferibili alla versione filologicamente scorretta del 1968) e che ora torna si può (ri)leggere nel saggio di Bigazzi.
«Il Giornale» del 26 gennaio 2011
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