La realtà e la finzione
di Giovanni Belardelli
I nutile girarci intorno. Che Mazzini possa essere definito un «terrorista», come ha fatto ieri Mario Martone a Venezia, è semplicemente una sciocchezza. Per di più, per giustificare una tale definizione Martone si è rifatto a due fonti abbastanza incongrue. Da un lato, ha chiamato in causa Marx ed Engels, che in realtà su Mazzini (loro avversario nell'Internazionale) rovesciarono tutti i possibili insulti, molti - anzi - coniandone appositamente. Dall'altro, ha sostenuto che, poiché le polizie di tutta Europa definivano Mazzini come terrorista, ebbene questa sarebbe la prova che lo era. Ora, a parte il fatto che non erano proprio tutte le polizie a definirlo così (non certo, ad esempio, quella del Paese in cui visse liberamente per decenni, l'Inghilterra), è risaputo che per la polizia austriaca o borbonica, «terrorista» era chiunque volesse rovesciare con la forza un regime illiberale.
Affiancare poi il nome di Mazzini agli attentatori dell'11 settembre, come sembra fare Martone, è affermazione che forse non merita commento. Terrorista è colui che uccide un certo numero di persone, generalmente sconosciute, al fine di incutere un sentimento di terrore nei rappresentanti del potere e di accreditare contemporaneamente la propria forza presso l'opinione pubblica. Mazzini fece invece una cosa diversa: benché puntasse soprattutto all'organizzazione di insurrezioni (peraltro, sempre risoltesi in altrettanti insuccessi), non disapprovava l'uccisione del sovrano laddove vigevano regimi dispotici, che non concedevano la possibilità di una libera attività politica. «Davanti alla sovranità collettiva, il cittadino tratta riverente la propria causa - scriveva -; davanti al tiranno sorge il tirannicida». Così, a partire dal 1833, quando appoggiò un tentativo di assassinare Carlo Alberto, il fondatore della Giovine Italia non escluse mai azioni di questo tipo, in linea con tutta una corrente di pensiero che da secoli sosteneva la legittimità del tirannicidio. Benché il suo diretto coinvolgimento non potesse mai essere dimostrato, è assai probabile, ad esempio, che cercasse di far uccidere sia Ferdinando II di Borbone sia Napoleone III. Mazzini venne spesso criticato da altri esponenti dell'élite risorgimentale perché si ostinava a «sacrificare li uomini coraggiosi a progetti intempestivi e assurdi» (come disse Carlo Cattaneo), cioè perché affidava la liberazione d'Italia e l'avvento della repubblica ad azioni armate che avevano l'unico risultato di mandare in carcere o al patibolo i poveri seguaci che gli avevano dato retta. Si trattava di azioni che provocavano per solito più vittime nelle file dei congiurati che in quelle dei loro nemici; ma che, in ogni caso, col terrorismo politico evocato da Martone non avevano nulla a che fare.
Affiancare poi il nome di Mazzini agli attentatori dell'11 settembre, come sembra fare Martone, è affermazione che forse non merita commento. Terrorista è colui che uccide un certo numero di persone, generalmente sconosciute, al fine di incutere un sentimento di terrore nei rappresentanti del potere e di accreditare contemporaneamente la propria forza presso l'opinione pubblica. Mazzini fece invece una cosa diversa: benché puntasse soprattutto all'organizzazione di insurrezioni (peraltro, sempre risoltesi in altrettanti insuccessi), non disapprovava l'uccisione del sovrano laddove vigevano regimi dispotici, che non concedevano la possibilità di una libera attività politica. «Davanti alla sovranità collettiva, il cittadino tratta riverente la propria causa - scriveva -; davanti al tiranno sorge il tirannicida». Così, a partire dal 1833, quando appoggiò un tentativo di assassinare Carlo Alberto, il fondatore della Giovine Italia non escluse mai azioni di questo tipo, in linea con tutta una corrente di pensiero che da secoli sosteneva la legittimità del tirannicidio. Benché il suo diretto coinvolgimento non potesse mai essere dimostrato, è assai probabile, ad esempio, che cercasse di far uccidere sia Ferdinando II di Borbone sia Napoleone III. Mazzini venne spesso criticato da altri esponenti dell'élite risorgimentale perché si ostinava a «sacrificare li uomini coraggiosi a progetti intempestivi e assurdi» (come disse Carlo Cattaneo), cioè perché affidava la liberazione d'Italia e l'avvento della repubblica ad azioni armate che avevano l'unico risultato di mandare in carcere o al patibolo i poveri seguaci che gli avevano dato retta. Si trattava di azioni che provocavano per solito più vittime nelle file dei congiurati che in quelle dei loro nemici; ma che, in ogni caso, col terrorismo politico evocato da Martone non avevano nulla a che fare.
«Corriere della Sera» dell'8 settembre 2010
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