La pratica del simposio nell’antica Grecia
di Eva Cantarella
Cominciamo dal titolo: per noi, il vino puro è quello genuino, non adulterato. Per i greci era il vino non mescolato con l’acqua. La regola di allora, infatti, voleva che il vino venisse diluito, prima di essere bevuto. Come accadeva, in particolare, nel corso dei symposia, le celebri bevute collettive (da syn-potein, bere insieme), alle quali a sera, come ben noto, si dedicavano i greci: quasi superfluo a dirsi, solamente gli uomini. Eccezion fatta per alcune giovani donne a questo scopo retribuite, come le musiciste, le danzatrici e soprattutto le «etere», prostitute di alto bordo e di una certa qual cultura, che accompagnavano gli uomini nelle occasioni sociali alle quale le donne «per bene» non erano ammesse.
È un argomento, quello dei simposi, che aiuta a comprendere molti aspetti della cultura greca, e al quale non a caso - soprattutto a seguito di un celebre convegno organizzato da Oswin Murray nel 1984 - sono state dedicate molte importanti ricerche. Ma questo libro di Maria Luisa Catoni, Bere vino puro - Immagini del simposio (Feltrinelli, pagine 528, € 39) è diverso da quelli che lo hanno preceduto. Come scrive l’autrice, in esso il simposio è trattato «come un mezzo, un microcontesto che ci permette di osservare, in dimensione ridotta, alcuni fenomeni sociali e culturali rilevanti che avvengono nel macrocontesto della città e del mondo greco» (p. XVII). Il simposio come ambiente antropologico, insomma: il luogo e il momento nel quale il consumo del vino si intrecciava con la contemplazione delle immagini dipinte sui vasi nei quali il vino veniva servito e bevuto, con l’ascolto dei poemi lirici, con la conversazione sul tema comunicato agli invitati al momento dell’invito. E anche uno dei momenti e dei luoghi del corteggiamento. Al simposio, infatti, accanto agli adulti, partecipavano anche i giovani uomini, che gli adulti corteggiavano nel tentativo di convincerli a diventare i loro «amati» (eròmenoi), termine che alludeva a un rapporto non solo amoroso, ma anche pedagogico, conferendo all’«amante» (erastès) il ruolo di mentore del giovane, che apprendeva dal più anziano le virtù del buon cittadino. Era una «bevuta», il simposio, data la sua funzione, nel corso del quale tutto si svolgeva secondo un rituale ben preciso e rigorosamente regolato, ivi compresa, per non dire in primo luogo, l’assunzione del vino, regolata da prescrizioni che riguardano il livello e il tipo di ubriachezza che, di volta in volta, si decideva di voler raggiungere: tutti allo stesso modo.
Il «bere insieme» implicava l’idea di un’uguaglianza che era uno dei valori che caratterizzava la pratica: si beveva tra uguali. Impossibile, purtroppo, analizzare come piacerebbero i diversi argomenti trattati nel libro. Limitiamoci a qualche spunto tratto dal primo capitolo: «Come si faceva un simposio». Per cominciare: la sala a ciò adibita (andron, sala degli uomini) aveva forma quasi quadrata; lungo le pareti erano addossati i letti (klinai: lunghezza cm centottanta, larghezza tra gli ottanta e i cento); su ciascun letto stavano distese, appoggiate sul braccio sinistro (un’abitudine importata dall’Oriente), una o due persone. La disposizione dei posti (a differenza che nel convivio romano) era ugualitaria, non vi erano posti privilegiati. Il che non toglie che, nella Atene democratica, la pratica potesse essere considerata ostile alla democrazia. Quando nel 408 a.C., con la riforma di Clistene, venne introdotta la magistratura della pritania, i nuovi magistrati, in numero di cinquanta, dovevano mangiare ogni giorno insieme, con un contributo (misthos) offerto dallo Stato, stando seduti, e non reclinati (posizione considerata un eccesso di sfarzo).
Sarebbero tante, ancora, le cose sulle quali varrebbe la pena soffermarsi: ad esempio, il confronto con i simposi nelle zone doriche (Sparta e Creta) e i diversi valori che questi esprimevano. O anche i modi solitari di bere, nelle osterie, e quelli solitari e smodati, attribuiti a esseri come i satiri: ma anche, non poco significativamente, alle donne. Sono tante le informazioni e infiniti gli spunti di riflessione offerti da questo libro. A chi lo leggerà non mancherà certo la possibilità di scegliere su quali orientarsi e di apprezzarli come meritano.
È un argomento, quello dei simposi, che aiuta a comprendere molti aspetti della cultura greca, e al quale non a caso - soprattutto a seguito di un celebre convegno organizzato da Oswin Murray nel 1984 - sono state dedicate molte importanti ricerche. Ma questo libro di Maria Luisa Catoni, Bere vino puro - Immagini del simposio (Feltrinelli, pagine 528, € 39) è diverso da quelli che lo hanno preceduto. Come scrive l’autrice, in esso il simposio è trattato «come un mezzo, un microcontesto che ci permette di osservare, in dimensione ridotta, alcuni fenomeni sociali e culturali rilevanti che avvengono nel macrocontesto della città e del mondo greco» (p. XVII). Il simposio come ambiente antropologico, insomma: il luogo e il momento nel quale il consumo del vino si intrecciava con la contemplazione delle immagini dipinte sui vasi nei quali il vino veniva servito e bevuto, con l’ascolto dei poemi lirici, con la conversazione sul tema comunicato agli invitati al momento dell’invito. E anche uno dei momenti e dei luoghi del corteggiamento. Al simposio, infatti, accanto agli adulti, partecipavano anche i giovani uomini, che gli adulti corteggiavano nel tentativo di convincerli a diventare i loro «amati» (eròmenoi), termine che alludeva a un rapporto non solo amoroso, ma anche pedagogico, conferendo all’«amante» (erastès) il ruolo di mentore del giovane, che apprendeva dal più anziano le virtù del buon cittadino. Era una «bevuta», il simposio, data la sua funzione, nel corso del quale tutto si svolgeva secondo un rituale ben preciso e rigorosamente regolato, ivi compresa, per non dire in primo luogo, l’assunzione del vino, regolata da prescrizioni che riguardano il livello e il tipo di ubriachezza che, di volta in volta, si decideva di voler raggiungere: tutti allo stesso modo.
Il «bere insieme» implicava l’idea di un’uguaglianza che era uno dei valori che caratterizzava la pratica: si beveva tra uguali. Impossibile, purtroppo, analizzare come piacerebbero i diversi argomenti trattati nel libro. Limitiamoci a qualche spunto tratto dal primo capitolo: «Come si faceva un simposio». Per cominciare: la sala a ciò adibita (andron, sala degli uomini) aveva forma quasi quadrata; lungo le pareti erano addossati i letti (klinai: lunghezza cm centottanta, larghezza tra gli ottanta e i cento); su ciascun letto stavano distese, appoggiate sul braccio sinistro (un’abitudine importata dall’Oriente), una o due persone. La disposizione dei posti (a differenza che nel convivio romano) era ugualitaria, non vi erano posti privilegiati. Il che non toglie che, nella Atene democratica, la pratica potesse essere considerata ostile alla democrazia. Quando nel 408 a.C., con la riforma di Clistene, venne introdotta la magistratura della pritania, i nuovi magistrati, in numero di cinquanta, dovevano mangiare ogni giorno insieme, con un contributo (misthos) offerto dallo Stato, stando seduti, e non reclinati (posizione considerata un eccesso di sfarzo).
Sarebbero tante, ancora, le cose sulle quali varrebbe la pena soffermarsi: ad esempio, il confronto con i simposi nelle zone doriche (Sparta e Creta) e i diversi valori che questi esprimevano. O anche i modi solitari di bere, nelle osterie, e quelli solitari e smodati, attribuiti a esseri come i satiri: ma anche, non poco significativamente, alle donne. Sono tante le informazioni e infiniti gli spunti di riflessione offerti da questo libro. A chi lo leggerà non mancherà certo la possibilità di scegliere su quali orientarsi e di apprezzarli come meritano.
«Corriere della Sera» del 21 gennaio 2011
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