di Martino Menghi
UN'INCERTA BIOGRAFIA
■ Sul personaggio di Tito Lucrezio Caro abbiamo notizie molto scarse. Sappiamo che visse nella prima metà del I secolo a.C. e che morì poco più che quarantenne. La data di nascita più verosimile è il 98 a.C. e quella di morte il 55 a.C. La composizione della sua opera, il poema scientifico De rerum natura, si può datare alla prima metà degli anni cinquanta; il generico accenno alla pericolosa situazione attraversata da Roma che troviamo al v. 41 del libro I forse allude al periodo del contrasto fra i triumviri e la nobiltà senatoria e alle agitazioni del tribuno Clodio.
Avvolti nell'oscurità restano la condizione sociale del poeta, come pure il suo ambiente di formazione e di attività. I frequenti appelli che il poeta rivolge all'aristocratico Gaio Memmio, suo primo destinatario, rivelano un tono di deferenza e quasi di soggezione e da ciò si è pensato di assegnare a Lucrezio lo status di cliens del suo potente protettore. L'ipotesi comunque resta tutta da dimostrare, com'è per l'altra ipotesi, opposta, di quanti hanno creduto di identificare in Lucrezio l'esponente di una casata aristocratica.
L'unico dato attendibile è quello dei rapporti, per quanto vaghi e imprecisati, di Lucrezio con alcuni personaggi del tempo, come Memmio appunto, Cicerone, che secondo san Gerolamo (IV-V secolo d. C.) avrebbe anzi curato l'edizione postuma del poema, o come lo storico Cornelio Nepote. Da ciò è lecito supporre da parte del poeta la frequentazione delle cerchie colte e altolocate di Roma.
Un'altra supposizione che ha avuto largo credito in passato è quella della presunta origine campana di Lucrezio a motivo della sua adesione all'epicureismo. In effetti molti circoli epicurei erano a quell'epoca fiorenti a Napoli e dintorni; si è anzi pensato di identificare con un manoscritto del De rerum natura alcuni frammenti carbonizzati ritrovati a Ercolano e provenienti dalla biblioteca di Filodemo di Gàdara, un intellettuale epicureo del tempo. Anche se la tesi fosse esatta, essa proverebbe solo l'interesse di un dotto epicureo a possedere una copia delle teorie di Epicuro esposte in versi latini, ma non dimostrerebbe necessariamente l'origine campana del poeta.
LE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DEGLI AUTORI CRISTIANI
■ La carenza di dati attendibili sulla vita di Lucrezio ha dato maggior credito alla notizia fornita da san Gerolamo in merito alla follia che avrebbe colto il poeta dopo aver assunto un filtro amoroso; alla follia andrebbe imputato poi il suo suicidio. Oggi si tende a considerare queste affermazioni come un'invenzione nata in ambiente cristiano, e in particolare in un periodo (il IV secolo d.C.) in cui la nuova religione aveva trovato la propria sistematizzazione filosofica, accentuando in questo modo il divario dal pensiero epicureo: solamente due secoli prima, un altro scrittore cristiano, Tertulliano, aveva manifestato non poche simpatie per l'ascetismo etico degli epicurei; definire invece Lucrezio un "folle", prossimo al suicidio, significava screditarne pesantemente la figura. In ogni caso la notizia geronimiana ha suggerito numerosi tentativi di rinvenire nel De rerum natura i segni del preteso squilibrio mentale dell'autore. Ma se è vero che nel De rerum natura compaiono di frequente immagini possenti e allucinate, se in esso troviamo un certo compiacimento verso gli stati patologici del corpo e dell'anima, oltre all'insistenza sugli effetti nefasti del timore degli dèi e della morte e alla convinzione della decrepitezza del mondo, questi possono benissimo essere il risultato di uno sguardo capace di squarciare il velo della banalità quotidiana, e non un segno di follia.
Un'altra testimonianza, per così dire, di natura negativa è quella di Cicerone, che, se in una lettera al fratello Quinto loda lo stile dei versi di Lucrezio («i versi di Lucrezio [...] hanno molte luci di ingenium ["talento creativo"] e [...] molta ars ["tecnica letteraria"]»), in tutte le sue opere in cui si scaglia contro l'epicureismo non nomina mai il poeta, mentre si sofferma in diverse occasioni a parlare dei divulgatori romani di Epicuro vissuti all'inizio del I secolo a.C. Probabilmente l'inserire Lucrezio nel dibattito culturale e filosofico contemporaneo avrebbe significato correre un grosso rischio. Le critiche che Cicerone muove alla sciatteria stilistica e argomentativa di Amafinio e di Cazio non avrebbero retto se applicate a Lucrezio; l'alto livello stilistico e il grande rigore di pensiero del De rerum natura si sarebbero necessariamente imposti all'attenzione dei lettori, con il rischio di familiarizzarsi con il suo messaggio filosofico più di quanto non avvenisse già. Meglio dunque per Cicerone tacere di Lucrezio e liquidare l'epicureismo limitandosi a screditare i suoi modesti predecessori romani.
L'IDEOLOGIA EPICUREA
Ma per quali ragioni, in particolare, l'epicureismo entrava pericolosamente in collisione con l'ideologia repubblicana, di cui il conservatore Cicerone fu sino alla morte il grande portavoce?
In primo luogo esso poneva come principio e fine della vita quello del piacere, inteso come assenza del dolore fisico e della sofferenza psicologica. Assumendo questo principio, l'epicureismo tesseva innanzitutto le lodi dell'otium, della vita ritirata, lontana dal frastuono della politica che implicava necessariamente angosce, preoccupazioni, sofferenza. Collegata a questo ideale vi era anche la condanna di passioni come l'ambizione, il desiderio di successo, di gloria, di ricchezza, cui l'epicureismo contrapponeva, come vera via verso la salvezza, la ricerca del soddisfacimento delle sole necessità naturali, da realizzarsi all'interno di una comunità fondata sui valori dell'amicizia e della solidarietà. E già questi valori, da soli, avrebbero minato i criteri stessi su cui si regolavano i rapporti all'interno di una società gerarchica come quella romana.
Un altro grande scoglio era rappresentato dalla visione ateistica propugnata dagli epicurei. Si trattava di una posizione sacrilega, se si pensa all'importanza assegnata dai romani del tempo alla religione.
Ecco alcuni dei motivi per cui la diffusione dell'epicureismo avrebbe rappresentato un grave rischio per l'ordine repubblicano tradizionale.
Vi erano poi altri elementi, di carattere più tecnico, ma forse dotati di una portata eversiva ancora maggiore. Uno di questi era l'idea che dopo la morte non vi fosse nulla (e meno che mai i premi e le punizioni assegnati dagli dèi agli uomini a seconda del loro comportamento in vita); un altro era la visione di un universo infinito, popolato da una pluralità di mondi, i cui unici elementi costitutivi sono il vuoto e gli atomi. Simili teorie rischiavano di annullare la sicurezza psicologica di quanti, seguendo l'insegnamento cosmologico di Aristotele e poi degli stoici, si vedevano abitanti del centro di un universo chiuso e finito. Esse mettevano in discussione, soprattutto, la figura stoica del lógos universale e provvidenziale che regge il mondo: in questa immagine la classe dirigente del tempo cominciava individuare una potente analogia con il proprio ruolo all'interno della repubblica e con l'imperialismo di Roma nel mondo. Vi era infine la concezione epicurea dell'amore, che doveva risolversi nello scambio di un piacere fisiologico tra i partner, anche in vista ma non solo, della procreazione nel contesto della comunità epicurea. Venivano invece banditi i legami esclusivi e passionali, fonte certa di sofferenza. Valore fondante della società epicurea era quello dell'amicizia, come si è detto, della solidarietà e del rispetto reciproco dei suoi individui, non certo le nozioni di possesso, di dipendenza, di sudditanza su cui si basava invece la familia Romana, prima cellula di un edificio sociale gerarchicamente strutturato.
LA RISPOSTA DI LUCREZIO
■ Lucrezio conosce queste tenaci resistenze dell'establishment repubblicano verso il pensiero epicureo, ma allo stesso tempo è consapevole dell'interesse che esso riscuoteva presso certi strati dell'aristocrazia. Decide dunque di cimentarsi in un'opera dottrinale del massimo livello, sia per il rigore del ragionamento, sia per la chiarezza dei contenuti, sia, infine, per la raffinatezza dello stile. Ecco perché, per il suo trattato, egli scelse un genere, la poesia, che dal maestro Epicuro (e prima di lui da Platone) era stato considerato generalmente inadatto come strumento di educazione filosofica e morale. Per Lucrezio era invece importante trasmettere un messaggio nuovo e sotto molti aspetti eversivo in una forma che risultasse familiare e al contempo piacevole al pubblico aristocratico cui si rivolgeva, dotato sì di una certa cultura, ma poco disposto ad apprezzare un'arida prosa tecnica come quella di Epicuro. In apertura del libro IV egli esprime i motivi di questa scelta: la poesia è paragonabile al miele che, cosparso su un calice, è in grado di ingannare il fanciullo riottoso e fargli bere l'amara medicina (ovvero la nuova dottrina) che gli procura guarigione e salute. Lucrezio è insomma consapevole delle possibilità psicagogiche della poesia, della sua capacità di persuadere emotivamente, attraverso immagini, il suo pubblico assai meglio delle forme magari più precise, ma meno attraenti del trattato in prosa.
Lo sforzo stesso, infine, di liberare il suo lettore dal desiderio smodato di ricchezza e di potere, dall'insaziabile smania di piaceri e di lusso, dal senso di vuoto indotto dall'abbondanza e dalla facilità dei costumi, rimanda all'esperienza dei membri dell'aristocrazia romana, in un'epoca di forte crisi di valori com'era proprio quella in cui visse Lucrezio.
Errata appare la congettura di quanti hanno voluto vedere in Lucrezio un predicatore per il popolo. Se è vero che il poeta sottopone a una critica corrosiva e radicale quasi tutti i valori nei quali l'aristocrazia si riconosceva da secoli, è anche vero che non vi è in tutto ciò una polemica politico-sociale. A Lucrezio interessa in primo luogo spogliare il proprio destinatario naturale (ossia l'aristocrazia, i ceti dirigenti) di ogni ambizione illusoria, di ogni falsa credenza.
I MODELLI POETICI
Il modello letterario principale a cui si rifà Lucrezio è Ennio (III-II secolo a.C.), il padre della poesia latina con il suo poema epico Annales, che non fu insensibile al messaggio epicureo. Ciò spiega fra l'altro il frequente ricorso di Lucrezio agli arcaismi, cioè al lessico latino del secolo precedente. In Ennio Lucrezio vedeva probabilmente il poeta nobilitato dall'antichità e dalla tradizione, ma anche l'innovatore audace, l'uomo consapevole della propria missione e orgoglioso di aprire strade nuove e difficili.
Per quest'ultimo aspetto Lucrezio doveva sentire una comunanza non solo con Ennio, ma anche con gli antichi poeti-filosofi, profeti e maestri di verità, come i filosofi greci Parmenide ed Empedocle, anch'essi autori di poemi sulla natura e sull'uomo.
La scelta di questi modelli spiega la volontà di Lucrezio di affidare a un poema l'esposizione della dottrina degli epicurei. Non va dimenticata, però, neppure la lezione della poesia didascalica alessandrina: da ricordare in particolare il poemetto in esametri I fenomeni di Arato di Soli (ca. 315-240 a.C.), di soggetto astronomico, che fu tradotto in latino da Cicerone e, parzialmente, da Varrone Atacino, uno dei poeti amici di Catullo.
■ Sul personaggio di Tito Lucrezio Caro abbiamo notizie molto scarse. Sappiamo che visse nella prima metà del I secolo a.C. e che morì poco più che quarantenne. La data di nascita più verosimile è il 98 a.C. e quella di morte il 55 a.C. La composizione della sua opera, il poema scientifico De rerum natura, si può datare alla prima metà degli anni cinquanta; il generico accenno alla pericolosa situazione attraversata da Roma che troviamo al v. 41 del libro I forse allude al periodo del contrasto fra i triumviri e la nobiltà senatoria e alle agitazioni del tribuno Clodio.
Avvolti nell'oscurità restano la condizione sociale del poeta, come pure il suo ambiente di formazione e di attività. I frequenti appelli che il poeta rivolge all'aristocratico Gaio Memmio, suo primo destinatario, rivelano un tono di deferenza e quasi di soggezione e da ciò si è pensato di assegnare a Lucrezio lo status di cliens del suo potente protettore. L'ipotesi comunque resta tutta da dimostrare, com'è per l'altra ipotesi, opposta, di quanti hanno creduto di identificare in Lucrezio l'esponente di una casata aristocratica.
L'unico dato attendibile è quello dei rapporti, per quanto vaghi e imprecisati, di Lucrezio con alcuni personaggi del tempo, come Memmio appunto, Cicerone, che secondo san Gerolamo (IV-V secolo d. C.) avrebbe anzi curato l'edizione postuma del poema, o come lo storico Cornelio Nepote. Da ciò è lecito supporre da parte del poeta la frequentazione delle cerchie colte e altolocate di Roma.
Un'altra supposizione che ha avuto largo credito in passato è quella della presunta origine campana di Lucrezio a motivo della sua adesione all'epicureismo. In effetti molti circoli epicurei erano a quell'epoca fiorenti a Napoli e dintorni; si è anzi pensato di identificare con un manoscritto del De rerum natura alcuni frammenti carbonizzati ritrovati a Ercolano e provenienti dalla biblioteca di Filodemo di Gàdara, un intellettuale epicureo del tempo. Anche se la tesi fosse esatta, essa proverebbe solo l'interesse di un dotto epicureo a possedere una copia delle teorie di Epicuro esposte in versi latini, ma non dimostrerebbe necessariamente l'origine campana del poeta.
LE TESTIMONIANZE DI CICERONE E DEGLI AUTORI CRISTIANI
■ La carenza di dati attendibili sulla vita di Lucrezio ha dato maggior credito alla notizia fornita da san Gerolamo in merito alla follia che avrebbe colto il poeta dopo aver assunto un filtro amoroso; alla follia andrebbe imputato poi il suo suicidio. Oggi si tende a considerare queste affermazioni come un'invenzione nata in ambiente cristiano, e in particolare in un periodo (il IV secolo d.C.) in cui la nuova religione aveva trovato la propria sistematizzazione filosofica, accentuando in questo modo il divario dal pensiero epicureo: solamente due secoli prima, un altro scrittore cristiano, Tertulliano, aveva manifestato non poche simpatie per l'ascetismo etico degli epicurei; definire invece Lucrezio un "folle", prossimo al suicidio, significava screditarne pesantemente la figura. In ogni caso la notizia geronimiana ha suggerito numerosi tentativi di rinvenire nel De rerum natura i segni del preteso squilibrio mentale dell'autore. Ma se è vero che nel De rerum natura compaiono di frequente immagini possenti e allucinate, se in esso troviamo un certo compiacimento verso gli stati patologici del corpo e dell'anima, oltre all'insistenza sugli effetti nefasti del timore degli dèi e della morte e alla convinzione della decrepitezza del mondo, questi possono benissimo essere il risultato di uno sguardo capace di squarciare il velo della banalità quotidiana, e non un segno di follia.
Un'altra testimonianza, per così dire, di natura negativa è quella di Cicerone, che, se in una lettera al fratello Quinto loda lo stile dei versi di Lucrezio («i versi di Lucrezio [...] hanno molte luci di ingenium ["talento creativo"] e [...] molta ars ["tecnica letteraria"]»), in tutte le sue opere in cui si scaglia contro l'epicureismo non nomina mai il poeta, mentre si sofferma in diverse occasioni a parlare dei divulgatori romani di Epicuro vissuti all'inizio del I secolo a.C. Probabilmente l'inserire Lucrezio nel dibattito culturale e filosofico contemporaneo avrebbe significato correre un grosso rischio. Le critiche che Cicerone muove alla sciatteria stilistica e argomentativa di Amafinio e di Cazio non avrebbero retto se applicate a Lucrezio; l'alto livello stilistico e il grande rigore di pensiero del De rerum natura si sarebbero necessariamente imposti all'attenzione dei lettori, con il rischio di familiarizzarsi con il suo messaggio filosofico più di quanto non avvenisse già. Meglio dunque per Cicerone tacere di Lucrezio e liquidare l'epicureismo limitandosi a screditare i suoi modesti predecessori romani.
L'IDEOLOGIA EPICUREA
Ma per quali ragioni, in particolare, l'epicureismo entrava pericolosamente in collisione con l'ideologia repubblicana, di cui il conservatore Cicerone fu sino alla morte il grande portavoce?
In primo luogo esso poneva come principio e fine della vita quello del piacere, inteso come assenza del dolore fisico e della sofferenza psicologica. Assumendo questo principio, l'epicureismo tesseva innanzitutto le lodi dell'otium, della vita ritirata, lontana dal frastuono della politica che implicava necessariamente angosce, preoccupazioni, sofferenza. Collegata a questo ideale vi era anche la condanna di passioni come l'ambizione, il desiderio di successo, di gloria, di ricchezza, cui l'epicureismo contrapponeva, come vera via verso la salvezza, la ricerca del soddisfacimento delle sole necessità naturali, da realizzarsi all'interno di una comunità fondata sui valori dell'amicizia e della solidarietà. E già questi valori, da soli, avrebbero minato i criteri stessi su cui si regolavano i rapporti all'interno di una società gerarchica come quella romana.
Un altro grande scoglio era rappresentato dalla visione ateistica propugnata dagli epicurei. Si trattava di una posizione sacrilega, se si pensa all'importanza assegnata dai romani del tempo alla religione.
Ecco alcuni dei motivi per cui la diffusione dell'epicureismo avrebbe rappresentato un grave rischio per l'ordine repubblicano tradizionale.
Vi erano poi altri elementi, di carattere più tecnico, ma forse dotati di una portata eversiva ancora maggiore. Uno di questi era l'idea che dopo la morte non vi fosse nulla (e meno che mai i premi e le punizioni assegnati dagli dèi agli uomini a seconda del loro comportamento in vita); un altro era la visione di un universo infinito, popolato da una pluralità di mondi, i cui unici elementi costitutivi sono il vuoto e gli atomi. Simili teorie rischiavano di annullare la sicurezza psicologica di quanti, seguendo l'insegnamento cosmologico di Aristotele e poi degli stoici, si vedevano abitanti del centro di un universo chiuso e finito. Esse mettevano in discussione, soprattutto, la figura stoica del lógos universale e provvidenziale che regge il mondo: in questa immagine la classe dirigente del tempo cominciava individuare una potente analogia con il proprio ruolo all'interno della repubblica e con l'imperialismo di Roma nel mondo. Vi era infine la concezione epicurea dell'amore, che doveva risolversi nello scambio di un piacere fisiologico tra i partner, anche in vista ma non solo, della procreazione nel contesto della comunità epicurea. Venivano invece banditi i legami esclusivi e passionali, fonte certa di sofferenza. Valore fondante della società epicurea era quello dell'amicizia, come si è detto, della solidarietà e del rispetto reciproco dei suoi individui, non certo le nozioni di possesso, di dipendenza, di sudditanza su cui si basava invece la familia Romana, prima cellula di un edificio sociale gerarchicamente strutturato.
LA RISPOSTA DI LUCREZIO
■ Lucrezio conosce queste tenaci resistenze dell'establishment repubblicano verso il pensiero epicureo, ma allo stesso tempo è consapevole dell'interesse che esso riscuoteva presso certi strati dell'aristocrazia. Decide dunque di cimentarsi in un'opera dottrinale del massimo livello, sia per il rigore del ragionamento, sia per la chiarezza dei contenuti, sia, infine, per la raffinatezza dello stile. Ecco perché, per il suo trattato, egli scelse un genere, la poesia, che dal maestro Epicuro (e prima di lui da Platone) era stato considerato generalmente inadatto come strumento di educazione filosofica e morale. Per Lucrezio era invece importante trasmettere un messaggio nuovo e sotto molti aspetti eversivo in una forma che risultasse familiare e al contempo piacevole al pubblico aristocratico cui si rivolgeva, dotato sì di una certa cultura, ma poco disposto ad apprezzare un'arida prosa tecnica come quella di Epicuro. In apertura del libro IV egli esprime i motivi di questa scelta: la poesia è paragonabile al miele che, cosparso su un calice, è in grado di ingannare il fanciullo riottoso e fargli bere l'amara medicina (ovvero la nuova dottrina) che gli procura guarigione e salute. Lucrezio è insomma consapevole delle possibilità psicagogiche della poesia, della sua capacità di persuadere emotivamente, attraverso immagini, il suo pubblico assai meglio delle forme magari più precise, ma meno attraenti del trattato in prosa.
Lo sforzo stesso, infine, di liberare il suo lettore dal desiderio smodato di ricchezza e di potere, dall'insaziabile smania di piaceri e di lusso, dal senso di vuoto indotto dall'abbondanza e dalla facilità dei costumi, rimanda all'esperienza dei membri dell'aristocrazia romana, in un'epoca di forte crisi di valori com'era proprio quella in cui visse Lucrezio.
Errata appare la congettura di quanti hanno voluto vedere in Lucrezio un predicatore per il popolo. Se è vero che il poeta sottopone a una critica corrosiva e radicale quasi tutti i valori nei quali l'aristocrazia si riconosceva da secoli, è anche vero che non vi è in tutto ciò una polemica politico-sociale. A Lucrezio interessa in primo luogo spogliare il proprio destinatario naturale (ossia l'aristocrazia, i ceti dirigenti) di ogni ambizione illusoria, di ogni falsa credenza.
I MODELLI POETICI
Il modello letterario principale a cui si rifà Lucrezio è Ennio (III-II secolo a.C.), il padre della poesia latina con il suo poema epico Annales, che non fu insensibile al messaggio epicureo. Ciò spiega fra l'altro il frequente ricorso di Lucrezio agli arcaismi, cioè al lessico latino del secolo precedente. In Ennio Lucrezio vedeva probabilmente il poeta nobilitato dall'antichità e dalla tradizione, ma anche l'innovatore audace, l'uomo consapevole della propria missione e orgoglioso di aprire strade nuove e difficili.
Per quest'ultimo aspetto Lucrezio doveva sentire una comunanza non solo con Ennio, ma anche con gli antichi poeti-filosofi, profeti e maestri di verità, come i filosofi greci Parmenide ed Empedocle, anch'essi autori di poemi sulla natura e sull'uomo.
La scelta di questi modelli spiega la volontà di Lucrezio di affidare a un poema l'esposizione della dottrina degli epicurei. Non va dimenticata, però, neppure la lezione della poesia didascalica alessandrina: da ricordare in particolare il poemetto in esametri I fenomeni di Arato di Soli (ca. 315-240 a.C.), di soggetto astronomico, che fu tradotto in latino da Cicerone e, parzialmente, da Varrone Atacino, uno dei poeti amici di Catullo.
(brano tratto da M. Menghi, Novae voces, Lucrezio, Edizioni scolastiche Bruno Mondadori, 2007 (pp. 6-8)
Postato il 15 gennaio 2011
Nessun commento:
Posta un commento