di Curzio Maltese
L'unico capolavoro uscito dall'ultima Mostra di Venezia, all'insaputa di Tarantino e dei giurati, è questo Noi credevamo di Mario Martone, scritto con Giancarlo De Cataldo. Bisogna tornare al Gattopardo di Luchino Visconti o almeno ad Allonsanfàn dei fratelli Taviani per ritrovare nel cinema italiano un affresco tanto potente del Risorgimento. Noi credevamo arriva nelle sale alla vigilia delle celebrazioni dei 150 anni dell' Unità, ma soltanto per caso. Il film doveva uscire prima, Martone e De Cataldo hanno cominciato sette anni fa questo progetto carbonaro, più osteggiato che incoraggiato dalla tv di Stato. Il tempo ha comunque lavorato per la maturità dell'opera. È la storia della nascita della nazione, dell'unità o meglio della disunità d'Italia, come ha scritto Adriano Sofri. All'origine, all'essenza, al trauma del parto che condizionerà tutta la vita del Paese. È una storia di grande respiro, un film dove si sente lo scorrere del tempo e il declino dei sentimenti, lo spegnersi delle passioni, con la naturalezza con cui si avverte il cambio delle stagioni, attraverso il percorso di tre amici del Cilento, patrioti dimenticati, partiti ragazzi nel 1828 e arrivati vecchi e delusi nel 1862, quando l'esercito regio ferma con le fucilate la nuova spedizione di Garibaldi per liberare Roma dal Papa. Ma Noi credevamo è soprattutto un film sull'oggi, sulle conseguenze dell'odio fra italiani che ha impedito di fare del Risorgimento una vera rivoluzione.
«Se il film fosse una ruota, il perno sarebbe la Repubblica Romana» dice Mario Martone. Ed è proprio così, ma non si tratta soltanto del cuore di questo film, piuttosto dell' intera storia patria. La repubblica di Mazzini e Garibaldi del 1849, quella che caccia il Papa da Roma, vara una costituzione modernissima col voto alle donne un secolo primae viene infine soffocata nel sangue dall' intervento di Napoleone III, è il simbolo e il paradigma di tutte le successive rivoluzioni mancate della storia d'Italia. È come se quell'esperienza avesse deviato per sempre il corso della nazione, costringendola a una natura ambigua, incompleta. L'idea repubblicana muore là e l'Italia rimane una repubblica monca, una nazione più di sudditi che di cittadini, in cerca comunque di un sovrano: i Savoia, Giolitti, Mussolini, ora Berlusconi. Il ritorno del Papa a Roma instaurerà un perenne stato di doppia cittadinanza degli italiani e impedirà alla capitale di essere davvero percepita come tale. L'intervento delle truppe francesi inaugura centocinquant'anni di «vincolo esterno», nei quali le scelte di un'Italia gregaria sono ogni volta sottomesse a una superiore entità: i grandi imperi, la Germania nazista, l'America e ora l'Unione Europa.
Nel film di Martone gli eroi del Risorgimento compaiono in un soffio, appena dipinti. Non ci sono Garibaldi, Cavour e Carlo Pisacane, il cui fantasma aleggia in tutto il film. In compenso Martone restituisce il ruolo che merita a una figura come Cristina di Belgioso, nobile milanese rivoluzionaria, interpretata nel corso del tempo da due attrici meravigliose: Francesca Inaudi e Anna Bonaiuto. Memorabili sono i cammei di due caratteri in eterno contrasto, l'arcitaliano e proto fascista Francesco Crispi (Luca Zingaretti) e il prototipi di tutti i migliori «anti italiani», Carlo Poerio (Renato Carpentieri). Un'altra figura di stretta attualità è il venduto Gallenga (Luca Barbareschi), mazziniano e rivoluzionario da giovane, passato armi e bagagli alla reazione più cinica. E poi c'è lui, Giuseppe Mazzini, che del Risorgimento è stato il genio e quindi si meritava un genio d'attore come Toni Servillo. Del resto, la qualità di tutti gli altri attori, fra i quali è impossibile non citare almeno Fiona Shaw, Luigi Lo Cascio, Valerio Binasco e Andrea Renzi, rende Noi credevamo anche un'antologia di recitazione cinematografica. Il centro della storia rimane l'impossibilità di essere italiani. La dannazione alla guerra civile perenne fra fratelli d'Italia che scaturisce da quella nascita violenta e incompleta, dalla brutalità con cui il Nord annette il Sud senza sforzarsi di comprenderlo. Il disperato finale di Giuseppe Mazzini, morto in clandestinità, vagheggiando un'ultima rivoluzione contro i Savoia e le bombe in Parlamento, è un'immagine che squarcia 150 anni di storia e arriva diretta al cuore del presente. Un pugno allo stomaco, come l'inquadratura di abusi in cemento armato che compaiono sullo sfondo di un paesaggio risorgimentale, per ricordarci che di noi narra la favola.
«La Repubblica» del 9 novembre 2010
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