Pericolosamente bizzarre le proposte di prendersi e pubblicizzare una parte rilevante della ricchezza privata. Rigurgito di cultura pianificatoria. Risultato: capitali nascosti, investimenti congelati
di Francesco Forte
Con tutto il rispetto, due pazzi pericolosi. Giuliano Amato e Pellegrino Capaldo sono persone autorevoli, ma solo una mattana o fissazione neostatalista può suggerire proposte come le loro, patrimoniali in tutte le salse. Il vecchio leader socialista Amato propone con la serietà dei matti un’imposta di 30 mila euro per ogni italiano facente parte del 30 per cento più abbiente, da pagarsi in due anni per ridurre il debito pubblico del 30 per cento, dal 118 per cento del pil all’80 per cento circa. Pellegrino Capaldo, storico banchiere ed esperto di finanza pubblica della sinistra dc, rilancia e propone una imposta sugli immobili, fra il 5 e il 20 per cento del loro valore, per dimezzare il debito pubblico, portandolo dal 118 al 59 per cento del pil, un punto sotto la soglia ammessa in Europa. Anche lui come Giuliano Amato, apprendista stregone fiscale, fa il suo bravo calcolo sul polsino. Il debito pubblico è pari, grosso modo, al 25 per cento del valore del patrimonio immobiliare italiano. Dunque metà del debito pubblico è il 12,5 per cento del valore degli immobili italiani. Bisogna che lo stato in un modo o nell’altro incameri quel valore, il cui equivalente va “accollato” come debito ai proprietari di immobili.
Capaldo non propone una patrimoniale proporzionale al valore degli immobili, ma un tributo sul loro aumento di valore (suppongo al netto del tasso di inflazione) dal momento del loro acquisto per eredità o compravendita o della loro costruzione. Il calcolo di questo aumento di valore e la sua distribuzione tra i proprietari spetterebbe alla politica “intesa nel senso nobile della parola”. Di qui l’aliquota oscillante fra il 5 e il 20 per cento della plusvalenza, che, dice Capaldo, basterebbe ad assicurare il gettito in questione, circa 900 miliardi di euro. Capaldo, a differenza di Amato, si rende conto del problema del reperimento della liquidità, da parte dei contribuenti, per un importo mostruoso rispetto al pil, e quindi propone che il pagamento possa avvenire con rate o con una imposta da pagare alla cessione del bene, per vendita o per successione. Nel frattempo gli immobili verrebbero ipotecati a favore del fisco, sicché una gigantesca ipoteca si stenderebbe sul patrimonio immobiliare italiano, una ipoteca che tenderebbe a crescere nel tempo con il gioco degli interessi composti e del tasso di inflazione. Ogni anno il Leviatano fiscale comunicherebbe ai cittadini e alle imprese che non hanno ancora pagato l’imposta di quanto è aumentata l’ipoteca sui loro immobili. Secondo il professor Capaldo la misura libererebbe risorse per 40 miliardi di euro, pari a metà degli interessi sul debito pubblico, che dovrebbero essere investiti “secondo un disegno razionale e condiviso”. Accanto a questa gigantesca patrimoniale avremmo una gigantesca programmazione concertata, cioè condivisa, che, mi permetto di dire, difficilmente sarebbe razionale.
Tornando al tributo immaginario, anche qui troviamo il mito del pianificatore buono, costituito dalla “classe politica nel senso nobile della parola”. Non vedo come l’aliquota possa scendere sotto il 20 per cento del valore attuale, per dare 900 miliardi di euro, dato che bisognerebbe togliere dall’imponibile gli aumenti di valore dovuti a migliorie, aumentate del tasso di interesse di mercato. E come si fa ad accertare non solo il valore delle migliorie ma degli immobili stessi, quando si annuncia un tributo che deprime il mercato, in conseguenza dell’ondata di vendite di una parte del patrimonio tassato e dell’immenso drenaggio di liquidità dovuto all’imposta? Che fare degli immobili già gravati da ipoteche, da mutui immobiliari e garanzie bancarie? Che accadrebbe agli immobili delle banche, che fanno parte dei loro parametri patrimoniali? Che ne facciamo degli immobili ecclesiastici e di associazioni non profit?
Un po’ sto celiando, stanco di ripetere che la strada è un’altra. Ma è da dire che a furia di proporre diverse formulazioni di imposta patrimoniale, glissando sulle riforme e liberalizzazioni necessarie, e sulla vendita del patrimonio pubblico, il risultato è il seguente: o non se ne farà nulla oppure si abbatterà una tantum il debito pubblico per poi tornare a produrne di bel nuovo e in grande quantità. Il vero problema è che con queste proposte, presentate in quotidiani autorevoli come il Corriere della Sera, i risparmiatori e le imprese si spaventano, nascondono i capitali, li portano all’estero, smettono di investire. Poi ci si lamenta che la ripresa è troppo lenta. Prima vendete il patrimonio pubblico e ricoverate questi matti, poi il mercato ripartirà, perché come diceva Enrico Dell’Acqua (1851-1910), pioniere della crescita e delle esportazioni amato da Luigi Einaudi, “è la somma delle piccole energie che fa le grandi cose”.
Capaldo non propone una patrimoniale proporzionale al valore degli immobili, ma un tributo sul loro aumento di valore (suppongo al netto del tasso di inflazione) dal momento del loro acquisto per eredità o compravendita o della loro costruzione. Il calcolo di questo aumento di valore e la sua distribuzione tra i proprietari spetterebbe alla politica “intesa nel senso nobile della parola”. Di qui l’aliquota oscillante fra il 5 e il 20 per cento della plusvalenza, che, dice Capaldo, basterebbe ad assicurare il gettito in questione, circa 900 miliardi di euro. Capaldo, a differenza di Amato, si rende conto del problema del reperimento della liquidità, da parte dei contribuenti, per un importo mostruoso rispetto al pil, e quindi propone che il pagamento possa avvenire con rate o con una imposta da pagare alla cessione del bene, per vendita o per successione. Nel frattempo gli immobili verrebbero ipotecati a favore del fisco, sicché una gigantesca ipoteca si stenderebbe sul patrimonio immobiliare italiano, una ipoteca che tenderebbe a crescere nel tempo con il gioco degli interessi composti e del tasso di inflazione. Ogni anno il Leviatano fiscale comunicherebbe ai cittadini e alle imprese che non hanno ancora pagato l’imposta di quanto è aumentata l’ipoteca sui loro immobili. Secondo il professor Capaldo la misura libererebbe risorse per 40 miliardi di euro, pari a metà degli interessi sul debito pubblico, che dovrebbero essere investiti “secondo un disegno razionale e condiviso”. Accanto a questa gigantesca patrimoniale avremmo una gigantesca programmazione concertata, cioè condivisa, che, mi permetto di dire, difficilmente sarebbe razionale.
Tornando al tributo immaginario, anche qui troviamo il mito del pianificatore buono, costituito dalla “classe politica nel senso nobile della parola”. Non vedo come l’aliquota possa scendere sotto il 20 per cento del valore attuale, per dare 900 miliardi di euro, dato che bisognerebbe togliere dall’imponibile gli aumenti di valore dovuti a migliorie, aumentate del tasso di interesse di mercato. E come si fa ad accertare non solo il valore delle migliorie ma degli immobili stessi, quando si annuncia un tributo che deprime il mercato, in conseguenza dell’ondata di vendite di una parte del patrimonio tassato e dell’immenso drenaggio di liquidità dovuto all’imposta? Che fare degli immobili già gravati da ipoteche, da mutui immobiliari e garanzie bancarie? Che accadrebbe agli immobili delle banche, che fanno parte dei loro parametri patrimoniali? Che ne facciamo degli immobili ecclesiastici e di associazioni non profit?
Un po’ sto celiando, stanco di ripetere che la strada è un’altra. Ma è da dire che a furia di proporre diverse formulazioni di imposta patrimoniale, glissando sulle riforme e liberalizzazioni necessarie, e sulla vendita del patrimonio pubblico, il risultato è il seguente: o non se ne farà nulla oppure si abbatterà una tantum il debito pubblico per poi tornare a produrne di bel nuovo e in grande quantità. Il vero problema è che con queste proposte, presentate in quotidiani autorevoli come il Corriere della Sera, i risparmiatori e le imprese si spaventano, nascondono i capitali, li portano all’estero, smettono di investire. Poi ci si lamenta che la ripresa è troppo lenta. Prima vendete il patrimonio pubblico e ricoverate questi matti, poi il mercato ripartirà, perché come diceva Enrico Dell’Acqua (1851-1910), pioniere della crescita e delle esportazioni amato da Luigi Einaudi, “è la somma delle piccole energie che fa le grandi cose”.
«Il Foglio» del 27 gennaio 2011
Nessun commento:
Posta un commento