di Roberto Timossi
Tra i tanti corsi e ricorsi storici della nostra epoca, assistiamo pure ad un rilancio del naturalismo in ambito evoluzionista ad opera soprattutto di scienziati e filosofi neodarwiniani e ultradarwiniani, i quali hanno lo scopo dichiarato di rendere inutile sul piano scientifico l’ipotesi dell’esistenza di Dio e di un Creatore intelligente. Storicamente, il naturalismo ha avuto fortuna nella prima metà del XX secolo in ambiente statunitense come concezione del mondo che rifiuta pregiudizialmente l’esistenza di entità extranaturali o sovrannaturali e che pertanto non è disposta a prendere in considerazione argomentazioni che non siano empiricamente fondate. Si tratta, in altre parole, di un’impostazione culturale che considera validi soltanto i concetti provenienti dalle scienze naturali e che assegna a quest’ultime un potere conoscitivo superiore a qualunque altro. Nella seconda metà del secolo scorso, tuttavia, il naturalismo filosofico anglosassone ha perso decisamente vigore in favore della filosofia pragmatista; e ciò anche perché è prevalsa la consapevolezza dei limiti del sapere scientifico e dell’impossibilità di attribuire ai soli risultati delle scienze naturali il carattere di vera conoscenza. Ci si è resi infatti conto che il decantato riferimento oggettivo alla natura era in realtà carico di elementi metafisici e, in alcuni casi, addirittura ideologici. In Italia la ripresa del naturalismo su basi evoluzioniste viene oggi apertamente presentata come una grande conquista del mondo laico, precisamente come la grande «possibilità laica del naturalismo», ma sfocia poi nella consueta polemica contro la fede cristiana e la Chiesa cattolica tipica del provincialismo laicista nostrano. Se qualcuno da noi osa infatti mettere in dubbio la validità della visione naturalistica fondata sull’evoluzionismo darwiniano, come ha fatto ad esempio lo stimato antropologo Fiorenzo Facchini, si ritrova tacciato senza mezzi termini di essere «un teologo al servizio dell’integralismo ratzingeriano». E ciò che più impressiona è scoprire che chi usa simili espressioni interpreta poi le critiche al suo naturalismo come un modo per squalificare moralmente l’avversario. Per i sostenitori italiani di quello che viene definito come il moderno naturalismo ontologico, le recenti conquiste delle scienze biologiche avrebbero reso definitivamente improponibile qualsiasi riferimento al soprannaturale e tutte le voci contrarie si autocondannerebbero all’oscurantismo. Proprio qui, però, risiede la debolezza tanto filosofica quanto scientifica dell’argomento neonaturalista. Tralasciando gli elementi polemici che c’entrano assai poco col tema del naturalismo, è infatti corretto far rilevare con chiarezza che se è impensabile una scienza della natura che non sia naturalistica, dal momento che per loro statuto le discipline scientifiche come la biologia non possono avere altro riferimento che quello dei fenomeni naturali empiricamente osservabili, non è per contro accettabile che sulla base delle scienze naturali qualcuno si senta legittimato a pronunciare giudizi scientifici su questioni extrascientifiche, come l’esistenza di Dio, la presenza dell’anima e la possibilità della fede religiosa. È evidente che chi coltiva questa pretesa finisce col trasformare il suo neonaturalismo in ideologia o in cattiva metafisica, ritrovandosi così a perpetuare gli stessi errori che hanno sancito il tramonto del naturalismo filosofico novecentesco.
«Avvenire» del 29 gennaio 2011
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