Quali sono i princìpi fondamentali dell’epicureismo? Come venne recepito a Roma? Perché destò sospetti e disprezzo?
di Martino Menghi
L’EPICUREISMO
■ La filosofia del greco Epicuro (341 - 271 / 270 a. C.) è ricostruibile grazie ad alcune sue opere conservate da Diogene Laerzio (prima metà del III secolo a.C.) nel libro X delle sue Vite dei filosofi: il Testamento, l’Epistola a Meneceo, compendio dell’etica epicurea, l’Epistola a Erodoto, compendio di fisica, e l’Epistola a Pitocle (di discussa autenticità), dedicata a problemi di astronomia e meteorologia.
La sua filosofia è "terapeutica", si offre cioè come un farmaco perché l’uomo raggiunga lo stato di salute, cioè il piacere (hedoné), inteso come aponía, cioè assenza di dolore fisico (che deriva da bisogni materiali insoddisfatti, come la fame o il freddo) e apàtheia, cioè assenza di turbamento psichico (che deriva dalle paure degli dèi e della morte). Secondo Epicuro l’uomo deve ridurre al minimo le esigenze materiali (i desideri che vanno oltre quelli primari sono infiniti e quindi sarebbe impossibile soddisfarli); non deve temere gli dèi, perché se essi - come è probabile - esistono, vivono in una dimensione che non è quella umana e non possono interessarsi all’umanità; non deve temere la morte, perché l’anima, come tutte le cose, è mortale, quindi quando c’è la morte non ci siamo noi e non possiamo soffrirne; alla stessa stregua non possono esistere i castighi dell’oltretomba, perché dopo la morte non esiste più niente di noi. L’uomo, per vivere sereno, deve soddisfare i piaceri primari, avere amici con cui condividerli, rinunciare a ogni relazione non necessaria (dal matrimonio alla vita politica), secondo il principio del láthe biósas, "vivi nascosto", e liberarsi da sciocche superstizioni riguardo agli dèi, raggiungendo quell’autocontrollo e quella autosufficienza (aytárkeia) che sono le doti peculiari del saggio.
Per quello che riguarda la fisica, Epicuro rielabora l’atomismo di Democrito introducendo la "deviazione" (klísis) degli atomi nel vuoto (kenón), deviazione che permette loro di aggregarsi e formare agglomerati. La morte disgrega gli agglomerati atomici e ne permette la formazione di nuovi.
Una caratteristica importante della filosofia epicurea è che essa era destinata, a differenza di quella platonica e aristotelica, indifferentemente a uomini, donne e schiavi: la scuola di Epicuro ad Atene, il "Giardino", era aperta a tutti.
Già nell’antichità i rimedi epicurei contro le quattro cose che più spaventano l’uomo (l’ira divina, la morte e l’aldilà, il dolore, la privazione del piacere) vennero riassunti nel cosiddetto "tetrafarmaco" (cioè "quadruplice medicina"): 1) gli dèi non esistono o, se esistono, non si curano delle vicende umane; 2) la morte non è nulla e, dopo di essa, di noi non rimane nulla; 3) il dolore è disprezzabile, perché se esso è insopportabile, ha anche breve durata (infatti sopraggiunge la morte); se è lungo, allora è mite e sopportabile; 4) il piacere, come assenza di dolore e contentezza del poco, è a portata di tutti gli uomini e non è effimero.
LE FILOSOFIE ELLENISTICHEA ROMA
■ La diffusione della cultura greca a Roma, com’è noto, incontrò non poche difficoltà dovute soprattutto alla mentalità conservatrice delle classi dirigenti urbane. L’apertura intellettuale del cosiddetto Circolo scipionico contribuì tuttavia ad attenuare la tradizionale diffidenza romana verso tutto ciò che proveniva dalla Grecia, preparando il terreno a un fecondo incontro tra le due civiltà. In ogni caso non si trattò mai di accettazione acritica: sia gli Scipioni sia Catone il Censore mutuarono dalla cultura greca tutto quanto si poteva conciliare con la tradizione romana e con le esigenze dello stato. Mentre lo stoicismo trovò, per il suo rigore etico, terreno fertile di diffusione, la filosofia di Epicuro fu subito guardata con sospetto, perché considerata pericolosa per gli equilibri sociali e politici della res publica: la ricerca del piacere, l’indifferenza alla pubblica considerazione e a tutto ciò che serviva a procurarsela (cariche politiche, successi militari ecc.), la necessità di liberarsi da false credenze anche quando queste appartenessero ad ambiti consacrati da un consenso secolare erano insegnamenti che entravano in conflitto con il mos maiorum, modello di ogni comportamento individuale e collettivo.
L’EPICUREISMO A ROMA
■ Roma venne a contatto con l’epicureismo, come con le altre filosofie ellenistiche, a partire dalla seconda metà del III secolo a.C. Il terreno non era ancora dei più fertili per la sua diffusione, anche perché la società romana si trovava allora compattamente impegnata nella conquista del proprio spazio vitale in Italia e fuori della penisola. Tuttavia è interessante ricordare che, già a una data corrispondente ai primissimi anni del Il secolo a.C., anche la proposta filosofica epicurea cominciava a circolare con un certo ascolto. Ennio (239-169 a.C.) nella sua tragedia Telamo fa del padre di Aiace, e stando alla testimonianza di Cicerone con grande successo, il portavoce della posizione epicurea sulla divinità: «Io ho sempre detto e dirò che il genere degli dei esiste, ma penso che essi non si curino di quello che fa il genere umano. Ché, se ne avessero cura, felici sarebbero i buoni e infelici i cattivi, il che ora è lungi dal verificarsi» (framm. 170 Traglia; trad. A. Traglia). E altrettanto significativo è il fatto che nel 154 a.C. due maestri di epicureismo, Alicio e Filisco, fossero espulsi da Roma, vittime anch’essi della più generale reazione antiellenica promossa da Catone il Censore nel tentativo di mettere al bando le nuove idee culturali e religiose che potevano entrare in contrasto con il mos maiorum.
L’epicureismo naturalmente sopravvisse alla censura catoniana. Tra II e I secolo a.C. l’epicureismo si diffuse a tutti i livelli di una compagine sociale in crisi, lacerata dalle guerre civili e da una crisi ideologica profonda. La trasformazione dell’esercito in una casta di professionisti, data la durata delle guerre in corso, la concentrazione del potere e della ricchezza nelle mani dell’oligarchia senatoria, il fenomeno dell’inurbamento delle plebi, con la loro strenua lotta ora per rivendicare i propri diritti, ora per godere della protezione di una famiglia influente,le attese, le speranze, i costi, la sofferenza, i lutti non solo da parte delle categorie meno fortunate, ma anche dei ceti medi e dell’aristocrazia, crearono le condizioni "psicologiche" perché la parola filosofica, e in particolare Il messaggio "terapeutico" delle filosofie ellenistiche, potesse trovare accoglienza e seguito anche nella società romana.
Molte sono le testimonianze che indicano come nel I secolo a.C. l’epicureismo fosse ormai diffuso a tutti i livelli sociali: cospicue testimonianze ci informano dell’insegnamento di un maestro epicureo, Fedro, ascoltato a Roma da membri appartenenti a tutte e due le partes (popolari e ottimati) in lotta per il potere, come Cesare, suo suocero Calpurnio Pisone (protettore del filosofo epicureo Filodemo di Gadara, che aveva una scuola a Ercolano), l’amico di Cicerone Tito Pomponio Attico, i congiurati delle idi di marzo Bruto e Cassio; a Posillipo esisteva una celebre scuola epicurea diretta da Siriane e frequentata tra gli altri da Virgilio; Cicerone (Tusculanae disputationes IV, 7) parla di una propagazione massiccia dell’epicureismo anche tra le classi meno abbienti, e a più riprese fa i nomi di due epicurei vissuti all’inizio del I secolo a.C., Amafinio e Cazio, accusandoli di diffondere una dottrina volgare ed edonistica e di aver tradotto il messaggio epicureo in una cattiva prosa latina a uso e consumo della plebe; in alcune ville di ricchi romani sono state ritrovate opere di Epicuro; Attico, amico ed editore di Cicerone, era un seguace di questa dottrina; chiari echi epicurei rivela il ragionamento sulla morte che, nel De Catilinae coniuratione, Sallustio attribuisce a Cesare, durante il discorso tenuto in senato sulla sorte da assegnare ai catilinari bloccati a Roma: la morte, vi si legge, «non è un castigo, ma una liberazione dai tormenti: essa annulla tutti i mali dell’umanità: nell’aldilà non vi è luogo né all’affanno né alla gioia» (51, 20).
LE ACCUSE DI CICERONE CONTRO L’EPICUREISMO
■ Attraverso la testimonianza di Cicerone, che si lancia in attacchi veementi contro la dottrina di Epicuro - prevalentemente in due opere, le Tusculanae disputationes e il De finibus bonorum et malorum, dandone una lettura politico-ideologica più che filosofica, è possibile capire come essa fu percepita e interpretata a Roma.
Cicerone non trascura innanzitutto agli epicurei l’accusa di viziosità: il piacere di Epicuro, con tutta la sua raffinata gamma di sfumature e la tendenza quasi ascetica ad allontanarsi da qualsiasi artificio nell’uso di quanto offre la natura, si trasforma nel godimento del vino e del sesso senza alcun limite. Allo stesso modo i divulgatori della filosofia epicurea tra il popolo, che pure ebbero un certo successo, sono bollati da Cicerone come edonisti e come cattivi scrittori che allettano la plebe con la proposizione di piaceri volgari. Questa accusa era certamente fondata, ma non aveva niente a che fare con la vera e rigorosa filosofia di Epicuro; si trattava di malevole e facili interpretazioni, forse dovute a maestri che non avevano lo stesso rigore del fondatore. Certo non era facile seguire le regole di Epicuro nella loro reale portata: lo stesso Epicuro, preoccupato per un eventuale fraintendimento della propria dottrina, afferma: «quando diciamo che il piacere è il fine della vita beata, nonci riferiamo ai piaceri dei dissoluti e a quelli che si ritrovano nella soddisfazione dei sensi - come ritengono alcuni ignoranti che dissentono da noi o ci fraintendono -, ma all’assenza di dolore nel corpo e di turbamento nell’anima. Giacché non simposi e continue feste, non godere di giovanetti e donne, né gustar pesci o quant’altro offre una mensa sontuosa rendono dolce la vita, ma sobrio raziocinio che indaghi le cause di ogni scelta e rifiuto e bandisca quelle opinioni per le quali la maggior confusione si impadronisce degli animi» (Epistola a Meneceo 130-132; trad. M. Positano).
Comunque l’interpretazione volgare dell’epicureismo è più un mezzo per screditare la dottrina che l’evocazione di un vero e proprio pericolo. È ben più grave agli occhi di un difensore accorto della secolare tradizione di impegno e sacrificio a favore dello stato come Cicerone che gli epicurei predichino il distacco dalla vita pubblica, la vita appartata come farmaco per giungere alla felicità. Per capire il rapporto tra epicureismo e vita politica a Roma può essere esaminata la figura di Cesare: il suo epicureismo, che si prestò anche a interpretazioni volgari con riferimento alla sua propensione al vizio e ai piaceri, non gli impedì certo di partecipare alla vita pubblica. Del resto anche a Sallustio la giovanile simpatia per il pitagorismo non precluse la carriera politica e a Gaio Memmio, il discepolo di Lucrezio, gli insegnamenti del maestro non impedirono di seguire il cursus honorum e di ottenere il governatorato in Bitinia. Alcuni hanno pensato che la presenza di cesariani tra gli epicurei, le simpatie di Cesare e, al contrario, l’odio di Cicerone per la filosofia di Epicuro nascondessero un retroscena di ordine politico, vale a dire che l’ambiente del futuro dittatore avesse decise preferenze per una filosofia che, favorendo il disimpegno politico del cittadino, si era indirizzata a soluzioni monarchiche. In realtà proprio l’"incoerenza" di Cesare e di Memmio e le simpatie epicuree di Bruto e Cassio, uccisori di Cesare, e di Attico, amico di Cicerone, sono la prova che l’adesione all’epicureismo non sempre era coerente.
Infine uno dei principali motivi di sospetto verso la dottrina epicurea è la sua condanna della religio e l’idea dell’assenza di un piano provvidenziale che governi le azioni degli uomini: per gli epicurei, infatti, gli dèi vivono un’esistenza separata dal mondo e la religione è solo un’invenzione dell’uomo, uno degli "errori" che l’umanità ha compiuto in quanto non soccorsa dalla forza della ragione. A Roma invece la religione era un formidabile strumento di legittimazione del potere e di controllo delle masse: ogni manifestazione pubblica assumeva connotati religiosi; dai sacrifici ai giochi del circo, dai funerali di uomini illustri ai trionfi dei generali, persino l’attività politica e le pubbliche deliberazioni comportavano un cerimoniale religioso, e ogni errore invalidava l’atto. Quindi ogni negazione del culto previsto e codificato dalla tradizione si trasformava immediatamente in una pericolosa messa in discussione dell’autorità politica e dell’ordine costituito.
La sua filosofia è "terapeutica", si offre cioè come un farmaco perché l’uomo raggiunga lo stato di salute, cioè il piacere (hedoné), inteso come aponía, cioè assenza di dolore fisico (che deriva da bisogni materiali insoddisfatti, come la fame o il freddo) e apàtheia, cioè assenza di turbamento psichico (che deriva dalle paure degli dèi e della morte). Secondo Epicuro l’uomo deve ridurre al minimo le esigenze materiali (i desideri che vanno oltre quelli primari sono infiniti e quindi sarebbe impossibile soddisfarli); non deve temere gli dèi, perché se essi - come è probabile - esistono, vivono in una dimensione che non è quella umana e non possono interessarsi all’umanità; non deve temere la morte, perché l’anima, come tutte le cose, è mortale, quindi quando c’è la morte non ci siamo noi e non possiamo soffrirne; alla stessa stregua non possono esistere i castighi dell’oltretomba, perché dopo la morte non esiste più niente di noi. L’uomo, per vivere sereno, deve soddisfare i piaceri primari, avere amici con cui condividerli, rinunciare a ogni relazione non necessaria (dal matrimonio alla vita politica), secondo il principio del láthe biósas, "vivi nascosto", e liberarsi da sciocche superstizioni riguardo agli dèi, raggiungendo quell’autocontrollo e quella autosufficienza (aytárkeia) che sono le doti peculiari del saggio.
Per quello che riguarda la fisica, Epicuro rielabora l’atomismo di Democrito introducendo la "deviazione" (klísis) degli atomi nel vuoto (kenón), deviazione che permette loro di aggregarsi e formare agglomerati. La morte disgrega gli agglomerati atomici e ne permette la formazione di nuovi.
Una caratteristica importante della filosofia epicurea è che essa era destinata, a differenza di quella platonica e aristotelica, indifferentemente a uomini, donne e schiavi: la scuola di Epicuro ad Atene, il "Giardino", era aperta a tutti.
Già nell’antichità i rimedi epicurei contro le quattro cose che più spaventano l’uomo (l’ira divina, la morte e l’aldilà, il dolore, la privazione del piacere) vennero riassunti nel cosiddetto "tetrafarmaco" (cioè "quadruplice medicina"): 1) gli dèi non esistono o, se esistono, non si curano delle vicende umane; 2) la morte non è nulla e, dopo di essa, di noi non rimane nulla; 3) il dolore è disprezzabile, perché se esso è insopportabile, ha anche breve durata (infatti sopraggiunge la morte); se è lungo, allora è mite e sopportabile; 4) il piacere, come assenza di dolore e contentezza del poco, è a portata di tutti gli uomini e non è effimero.
LE FILOSOFIE ELLENISTICHEA ROMA
■ La diffusione della cultura greca a Roma, com’è noto, incontrò non poche difficoltà dovute soprattutto alla mentalità conservatrice delle classi dirigenti urbane. L’apertura intellettuale del cosiddetto Circolo scipionico contribuì tuttavia ad attenuare la tradizionale diffidenza romana verso tutto ciò che proveniva dalla Grecia, preparando il terreno a un fecondo incontro tra le due civiltà. In ogni caso non si trattò mai di accettazione acritica: sia gli Scipioni sia Catone il Censore mutuarono dalla cultura greca tutto quanto si poteva conciliare con la tradizione romana e con le esigenze dello stato. Mentre lo stoicismo trovò, per il suo rigore etico, terreno fertile di diffusione, la filosofia di Epicuro fu subito guardata con sospetto, perché considerata pericolosa per gli equilibri sociali e politici della res publica: la ricerca del piacere, l’indifferenza alla pubblica considerazione e a tutto ciò che serviva a procurarsela (cariche politiche, successi militari ecc.), la necessità di liberarsi da false credenze anche quando queste appartenessero ad ambiti consacrati da un consenso secolare erano insegnamenti che entravano in conflitto con il mos maiorum, modello di ogni comportamento individuale e collettivo.
L’EPICUREISMO A ROMA
■ Roma venne a contatto con l’epicureismo, come con le altre filosofie ellenistiche, a partire dalla seconda metà del III secolo a.C. Il terreno non era ancora dei più fertili per la sua diffusione, anche perché la società romana si trovava allora compattamente impegnata nella conquista del proprio spazio vitale in Italia e fuori della penisola. Tuttavia è interessante ricordare che, già a una data corrispondente ai primissimi anni del Il secolo a.C., anche la proposta filosofica epicurea cominciava a circolare con un certo ascolto. Ennio (239-169 a.C.) nella sua tragedia Telamo fa del padre di Aiace, e stando alla testimonianza di Cicerone con grande successo, il portavoce della posizione epicurea sulla divinità: «Io ho sempre detto e dirò che il genere degli dei esiste, ma penso che essi non si curino di quello che fa il genere umano. Ché, se ne avessero cura, felici sarebbero i buoni e infelici i cattivi, il che ora è lungi dal verificarsi» (framm. 170 Traglia; trad. A. Traglia). E altrettanto significativo è il fatto che nel 154 a.C. due maestri di epicureismo, Alicio e Filisco, fossero espulsi da Roma, vittime anch’essi della più generale reazione antiellenica promossa da Catone il Censore nel tentativo di mettere al bando le nuove idee culturali e religiose che potevano entrare in contrasto con il mos maiorum.
L’epicureismo naturalmente sopravvisse alla censura catoniana. Tra II e I secolo a.C. l’epicureismo si diffuse a tutti i livelli di una compagine sociale in crisi, lacerata dalle guerre civili e da una crisi ideologica profonda. La trasformazione dell’esercito in una casta di professionisti, data la durata delle guerre in corso, la concentrazione del potere e della ricchezza nelle mani dell’oligarchia senatoria, il fenomeno dell’inurbamento delle plebi, con la loro strenua lotta ora per rivendicare i propri diritti, ora per godere della protezione di una famiglia influente,le attese, le speranze, i costi, la sofferenza, i lutti non solo da parte delle categorie meno fortunate, ma anche dei ceti medi e dell’aristocrazia, crearono le condizioni "psicologiche" perché la parola filosofica, e in particolare Il messaggio "terapeutico" delle filosofie ellenistiche, potesse trovare accoglienza e seguito anche nella società romana.
Molte sono le testimonianze che indicano come nel I secolo a.C. l’epicureismo fosse ormai diffuso a tutti i livelli sociali: cospicue testimonianze ci informano dell’insegnamento di un maestro epicureo, Fedro, ascoltato a Roma da membri appartenenti a tutte e due le partes (popolari e ottimati) in lotta per il potere, come Cesare, suo suocero Calpurnio Pisone (protettore del filosofo epicureo Filodemo di Gadara, che aveva una scuola a Ercolano), l’amico di Cicerone Tito Pomponio Attico, i congiurati delle idi di marzo Bruto e Cassio; a Posillipo esisteva una celebre scuola epicurea diretta da Siriane e frequentata tra gli altri da Virgilio; Cicerone (Tusculanae disputationes IV, 7) parla di una propagazione massiccia dell’epicureismo anche tra le classi meno abbienti, e a più riprese fa i nomi di due epicurei vissuti all’inizio del I secolo a.C., Amafinio e Cazio, accusandoli di diffondere una dottrina volgare ed edonistica e di aver tradotto il messaggio epicureo in una cattiva prosa latina a uso e consumo della plebe; in alcune ville di ricchi romani sono state ritrovate opere di Epicuro; Attico, amico ed editore di Cicerone, era un seguace di questa dottrina; chiari echi epicurei rivela il ragionamento sulla morte che, nel De Catilinae coniuratione, Sallustio attribuisce a Cesare, durante il discorso tenuto in senato sulla sorte da assegnare ai catilinari bloccati a Roma: la morte, vi si legge, «non è un castigo, ma una liberazione dai tormenti: essa annulla tutti i mali dell’umanità: nell’aldilà non vi è luogo né all’affanno né alla gioia» (51, 20).
LE ACCUSE DI CICERONE CONTRO L’EPICUREISMO
■ Attraverso la testimonianza di Cicerone, che si lancia in attacchi veementi contro la dottrina di Epicuro - prevalentemente in due opere, le Tusculanae disputationes e il De finibus bonorum et malorum, dandone una lettura politico-ideologica più che filosofica, è possibile capire come essa fu percepita e interpretata a Roma.
Cicerone non trascura innanzitutto agli epicurei l’accusa di viziosità: il piacere di Epicuro, con tutta la sua raffinata gamma di sfumature e la tendenza quasi ascetica ad allontanarsi da qualsiasi artificio nell’uso di quanto offre la natura, si trasforma nel godimento del vino e del sesso senza alcun limite. Allo stesso modo i divulgatori della filosofia epicurea tra il popolo, che pure ebbero un certo successo, sono bollati da Cicerone come edonisti e come cattivi scrittori che allettano la plebe con la proposizione di piaceri volgari. Questa accusa era certamente fondata, ma non aveva niente a che fare con la vera e rigorosa filosofia di Epicuro; si trattava di malevole e facili interpretazioni, forse dovute a maestri che non avevano lo stesso rigore del fondatore. Certo non era facile seguire le regole di Epicuro nella loro reale portata: lo stesso Epicuro, preoccupato per un eventuale fraintendimento della propria dottrina, afferma: «quando diciamo che il piacere è il fine della vita beata, nonci riferiamo ai piaceri dei dissoluti e a quelli che si ritrovano nella soddisfazione dei sensi - come ritengono alcuni ignoranti che dissentono da noi o ci fraintendono -, ma all’assenza di dolore nel corpo e di turbamento nell’anima. Giacché non simposi e continue feste, non godere di giovanetti e donne, né gustar pesci o quant’altro offre una mensa sontuosa rendono dolce la vita, ma sobrio raziocinio che indaghi le cause di ogni scelta e rifiuto e bandisca quelle opinioni per le quali la maggior confusione si impadronisce degli animi» (Epistola a Meneceo 130-132; trad. M. Positano).
Comunque l’interpretazione volgare dell’epicureismo è più un mezzo per screditare la dottrina che l’evocazione di un vero e proprio pericolo. È ben più grave agli occhi di un difensore accorto della secolare tradizione di impegno e sacrificio a favore dello stato come Cicerone che gli epicurei predichino il distacco dalla vita pubblica, la vita appartata come farmaco per giungere alla felicità. Per capire il rapporto tra epicureismo e vita politica a Roma può essere esaminata la figura di Cesare: il suo epicureismo, che si prestò anche a interpretazioni volgari con riferimento alla sua propensione al vizio e ai piaceri, non gli impedì certo di partecipare alla vita pubblica. Del resto anche a Sallustio la giovanile simpatia per il pitagorismo non precluse la carriera politica e a Gaio Memmio, il discepolo di Lucrezio, gli insegnamenti del maestro non impedirono di seguire il cursus honorum e di ottenere il governatorato in Bitinia. Alcuni hanno pensato che la presenza di cesariani tra gli epicurei, le simpatie di Cesare e, al contrario, l’odio di Cicerone per la filosofia di Epicuro nascondessero un retroscena di ordine politico, vale a dire che l’ambiente del futuro dittatore avesse decise preferenze per una filosofia che, favorendo il disimpegno politico del cittadino, si era indirizzata a soluzioni monarchiche. In realtà proprio l’"incoerenza" di Cesare e di Memmio e le simpatie epicuree di Bruto e Cassio, uccisori di Cesare, e di Attico, amico di Cicerone, sono la prova che l’adesione all’epicureismo non sempre era coerente.
Infine uno dei principali motivi di sospetto verso la dottrina epicurea è la sua condanna della religio e l’idea dell’assenza di un piano provvidenziale che governi le azioni degli uomini: per gli epicurei, infatti, gli dèi vivono un’esistenza separata dal mondo e la religione è solo un’invenzione dell’uomo, uno degli "errori" che l’umanità ha compiuto in quanto non soccorsa dalla forza della ragione. A Roma invece la religione era un formidabile strumento di legittimazione del potere e di controllo delle masse: ogni manifestazione pubblica assumeva connotati religiosi; dai sacrifici ai giochi del circo, dai funerali di uomini illustri ai trionfi dei generali, persino l’attività politica e le pubbliche deliberazioni comportavano un cerimoniale religioso, e ogni errore invalidava l’atto. Quindi ogni negazione del culto previsto e codificato dalla tradizione si trasformava immediatamente in una pericolosa messa in discussione dell’autorità politica e dell’ordine costituito.
Brano tratto da M. Menghi, Novae voces, Lucrezio, Edizioni scolastiche Bruno Mondadori, 2007 ( pp. 10-12)
Postato il 15 gennaio 2011
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