In «Troppo umana speranza» di Mari l’affresco della misera (e meschina) Italia del primo ’800
di Stenio Solinas
Com’era l’Italia poco prima dell’Unità d’Italia, quando ancora l’idea di un risorgimento nazionale sembrava essere soltanto un afflato, un pensiero incapace di farsi azione compiuta, cospirazione e non rivoluzione? In Troppo umana speranza (Feltrinelli, pagg. 749, euro 18), Alessandro Mari prova a disegnarne i contorni e mette in scena umili contadini e borghesi intellettuali, donne di vita e delatori di professione, esteti armati e profeti disarmati, aristocratici e schiuma della terra. Il risultato è un romanzo storico che non disdegna il feuilleton (rapimenti, uccisioni, agnizioni, colpi di scena a ripetizione), scritto in una lingua con la giusta patina ottocentesca, corale nel suo portare avanti più storie parallele e dove tuttavia i due deus ex machina della realtà ottocentesca, Mazzini e Garibaldi, funzionano da detonatori e da semafori di quella romanzesca: fanno saltare il quadro d’insieme, illuminano il percorso di chi sta loro intorno.
Il nostro Risorgimento, si sa, fu un’epopea avvolta nel caso, nel miracolo, nell’astuzia politica e nella fede individuale. Il trasformismo prima, Giolitti poi, cercarono di ricondurlo nella prosa di una nazione piccola, priva di materie prime e ancora fragile nelle istituzioni; il fascismo gli preferì la retorica di una primazia spirituale che andava al di là delle dimensioni puramente geografiche; la nuova Italia antifascista elaborò il mito di un’unità tradita, elitaria e perciò non nazionale, classista e quindi non popolare. A 150 anni dal suo compimento, il risultato è un senso di freddezza se non di distacco, l’incapacità di fare i conti con il proprio passato, il prevalere di quello spirito auto-denigratorio in cui l’italiano medio è maestro: il deridere ogni idea di grandezza partendo dal presupposto di non esserne capaci. Eppure, nell’Ottocento delle guerre di liberazione Mazzini e Garibaldi godettero di una fama e di un’attenzione che nessun pensatore politico e nessun capo militare di altra nazione riuscirono a eguagliare, furono icone riconosciute, rimisero in discussione quell’immagine mandolinista e opportunista che, come una nemesi, periodicamente sarebbe tornata a imperversare.
Il romanzo di Mari è interessante per più motivi. È l’opera prima di un autore trentenne, non indulge nell’agiografia ma nemmeno nella dissacrazione, è scritta all’insegna della trama, sa mischiare efficacemente la documentazione alla fantasia. La giovane età gli permette di immergersi con occhio vergine in un campo dove per tutto il Novecento ci si è aggirati con occhio ideologico, e questo dà a Troppo umana speranza un colore nuovo e permette una lettura diversa del nostro «come eravamo».
Il lettore ha a disposizione più narrazioni nelle quali riconoscersi: la storia d’amore di Colombino, il lombardo semplice di spirito, orfano e allevato da un parroco, che vorrebbe impalmare la sua Vittorina «dagli occhi belli come quelli di una mucca»; i sogni di gloria del milanese Lisander, pittore bohèmien che aspira agli agi della vita borghese e insegue le seduzioni commerciali della nuova tecnica cinematografica; gli incubi della meridionale Leda, violentata dallo zio, chiusa in un convento della Roma pontifica, fuggita e poi riacciuffata, di nuovo scappata... A fare loro da contrappunto c’è l’esilio sudamericano del Garibaldi non ancora «eroe dei due mondi», quello londinese del Mazzini al tempo stesso cospiratore e apostolo, amato e odiato, sempre spiato.
È l’Italia dei campanili, fatta di ducati e granducati, regni più o meno autoctoni e governi stranieri, dove non sempre ci si comprende tra una frontiera interna e l’altra, l’analfabetismo regna sovrano, c’è il potere temporale dei papi, ci sono polizie segrete e si cospira nell’ombra, il rapimento è una consuetudine, come il carcere, la tortura, l’esilio... E però è anche lo sterminato campo della memoria, la gloria e le rovine di Roma e dei comuni medievali, i fasti del Rinascimento e delle grandi signorie, lo sterminato corteo di principi e di pittori, di mecenati e di poeti...
Nell’esemplare intervista fattagli da Mario Baudino sulla Stampa, Alessandro Mari ha ricondotto il titolo del suo romanzo alle «energie della nostra giovinezza come Paese, in cui il sentimento prevaleva non solo sulla politica, ma anche sull’azione, quella loro speranza di cambiare le cose da sotto, dal basso, mettendo a disposizione ogni loro energia. È una forza che commuove». Così, l’Ottocento di Troppo umana speranza non è il marmo monumentale della retorica, ma neppure il fango puro e semplice dell’antiretorica, ma i profumi e le puzze, le prese di posizione e i compromessi, i gesti nobili che si accompagnano a un percorso tortuoso dove a ogni momento tutto sembra crollare e tutto subito dopo rinasce. Il decennio quarantottesco si chiude con la sconfitta delle aspirazioni risorgimentali, che pure, di lì a pochi anni, diverranno realtà fra mille peripezie e mille contraccolpi. Altri tempi, altre tempre.
Il nostro Risorgimento, si sa, fu un’epopea avvolta nel caso, nel miracolo, nell’astuzia politica e nella fede individuale. Il trasformismo prima, Giolitti poi, cercarono di ricondurlo nella prosa di una nazione piccola, priva di materie prime e ancora fragile nelle istituzioni; il fascismo gli preferì la retorica di una primazia spirituale che andava al di là delle dimensioni puramente geografiche; la nuova Italia antifascista elaborò il mito di un’unità tradita, elitaria e perciò non nazionale, classista e quindi non popolare. A 150 anni dal suo compimento, il risultato è un senso di freddezza se non di distacco, l’incapacità di fare i conti con il proprio passato, il prevalere di quello spirito auto-denigratorio in cui l’italiano medio è maestro: il deridere ogni idea di grandezza partendo dal presupposto di non esserne capaci. Eppure, nell’Ottocento delle guerre di liberazione Mazzini e Garibaldi godettero di una fama e di un’attenzione che nessun pensatore politico e nessun capo militare di altra nazione riuscirono a eguagliare, furono icone riconosciute, rimisero in discussione quell’immagine mandolinista e opportunista che, come una nemesi, periodicamente sarebbe tornata a imperversare.
Il romanzo di Mari è interessante per più motivi. È l’opera prima di un autore trentenne, non indulge nell’agiografia ma nemmeno nella dissacrazione, è scritta all’insegna della trama, sa mischiare efficacemente la documentazione alla fantasia. La giovane età gli permette di immergersi con occhio vergine in un campo dove per tutto il Novecento ci si è aggirati con occhio ideologico, e questo dà a Troppo umana speranza un colore nuovo e permette una lettura diversa del nostro «come eravamo».
Il lettore ha a disposizione più narrazioni nelle quali riconoscersi: la storia d’amore di Colombino, il lombardo semplice di spirito, orfano e allevato da un parroco, che vorrebbe impalmare la sua Vittorina «dagli occhi belli come quelli di una mucca»; i sogni di gloria del milanese Lisander, pittore bohèmien che aspira agli agi della vita borghese e insegue le seduzioni commerciali della nuova tecnica cinematografica; gli incubi della meridionale Leda, violentata dallo zio, chiusa in un convento della Roma pontifica, fuggita e poi riacciuffata, di nuovo scappata... A fare loro da contrappunto c’è l’esilio sudamericano del Garibaldi non ancora «eroe dei due mondi», quello londinese del Mazzini al tempo stesso cospiratore e apostolo, amato e odiato, sempre spiato.
È l’Italia dei campanili, fatta di ducati e granducati, regni più o meno autoctoni e governi stranieri, dove non sempre ci si comprende tra una frontiera interna e l’altra, l’analfabetismo regna sovrano, c’è il potere temporale dei papi, ci sono polizie segrete e si cospira nell’ombra, il rapimento è una consuetudine, come il carcere, la tortura, l’esilio... E però è anche lo sterminato campo della memoria, la gloria e le rovine di Roma e dei comuni medievali, i fasti del Rinascimento e delle grandi signorie, lo sterminato corteo di principi e di pittori, di mecenati e di poeti...
Nell’esemplare intervista fattagli da Mario Baudino sulla Stampa, Alessandro Mari ha ricondotto il titolo del suo romanzo alle «energie della nostra giovinezza come Paese, in cui il sentimento prevaleva non solo sulla politica, ma anche sull’azione, quella loro speranza di cambiare le cose da sotto, dal basso, mettendo a disposizione ogni loro energia. È una forza che commuove». Così, l’Ottocento di Troppo umana speranza non è il marmo monumentale della retorica, ma neppure il fango puro e semplice dell’antiretorica, ma i profumi e le puzze, le prese di posizione e i compromessi, i gesti nobili che si accompagnano a un percorso tortuoso dove a ogni momento tutto sembra crollare e tutto subito dopo rinasce. Il decennio quarantottesco si chiude con la sconfitta delle aspirazioni risorgimentali, che pure, di lì a pochi anni, diverranno realtà fra mille peripezie e mille contraccolpi. Altri tempi, altre tempre.
«Il Giornale» del 19 gennaio 2011
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