"Noi credevamo", terzo film italiano in gara, accolto con applausi dalla platea di giornalisti. Uno sguardo senza retorica sul Risorgimento: "Ma la spinta autoritaria arriva fino a oggi"
di Claudia Morgoglione
L'unità d'Italia - incompiuta, nata male e proseguita peggio, incapace di amalgamare davvero le regioni e le classi sociali - irrompe, come previsto, in questo freddo martedì di Mostra: è "Noi credevamo" di Mario Martone, terzo film italiano in concorso, accolto con applausi dalla platea di giornalisti. Un film che ci restituisce un ritratto inquietante, pessimista, di come eravamo, e dunque di quello che siamo diventati: un Paese, come dice il protagonista Luigi Lo Cascio nella parte finale del film, "gretto, superbo e assassino".
Passato e presente. "Questi tre aggettivi - racconta Martone, dallo spazio Lancia dell'hotel Exclesior - sono presi dall'omonimo romanzo di Anna Banti, da cui è tratto il film. Si riferisce al Paese di allora, ma io credo sia qualcosa che ha continuato a esistere e persistere - così come persistono le forze che vi si oppongono. E non parlo di destra e sinistra, ma della differenza antropologica tra democrazia e autoritarismo. C'è qui da noi una spinta autoritaria, un rapporto tra paure profonde e affidarsi a una persona forte dall'alto. Invece io, che nella pellicola enfatizzo il ruolo della Repubblica romana, penso che la Costituzione che si diede - così come la nostra Costituzione, nata cento anni dopo - dovremmo tenercela stretta".
Mazzini e i mazziniani. Ma a fare discutere sono anche i ritratti in chiaroscuro di alcuni personaggi storici. Come Giuseppe Mazzini, interpretato da Toni Servillo, animato da vero e proprio fanatismo, e ben felice di mandare ragazzi a farsi ammazzare pur di uccidere Carlo Alberto. Un'interpretazione che il regista in qualche modo rivendica: "La mia", spiega, è un'opera nata sull'onda dell'emozione per gli attentati dell'11 settembre. La figura di Mazzini può in effetti ricordare il terrorismo: gli stessi Marx ed Engels vedevano in lui un terrorista, comunque un uomo di cui non accettavano i metodi estremi. Un personaggio più vicino all'integralismo religioso (con la sua fortissima fede cattolica) che alla lotta armata stile Br: col suo essere religioso e mistico allevava in qualche modo dei martiri".
"Contro la retorica imbalsamata". Per il resto, Martone definisce il suo lunghissimo film - tre ore e mezzo: comunque una sfida alla pazienza dello spettatore - "tragico, catartico. Una ricostruzione che toglie al Risorgimento, all'unità d'Italia, quell'aria imbalsamata in cui finora è stato tenuto. Uno sguardo senza retorica, e in una prospettiva inedita. Storico, atto con materiali documentati, che non strizza troppo l'occhio all'attualità. Ma che nasce da un bisogno che viene dal presente". E il riferimento all'oggi in effetti è esplicito: se l'unità, col suo sangue, le sue speranze e le sue sofferenze, è andata subito così male, è chiaro che la storia del nostro Paese in qualche modo era già segnata.
La storia. E' quella di due fratelli cilentani, Domenico (Luigi Lo Cascio) e Angelo (Valerio Binasco), che diventano mazziniani da giovani. Il primo combatte lealmente, viene rinchiuso in carcere poi si unisce ai garibaldini, l'altro invece - dopo aver ucciso un innocente - diventa un fanatico mazziniano, assetato di sangue. I loro destini si incrociano con quelli dei personaggi realmente esistiti: tra gli altri, Francesco Crispi (Luca Barbareschi), Cristina di Belgioioso (Francesca Inaudi). Ma, dopo la repressione delle camicie rosse in Aspromonte, si capisce che l'unità è stata costruita nel modo sbagliato.
Il ricordo di Vassallo. Martone commemora Angelo Vassallo, il sindaco di Pollica ucciso: "Lo conoscevo da sempre, è un grande dolore personale, ma anche la consapevolezza che la camorra ha raggiunto una terra finora intoccata come il Cilento. Credo ci voglia una mobilitazione estrema. Abbiamo girato tante scene a Pollica, lui sarebbe dovuto essere qui con noi oggi". Cordoglio viene espresso dal presidente della Biennale Paolo Baratta.
Effetto Barbareschi. Il parlamentare finiano attacca la Lega: "Solo uno psicopatico può credere al concetto di Padania". Sul Mazzini del film dice: "Era come Toni Negri, faceva la rivoluzione sulla pelle degli altri". E rivela un retroscena televisivo: "Sembra che Berlusconi, guardando il tg di Mentana e i suoi servizi (assai poco compiacenti col premier, ndr) abbia ribaltato la tv...".
Passato e presente. "Questi tre aggettivi - racconta Martone, dallo spazio Lancia dell'hotel Exclesior - sono presi dall'omonimo romanzo di Anna Banti, da cui è tratto il film. Si riferisce al Paese di allora, ma io credo sia qualcosa che ha continuato a esistere e persistere - così come persistono le forze che vi si oppongono. E non parlo di destra e sinistra, ma della differenza antropologica tra democrazia e autoritarismo. C'è qui da noi una spinta autoritaria, un rapporto tra paure profonde e affidarsi a una persona forte dall'alto. Invece io, che nella pellicola enfatizzo il ruolo della Repubblica romana, penso che la Costituzione che si diede - così come la nostra Costituzione, nata cento anni dopo - dovremmo tenercela stretta".
Mazzini e i mazziniani. Ma a fare discutere sono anche i ritratti in chiaroscuro di alcuni personaggi storici. Come Giuseppe Mazzini, interpretato da Toni Servillo, animato da vero e proprio fanatismo, e ben felice di mandare ragazzi a farsi ammazzare pur di uccidere Carlo Alberto. Un'interpretazione che il regista in qualche modo rivendica: "La mia", spiega, è un'opera nata sull'onda dell'emozione per gli attentati dell'11 settembre. La figura di Mazzini può in effetti ricordare il terrorismo: gli stessi Marx ed Engels vedevano in lui un terrorista, comunque un uomo di cui non accettavano i metodi estremi. Un personaggio più vicino all'integralismo religioso (con la sua fortissima fede cattolica) che alla lotta armata stile Br: col suo essere religioso e mistico allevava in qualche modo dei martiri".
"Contro la retorica imbalsamata". Per il resto, Martone definisce il suo lunghissimo film - tre ore e mezzo: comunque una sfida alla pazienza dello spettatore - "tragico, catartico. Una ricostruzione che toglie al Risorgimento, all'unità d'Italia, quell'aria imbalsamata in cui finora è stato tenuto. Uno sguardo senza retorica, e in una prospettiva inedita. Storico, atto con materiali documentati, che non strizza troppo l'occhio all'attualità. Ma che nasce da un bisogno che viene dal presente". E il riferimento all'oggi in effetti è esplicito: se l'unità, col suo sangue, le sue speranze e le sue sofferenze, è andata subito così male, è chiaro che la storia del nostro Paese in qualche modo era già segnata.
La storia. E' quella di due fratelli cilentani, Domenico (Luigi Lo Cascio) e Angelo (Valerio Binasco), che diventano mazziniani da giovani. Il primo combatte lealmente, viene rinchiuso in carcere poi si unisce ai garibaldini, l'altro invece - dopo aver ucciso un innocente - diventa un fanatico mazziniano, assetato di sangue. I loro destini si incrociano con quelli dei personaggi realmente esistiti: tra gli altri, Francesco Crispi (Luca Barbareschi), Cristina di Belgioioso (Francesca Inaudi). Ma, dopo la repressione delle camicie rosse in Aspromonte, si capisce che l'unità è stata costruita nel modo sbagliato.
Il ricordo di Vassallo. Martone commemora Angelo Vassallo, il sindaco di Pollica ucciso: "Lo conoscevo da sempre, è un grande dolore personale, ma anche la consapevolezza che la camorra ha raggiunto una terra finora intoccata come il Cilento. Credo ci voglia una mobilitazione estrema. Abbiamo girato tante scene a Pollica, lui sarebbe dovuto essere qui con noi oggi". Cordoglio viene espresso dal presidente della Biennale Paolo Baratta.
Effetto Barbareschi. Il parlamentare finiano attacca la Lega: "Solo uno psicopatico può credere al concetto di Padania". Sul Mazzini del film dice: "Era come Toni Negri, faceva la rivoluzione sulla pelle degli altri". E rivela un retroscena televisivo: "Sembra che Berlusconi, guardando il tg di Mentana e i suoi servizi (assai poco compiacenti col premier, ndr) abbia ribaltato la tv...".
«La Repubblica» del 7 settembre 2010
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