La mostra celebrativa "Avanti popolo" alla Casa dell'Architettura di Roma. Nostalgia delle grandezze passate ma nessun accenno ai tanti scheletri: non c'è proprio nulla da festeggiare
di Mario Cervi
L’inaugurazione a Roma della mostra «Avanti popolo» che vuol ripercorrere i settant’anni di storia del Partito comunista italiano dovrebbe offrire seri motivi di riflessione, non il solito chiacchiericcio autocelebrativo di intellettuali «impegnati». Le cronache che ho letto - a quelle mi devo attenere - fanno invece pensare proprio a una rimpatriata di «noi che c’eravamo», a un una nostalgia struggente per le grandezze passate e per gli oceani di bandiere rosse che sono poi stati alquanto ammainati.
Nessuno vuol negare il ruolo importante - politico, sociale, culturale - che il Pci ha avuto in Italia. Ma il porre le sue vicende sotto l’etichetta celebrativa del centocinquantesimo anniversario dell’Unità dà secondo me un segnale ambiguo. Carica sul carro dei valori nazionali un’ideologia che quei valori li pospose sempre ai propri. E personaggi che ebbero per prima Patria il partito, e solo in subordine l’Italia.
Forse non è il caso, in un’occasione celebrativa, di insistere troppo sulle manomissioni e omissioni praticate dai curatori della mostra. Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera ha rilevato che nelle immagini e nei documenti riproposti «restano rigorosamente in ombra i lati oscuri, dal triangolo della morte emiliano all’oro di Mosca». Sono certo che non vi si farà cenno di quei poveri e ingenui comunisti italiani che, dopo la presa di potere del fascismo, fuggirono in Urss e finirono i più fortunati in galera, gli altri al muro per presunte colpe di dissidenza o di spionaggio. Stalin ha ammazzato molto più comunisti italiani di quanti ne abbia ammazzati Mussolini.
Quella del Pci è la storia di un grande partito nel quale credettero milioni di Italiani. Purtroppo fu anche - finché l’Urss è esistita - una storia servile. Palmiro Togliatti, il mitico «migliore», aveva grandissima intelligenza e uno sconfinato cinismo. Arrivato in Italia nel 1944 da Mosca, dove aveva conosciuto gli orrori spaventosi dello stalinismo - a volte assecondandoli, mai disapprovandoli - pronunciò al V congresso del Pci, nel dicembre del 1945, queste sfrontate parole: «La società sovietica è fondata non più sull’egoismo e sullo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo. Essa è fondata, mi si permetta questa espressione, su quelle che un tempo furono le virtù evangeliche, sulle virtù dei poveri e dei lavoratori, che essenzialmente consistono nell’aiutarsi gli uni con gli altri».
Togliatti non volle un comunismo italiano che fosse diverso. Togliatti riconobbe semplicemente - perché lo riconosceva Stalin - che l’Italia era sotto la protezione Usa e che era inutile covare propositi rivoluzionari. Per questo contribuì a bloccare la spinta insurrezionale deflagrata dopo il criminale attentato di Pallante. Le posizioni del Pci nel dopoguerra furono una serie di no ispirati da Mosca a ogni progetto di rinascita europea in generale e italiana in particolare. No al piano Marshall - «è un piano di guerra» -, no al «governo poliziesco e clericale», no al Patto atlantico.
E quando Stalin morì il «migliore», così avaro di concessioni ai sentimenti, trovò slanci commossi, sfiorò il lirismo. «L’animo è oppresso dall’angoscia per la scomparsa dell’uomo più che tutti gli altri venerato e amato, per la perdita del maestro, del compagno, dell’amico... Solo un animo meschino, cattivo, spregevole potrebbe essere capace, in questo momento, di recriminazioni vane. Giuseppe Stalin è un gigante del pensiero, un gigante dell’azione».
Certo i toni di Enrico Berlinguer furono diversi, molta acqua era passata sotto i ponti della Moscova e del Tevere. Ma quel cordone ombelicale con il Cremlino ha segnato l’intera parabola del comunismo italiano. Che infatti, una volta affrancatosi dalla sudditanza, ha perduto la ragione d’essere e addirittura il nome. Poi restano le foto simbolo. L’onesta faccia contadina di Giuseppe Di Vittorio, il presidente Sandro Pertini con le mani appoggiate alla bara di Berlinguer, mai mollata durante i funerali che l’avevano visto - lui Pertini - protagonista quasi più del defunto. C’è tanto del nostro Paese nella storia del Pci, bisogna riconoscerlo. Gli epigoni del grande partito fanno rimpiangere chi lo guidò. Non più il «migliore», ormai solo i peggiori.
Nessuno vuol negare il ruolo importante - politico, sociale, culturale - che il Pci ha avuto in Italia. Ma il porre le sue vicende sotto l’etichetta celebrativa del centocinquantesimo anniversario dell’Unità dà secondo me un segnale ambiguo. Carica sul carro dei valori nazionali un’ideologia che quei valori li pospose sempre ai propri. E personaggi che ebbero per prima Patria il partito, e solo in subordine l’Italia.
Forse non è il caso, in un’occasione celebrativa, di insistere troppo sulle manomissioni e omissioni praticate dai curatori della mostra. Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera ha rilevato che nelle immagini e nei documenti riproposti «restano rigorosamente in ombra i lati oscuri, dal triangolo della morte emiliano all’oro di Mosca». Sono certo che non vi si farà cenno di quei poveri e ingenui comunisti italiani che, dopo la presa di potere del fascismo, fuggirono in Urss e finirono i più fortunati in galera, gli altri al muro per presunte colpe di dissidenza o di spionaggio. Stalin ha ammazzato molto più comunisti italiani di quanti ne abbia ammazzati Mussolini.
Quella del Pci è la storia di un grande partito nel quale credettero milioni di Italiani. Purtroppo fu anche - finché l’Urss è esistita - una storia servile. Palmiro Togliatti, il mitico «migliore», aveva grandissima intelligenza e uno sconfinato cinismo. Arrivato in Italia nel 1944 da Mosca, dove aveva conosciuto gli orrori spaventosi dello stalinismo - a volte assecondandoli, mai disapprovandoli - pronunciò al V congresso del Pci, nel dicembre del 1945, queste sfrontate parole: «La società sovietica è fondata non più sull’egoismo e sullo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo. Essa è fondata, mi si permetta questa espressione, su quelle che un tempo furono le virtù evangeliche, sulle virtù dei poveri e dei lavoratori, che essenzialmente consistono nell’aiutarsi gli uni con gli altri».
Togliatti non volle un comunismo italiano che fosse diverso. Togliatti riconobbe semplicemente - perché lo riconosceva Stalin - che l’Italia era sotto la protezione Usa e che era inutile covare propositi rivoluzionari. Per questo contribuì a bloccare la spinta insurrezionale deflagrata dopo il criminale attentato di Pallante. Le posizioni del Pci nel dopoguerra furono una serie di no ispirati da Mosca a ogni progetto di rinascita europea in generale e italiana in particolare. No al piano Marshall - «è un piano di guerra» -, no al «governo poliziesco e clericale», no al Patto atlantico.
E quando Stalin morì il «migliore», così avaro di concessioni ai sentimenti, trovò slanci commossi, sfiorò il lirismo. «L’animo è oppresso dall’angoscia per la scomparsa dell’uomo più che tutti gli altri venerato e amato, per la perdita del maestro, del compagno, dell’amico... Solo un animo meschino, cattivo, spregevole potrebbe essere capace, in questo momento, di recriminazioni vane. Giuseppe Stalin è un gigante del pensiero, un gigante dell’azione».
Certo i toni di Enrico Berlinguer furono diversi, molta acqua era passata sotto i ponti della Moscova e del Tevere. Ma quel cordone ombelicale con il Cremlino ha segnato l’intera parabola del comunismo italiano. Che infatti, una volta affrancatosi dalla sudditanza, ha perduto la ragione d’essere e addirittura il nome. Poi restano le foto simbolo. L’onesta faccia contadina di Giuseppe Di Vittorio, il presidente Sandro Pertini con le mani appoggiate alla bara di Berlinguer, mai mollata durante i funerali che l’avevano visto - lui Pertini - protagonista quasi più del defunto. C’è tanto del nostro Paese nella storia del Pci, bisogna riconoscerlo. Gli epigoni del grande partito fanno rimpiangere chi lo guidò. Non più il «migliore», ormai solo i peggiori.
«Il Giornale» del 16 gennaio 2011
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