di Maurizio Molinari
L’America segue con passione l’affermarsi di una piazza araba che chiede libertà e democrazia anziché maledire lo Zio Sam. Ciò che accomuna i resoconti dei media, dal Washington Post ai maggiori network tv, e le analisi dei centri studi, dalla Brookings Institutions alla Fondazione Carnegie, è la descrizione di una novità: da Tunisi al Cairo, da Alessandria a San’a, le nuove generazioni arabe manifestano non contro i Satana dell’Occidente ma a favore di più diritti, politici ed economici. «Le crisi interne al mondo arabo hanno preso il sopravvento sull’ostilità verso l’America e sul conflitto israelopalestinese nei cuori di milioni di musulmani» spiega Eliott Abrams del «Council on Foreign Relations». Abituati a considerare le manifestazioni oceaniche di musulmani come nemiche, gli americani scoprono che «la strada araba oggi ha valori comuni con la Main Street del Midwest» osserva Fuad Ajami, orientalista della Johns Hopkins University. Le notizie frammentarie di manifestazioni pro-democratiche che arrivano da Giordania e Siria consentono al «Center for American Progress» di John Podesta, molto vicino alla Casa Bianca, di affermare che «la rivoluzione dei gelsomini in Tunisia sta diventando qualcosa di più ampio».
E’ in questa cornice che la Casa Bianca di Barack Obama esprime due priorità nell’affrontare quanto sta avvenendo. Primo: far prevalere i diritti universali dell’individuo. Secondo: impedire che ad avvantaggiarsi della fase di instabilità siano le cellule jihadiste apparentate con Al Qaeda. L’auspicio di un rispetto dei «diritti universali» è stato espresso da Obama a proposito della Tunisia e dal Segretario di Stato Hillary Clinton riguardo all’Egitto diventando il concetto che ogni esponente del governo, dal vicepresidente Joe Biden al portavoce Robert Gibbs, ripete per commentare quanto sta avvenendo. L’origine di tale approccio è nel discorso che Obama pronunciò all’ateneo di Al-Azhar al Cairo il 4 giugno 2009 quando disse: «Credo fermamente che ogni popolo abbia diritto a dire ciò che pensa, a giudicare i suoi governanti, ad avere uno Stato di Diritto ed alla libertà di scegliere come vivere. Non sono solo idee americane ma diritti umani e per questo li sosteniamo ovunque». Il 44° Presidente degli Stati Uniti è convinto che nel mondo arabo e musulmano i cambiamenti democratici possono arrivare dall’interno - come avvenuto in Europa, Asia e Sud America - e per favorirli scommette sul sostegno all’idea di «diritti universali dell’individuo» connaturata alla Costituzione americana, sfruttando ogni occasione per far sapere ai popoli del Maghreb e del Medio Oriente che sono le «libertà di espressione, assemblea e fede» ad accomunare ogni essere umano.
In occasione delle proteste di piazza in Iran di due anni fa contro la rielezione di Mahmud Ahmadinejad, Obama scelse un profilo basso che politicamente lo fece apparire debole e non piacque agli americani ma ora l’approccio è rovesciato: il sostegno alle aspirazioni democratiche prevale sulla Realpolitik a conferma della scelta di individuare, anche nella politica estera, una terreno bipartisan con i repubblicani. Ciò non significa tuttavia sostenere sbrigativamente la rimozione di un leader alleato come Hosni Mubarak che, osserva l’arabista Juan Cole, «non è il tunisino Ben Alì», essendo l’Egitto la nazione più importante del mondo arabo.
La Casa Bianca teme che un crollo improvviso di Mubarak possa favorire i gruppi jihadisti, molto radicati nella terra natale di Ayman al Zawahiri vice di Bin Laden, e preme dunque per disinnescare la crisi attraverso un’accelerazione delle riforme proprio da parte di Mubarak, in vista delle imminenti presidenziali. Washington in queste ore sta facendo pressione per ottenere dal Cairo una svolta democratica - ovvero la garanzie di elezioni davvero libere - capace di porre fine agli scontri aprendo la strada alla transizione. Da qui l’attenzione della Casa Bianca per il ruolo delle forze armate egiziane - dal 1979 finanziate e armate dagli Stati Uniti - considerate in questo frangente come il baluardo contro un caos che potrebbe favorire i jihadisti. Resta da vedere se Mubarak farà ciò che Obama gli sta chiedendo.
E’ in questa cornice che la Casa Bianca di Barack Obama esprime due priorità nell’affrontare quanto sta avvenendo. Primo: far prevalere i diritti universali dell’individuo. Secondo: impedire che ad avvantaggiarsi della fase di instabilità siano le cellule jihadiste apparentate con Al Qaeda. L’auspicio di un rispetto dei «diritti universali» è stato espresso da Obama a proposito della Tunisia e dal Segretario di Stato Hillary Clinton riguardo all’Egitto diventando il concetto che ogni esponente del governo, dal vicepresidente Joe Biden al portavoce Robert Gibbs, ripete per commentare quanto sta avvenendo. L’origine di tale approccio è nel discorso che Obama pronunciò all’ateneo di Al-Azhar al Cairo il 4 giugno 2009 quando disse: «Credo fermamente che ogni popolo abbia diritto a dire ciò che pensa, a giudicare i suoi governanti, ad avere uno Stato di Diritto ed alla libertà di scegliere come vivere. Non sono solo idee americane ma diritti umani e per questo li sosteniamo ovunque». Il 44° Presidente degli Stati Uniti è convinto che nel mondo arabo e musulmano i cambiamenti democratici possono arrivare dall’interno - come avvenuto in Europa, Asia e Sud America - e per favorirli scommette sul sostegno all’idea di «diritti universali dell’individuo» connaturata alla Costituzione americana, sfruttando ogni occasione per far sapere ai popoli del Maghreb e del Medio Oriente che sono le «libertà di espressione, assemblea e fede» ad accomunare ogni essere umano.
In occasione delle proteste di piazza in Iran di due anni fa contro la rielezione di Mahmud Ahmadinejad, Obama scelse un profilo basso che politicamente lo fece apparire debole e non piacque agli americani ma ora l’approccio è rovesciato: il sostegno alle aspirazioni democratiche prevale sulla Realpolitik a conferma della scelta di individuare, anche nella politica estera, una terreno bipartisan con i repubblicani. Ciò non significa tuttavia sostenere sbrigativamente la rimozione di un leader alleato come Hosni Mubarak che, osserva l’arabista Juan Cole, «non è il tunisino Ben Alì», essendo l’Egitto la nazione più importante del mondo arabo.
La Casa Bianca teme che un crollo improvviso di Mubarak possa favorire i gruppi jihadisti, molto radicati nella terra natale di Ayman al Zawahiri vice di Bin Laden, e preme dunque per disinnescare la crisi attraverso un’accelerazione delle riforme proprio da parte di Mubarak, in vista delle imminenti presidenziali. Washington in queste ore sta facendo pressione per ottenere dal Cairo una svolta democratica - ovvero la garanzie di elezioni davvero libere - capace di porre fine agli scontri aprendo la strada alla transizione. Da qui l’attenzione della Casa Bianca per il ruolo delle forze armate egiziane - dal 1979 finanziate e armate dagli Stati Uniti - considerate in questo frangente come il baluardo contro un caos che potrebbe favorire i jihadisti. Resta da vedere se Mubarak farà ciò che Obama gli sta chiedendo.
«La Stampa» del 29 gennaio 2011
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