di Alessandro Spina
L’ultima volta avevo riletto Delitto e castigo almeno 25 anni fa. Tanto da ricordare solo l’essenziale: l’atmosfera e la tensione innanzi tutto, il protagonista, Sonia, Pietroburgo, il delitto... Ma avevo dimenticato i personaggi 'minori', come la madre di Sonia. È una fortuna dimenticare perché si ritrova una sorta di ingenuità (un libro di tale qualità si gode tuttavia anche sapendolo a memoria). All’inizio, un doppio del lettore, assai sciocco, ma accogliamolo con ironia, resta un po’ sulle sue, così si diceva un tempo, dinanzi all’insistenza ossessiva sullo sporco, i cattivi odori, il disordine eccetera. (E, sempre la mente va per vie traverse, pensa: ma dunque il capitalismo e la modernizzazione, di cui certo non siamo paladini, ha pur sottratto tanta gente alla miseria!). Più avanti, sempre quel lettore, confessa a voce bassa a se stesso che ha meno simpatia di un tempo per Raskòlnikov: dopotutto, nulla giustifica l’assassinio , né la povertà, né l’ideale... napoleonico, né la bruttezza della vittima eccetera. Ma la riserva è più sottile: dopo di allora (data della pubblicazione del romanzo, 1866) abbiamo visto in scena (pubblica o privata) una folla di Raskòlnikov, quindi non solo manca la novità, la scoperta del 'tipo', ma c’è il fastidio che le orribili repliche hanno lasciato in noi (basti pensare ai cosiddetti anni di piombo in Italia).
Naturalmente è una reazione che verrebbe definita (da chi?) borghese: ma io non ho mai detto che non sono un borghese (e non so davvero gli altri intellettuali cosa siano: aristocratici? popolo? trans-sociali?).
Per carità, sono 'riserve' minime, ma il lettore, importante, ha un’infinità di doppi, si legge in tanti.
C’è da aggiungere che, come diceva Hofmannsthal, ognuno conserva una sua propria innocenza , e Raskòlnikov ha una sua innocenza, ciò che fa la grandezza del personaggio. Fra i doppi (del lettore) c’era anche l’autore di romanzi (moi-même). Il quale dice che da Dostoevskij ha imparato molto, che è stato a scuola anche da lui: in maniera ovattata (siamo quasi sempre in salotto!), nei suoi racconti c’è, quando occorra, quel modo radicale di prendere la vita. Questo farà stupire l’eventuale mio lettore, ma cosa credi? dirà. Zitto, replico, non faccio paragoni, descrivo un itinerario, l’apprendistato dello scrittore (il quale ha l’obbligo di non essere la misera replica di nessuno).
D’altronde, tutti dobbiamo qualcosa a Dostoevskij. A margine dirò che mi hanno particolarmente stupito certi personaggi minori (e chiamali minori!), forse perché non li ricordavo, mentre R. è una vecchia conoscenza! C’è una vitalità, in quella mente, di Dostoevskij, che lascia esterrefatti, spaventati. A suo modo (siamo nel XIX secolo) è l’impronta dei tragici greci. Ho letto adesso l’epilogo. Del genio incandescente non rimane nulla, è un rendiconto ordinato, privo di quel ritmo rapinoso delle precedenti 516 pagine: sono appena 18 pagine ma il lettore le legge un po’ a fatica.
Tutto andava scritto più breve, senza più l’intento di narrare. Sembra di mano scolastica, come se il genio avesse lasciato l’opera incompiuta e un aiuto di bottega avesse messo tutto a posto, completando i destini. Ecco come si può parlare di Dostoevskij e di me romanziere: «Quel che faceva l’autore, lo fa ora il personaggio, illuminando se stesso da tutti i possibili punti di vista; l’autore non illumina più la realtà del personaggio, ma l’autocoscienza di lui, come realtà di second’ordine» (Bachtin: Dostoevskij, Einaudi).
Naturalmente è una reazione che verrebbe definita (da chi?) borghese: ma io non ho mai detto che non sono un borghese (e non so davvero gli altri intellettuali cosa siano: aristocratici? popolo? trans-sociali?).
Per carità, sono 'riserve' minime, ma il lettore, importante, ha un’infinità di doppi, si legge in tanti.
C’è da aggiungere che, come diceva Hofmannsthal, ognuno conserva una sua propria innocenza , e Raskòlnikov ha una sua innocenza, ciò che fa la grandezza del personaggio. Fra i doppi (del lettore) c’era anche l’autore di romanzi (moi-même). Il quale dice che da Dostoevskij ha imparato molto, che è stato a scuola anche da lui: in maniera ovattata (siamo quasi sempre in salotto!), nei suoi racconti c’è, quando occorra, quel modo radicale di prendere la vita. Questo farà stupire l’eventuale mio lettore, ma cosa credi? dirà. Zitto, replico, non faccio paragoni, descrivo un itinerario, l’apprendistato dello scrittore (il quale ha l’obbligo di non essere la misera replica di nessuno).
D’altronde, tutti dobbiamo qualcosa a Dostoevskij. A margine dirò che mi hanno particolarmente stupito certi personaggi minori (e chiamali minori!), forse perché non li ricordavo, mentre R. è una vecchia conoscenza! C’è una vitalità, in quella mente, di Dostoevskij, che lascia esterrefatti, spaventati. A suo modo (siamo nel XIX secolo) è l’impronta dei tragici greci. Ho letto adesso l’epilogo. Del genio incandescente non rimane nulla, è un rendiconto ordinato, privo di quel ritmo rapinoso delle precedenti 516 pagine: sono appena 18 pagine ma il lettore le legge un po’ a fatica.
Tutto andava scritto più breve, senza più l’intento di narrare. Sembra di mano scolastica, come se il genio avesse lasciato l’opera incompiuta e un aiuto di bottega avesse messo tutto a posto, completando i destini. Ecco come si può parlare di Dostoevskij e di me romanziere: «Quel che faceva l’autore, lo fa ora il personaggio, illuminando se stesso da tutti i possibili punti di vista; l’autore non illumina più la realtà del personaggio, ma l’autocoscienza di lui, come realtà di second’ordine» (Bachtin: Dostoevskij, Einaudi).
«Avvenire» del 25 gennaio 2011
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