Lo scrittore ha compiuto 90 anni. Ma l’establishment culturale ancora lo ignora. Le sue colpe? E' stato anticomunista, è cattolico e ha creato un capolavoro del Novecento
di Luca Doninelli
In questi giorni ha compiuto novant’anni uno dei personaggi più grandi e misteriosi della letteratura italiana dell’ultimo mezzo secolo: Eugenio Corti. Sono diverse, in Italia, e specialmente in letteratura, le figure difficili da catturare secondo i parametri storico-letterari vigenti - le figure, voglio dire, di cui si riconosce il valore, questo sì, ma per aggiungere però, subito dopo, che sono «di difficile collocazione», come se il problema fosse quello di collocarli, di prender loro le misure: cosa che si fa, solitamente, quando si deve fabbricare una bara.
Ma il caso di Eugenio Corti è comunque il più emblematico di tutti, perché Eugenio Corti ha commesso l’errore più imperdonabile: quello di avere scritto il capolavoro che tutti i letterati italiani aspettavano. Chi scriverà il capolavoro?, si domandavano spesso i critici, fino a qualche tempo fa, ma intanto ciascuno faceva dentro di sé tre o quattro nomi dei papabili, perché è bello attendersi sorprese, ma fino a un certo punto. La nostra cultura si presenta affetta da una strana malattia: quella delle cose fatte sempre «fino a un certo punto». Provocazione, genio, spregiudicatezza, abnormità: tutto va bene, ma a patto di emanare un certo profumo, di stare dalla parte giusta, di essere bellino. Peccato che spesso il genio sia brutto, cattivo e anche puzzolente: o ripugnante. Impresentabile. Goffo. Non dico sempre, ma a volte sì, altroché.
Eugenio Corti ha accumulato una bella filza di peccati mortali. Tanto per cominciare è cattolico, poi è sempre stato anticomunista (una cosa, questa, che, ho notato, irrita spesso più gli excomunisti o gli ex-sedicenti comunisti che non i comunisti veri). In terzo luogo, ha usato cattolicesimo e anticomunismo per scrivere un capolavoro immortale, Il cavallo rosso , apparso nel 1983, al quale la critica ha reagito girandosi dall’altra parte, facendo finta di non aver sentito, capito, visto.
C’è anche il fatto che Corti è un narratore puro, uno cioè che racconta i fatti, presentando la realtà degli uomini e delle cose con rispetto, attenzione e amore, senza mai spaventarsi di fronte alla loro complessità, organizzando a questo scopo una macchina narrativa potente e molto raffinata. Non è mai preoccupato di mostrare al mondo quanto è intelligente, perché tutta la sua intelligenza si consuma nellosforzo di far vivere personaggi e oggetti (perché in narrativa anche i sassi devono essere pieni di vita).
Le sue pietre di paragone non sono Don DeLillo o Ian McEwan, ma Omero e Tolstoj, e l’accusa che qualcuno gli muove (quando si degna di parlare di lui) che la sua letteratura è vecchia, che oggi non si scrive più così, gli fa lo stesso effetto che doveva fare su Tolstoj, o su Omero.
Vi basti leggere, in proposito, l’incipit maestoso del Cavallo Rosso per capire di che si tratta. Due uomini, un padre e un figlio, falciano un campo d’erba: lo scrittore li segue pazientemente, con rispetto, segue il cavallo legato che bruca i ramoscelli degli alberi, segue i gesti dei due uomini mentre affilano le loro falci. Sono due persone buone. Nubi si addensano all’orizzonte, lo scrittore ce le fa vedere quasi senza parlarne: ma ci sono. Il grande scrittore ti fa vedere anche le cose che non nomina, ma che sono lì, presenti, mute ma reali. Ma nella scena di questa mietitura circola anche un’aria di cose ultime,come se questi due uomini fossero un’immagine passeggera ma reale - del Padre e del Figlio che, un giorno, mieteranno anche ciò che non hanno seminato. Cioè la storia.
Ma, per tornare a noi, può anche darsi che il peccato d’origine sia di tipo editoriale, ossia il fatto che nessuno degli editori del giro che conta pubblica Corti, bensì un editore piccolo e maledettamente schierato come Ares, parrocchia Opus Dei, diretta da un altro ragazzo terribile, Cesare Cavalleri, il genio della stroncatura. Tutta gente poco presentabile. Per fortuna ce n’è qualcuno, in questo mondo di belli biondi e palestrati.
C’è, insomma, di che riflettere sui complicati meccanismi di rimozione che muovono la nostra cultura. In qualche modo - spero di non attirare le maledizioni del Grande Vecchio esiste uno strano legame tra Corti e il suo esatto contrario, Roberto Saviano. Uno vecchio, l’altro giovane. Uno ha scritto un capolavoro ed è ignorato, l’altro non ha scritto nessun capolavoro ed è pluripremiato nei campi più diversi: dal cinema al teatro alla laurea honoris causa in Legge. Presto, sembra, gli assegneranno anche il Fifa World Player o la Coppa Davis. Eppure Eugenio Corti e Roberto Saviano appartengono ambedue a una vicenda di rimozione curiosa e singolare. Questo affrettarsi a dare a Saviano tutti i premi possibili, com’è simile al silenzio imbarazzato che circonda Corti! Quanto malessere si respira in tutti e due i casi!
Ogni cultura ha i suoi divieti, i suoi tabù, i suoi codici da trasgredire, ma le rimozioni di quella italiana sono tali da farle rischiare l’immobilità assoluta. Oggi molti sono convinti che non ci sia più nulla da trasgredire, ma così dicendo mentono sapendo di mentire: il nostro è un Paese totalmente immerso- dal punto di vista culturale - in un terrore di cui non vuole ammettere l’esistenza. La paura si legge in tutte le sue manifestazioni, dai festival ai premi, dai film agli spettacoli che vanno per la maggiore. La paura del presente, del futuro, il sospetto di non saper far fronte agli eventi che verranno, di non avere una posizione forte di fronte a nulla...
E non si dica che è colpa delle tendenze del mercato. Oggi lo diciamo per giustificare il fatto che non siamo più nemmeno capaci di attendere il capolavoro, ma è una scusa, perché tutti sappiamo che il mercato è grossolano: non è un buongustaio e mangia sempre quello che gli si dà da mangiare.
Ma il caso di Eugenio Corti è comunque il più emblematico di tutti, perché Eugenio Corti ha commesso l’errore più imperdonabile: quello di avere scritto il capolavoro che tutti i letterati italiani aspettavano. Chi scriverà il capolavoro?, si domandavano spesso i critici, fino a qualche tempo fa, ma intanto ciascuno faceva dentro di sé tre o quattro nomi dei papabili, perché è bello attendersi sorprese, ma fino a un certo punto. La nostra cultura si presenta affetta da una strana malattia: quella delle cose fatte sempre «fino a un certo punto». Provocazione, genio, spregiudicatezza, abnormità: tutto va bene, ma a patto di emanare un certo profumo, di stare dalla parte giusta, di essere bellino. Peccato che spesso il genio sia brutto, cattivo e anche puzzolente: o ripugnante. Impresentabile. Goffo. Non dico sempre, ma a volte sì, altroché.
Eugenio Corti ha accumulato una bella filza di peccati mortali. Tanto per cominciare è cattolico, poi è sempre stato anticomunista (una cosa, questa, che, ho notato, irrita spesso più gli excomunisti o gli ex-sedicenti comunisti che non i comunisti veri). In terzo luogo, ha usato cattolicesimo e anticomunismo per scrivere un capolavoro immortale, Il cavallo rosso , apparso nel 1983, al quale la critica ha reagito girandosi dall’altra parte, facendo finta di non aver sentito, capito, visto.
C’è anche il fatto che Corti è un narratore puro, uno cioè che racconta i fatti, presentando la realtà degli uomini e delle cose con rispetto, attenzione e amore, senza mai spaventarsi di fronte alla loro complessità, organizzando a questo scopo una macchina narrativa potente e molto raffinata. Non è mai preoccupato di mostrare al mondo quanto è intelligente, perché tutta la sua intelligenza si consuma nellosforzo di far vivere personaggi e oggetti (perché in narrativa anche i sassi devono essere pieni di vita).
Le sue pietre di paragone non sono Don DeLillo o Ian McEwan, ma Omero e Tolstoj, e l’accusa che qualcuno gli muove (quando si degna di parlare di lui) che la sua letteratura è vecchia, che oggi non si scrive più così, gli fa lo stesso effetto che doveva fare su Tolstoj, o su Omero.
Vi basti leggere, in proposito, l’incipit maestoso del Cavallo Rosso per capire di che si tratta. Due uomini, un padre e un figlio, falciano un campo d’erba: lo scrittore li segue pazientemente, con rispetto, segue il cavallo legato che bruca i ramoscelli degli alberi, segue i gesti dei due uomini mentre affilano le loro falci. Sono due persone buone. Nubi si addensano all’orizzonte, lo scrittore ce le fa vedere quasi senza parlarne: ma ci sono. Il grande scrittore ti fa vedere anche le cose che non nomina, ma che sono lì, presenti, mute ma reali. Ma nella scena di questa mietitura circola anche un’aria di cose ultime,come se questi due uomini fossero un’immagine passeggera ma reale - del Padre e del Figlio che, un giorno, mieteranno anche ciò che non hanno seminato. Cioè la storia.
Ma, per tornare a noi, può anche darsi che il peccato d’origine sia di tipo editoriale, ossia il fatto che nessuno degli editori del giro che conta pubblica Corti, bensì un editore piccolo e maledettamente schierato come Ares, parrocchia Opus Dei, diretta da un altro ragazzo terribile, Cesare Cavalleri, il genio della stroncatura. Tutta gente poco presentabile. Per fortuna ce n’è qualcuno, in questo mondo di belli biondi e palestrati.
C’è, insomma, di che riflettere sui complicati meccanismi di rimozione che muovono la nostra cultura. In qualche modo - spero di non attirare le maledizioni del Grande Vecchio esiste uno strano legame tra Corti e il suo esatto contrario, Roberto Saviano. Uno vecchio, l’altro giovane. Uno ha scritto un capolavoro ed è ignorato, l’altro non ha scritto nessun capolavoro ed è pluripremiato nei campi più diversi: dal cinema al teatro alla laurea honoris causa in Legge. Presto, sembra, gli assegneranno anche il Fifa World Player o la Coppa Davis. Eppure Eugenio Corti e Roberto Saviano appartengono ambedue a una vicenda di rimozione curiosa e singolare. Questo affrettarsi a dare a Saviano tutti i premi possibili, com’è simile al silenzio imbarazzato che circonda Corti! Quanto malessere si respira in tutti e due i casi!
Ogni cultura ha i suoi divieti, i suoi tabù, i suoi codici da trasgredire, ma le rimozioni di quella italiana sono tali da farle rischiare l’immobilità assoluta. Oggi molti sono convinti che non ci sia più nulla da trasgredire, ma così dicendo mentono sapendo di mentire: il nostro è un Paese totalmente immerso- dal punto di vista culturale - in un terrore di cui non vuole ammettere l’esistenza. La paura si legge in tutte le sue manifestazioni, dai festival ai premi, dai film agli spettacoli che vanno per la maggiore. La paura del presente, del futuro, il sospetto di non saper far fronte agli eventi che verranno, di non avere una posizione forte di fronte a nulla...
E non si dica che è colpa delle tendenze del mercato. Oggi lo diciamo per giustificare il fatto che non siamo più nemmeno capaci di attendere il capolavoro, ma è una scusa, perché tutti sappiamo che il mercato è grossolano: non è un buongustaio e mangia sempre quello che gli si dà da mangiare.
«Il Giornale» del 26 gennaio 2011
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