Molti, troppi si ispirano alla concezione della moralità propria dello Stato etico
di Piero Ostellino
Hanno sbagliato slogan - «intercettateci tutti» - e, ora, se ne vergognano, per giustificarsi dicono che è un paradosso, ne adottano un altro e se la prendono con chi glielo fa notare. Ma il nuovo slogan - «chi non ha nulla da nascondere non ha nulla da temere» - è peggio del primo, perché è lo stesso che usano tutti i regimi totalitari per giustificare lo Stato di polizia. Che avrebbero detto se, ad aver adottato «il paradosso», fosse stato il centrodestra? Penso di aver toccato un nervo scoperto. Per aver messo a confronto, in un editoriale in tv, come già avevo fatto sul Corriere, il progetto di legge governativo - sbagliato soprattutto nella parte che riguarda le sanzioni ai giornalisti e ai loro editori - e lo slogan, altrettanto sbagliato, ho ricevuto un buon numero di email di insulti. Tutte pressoché uguali - a dimostrazione che viaggiano in branco, come si muovevano le squadracce fasciste - perché palesemente ispirate da una stessa fonte. In attesa (per ora?) di passare all'olio di ricino, o peggio. Se non vivessi gran parte dell'anno all'estero temerei seriamente per la mia sicurezza. C'è un filo «nero» che percorre la storia di questo nostro disgraziato Paese dall'inizio degli anni Venti del Novecento ad oggi: è il fascismo, quali siano le sembianze che, di volta in volta, assume, non ultima quella di un certo antifascismo. Le parole ricorrenti, indipendentemente dalle circostanze, sono quelle del fascismo: ordine e disciplina; in nome di una concezione della moralità che è poi quella dello Stato etico. Personalmente, non mi piacciono certi magistrati - che si credono «inviati di Dio sulla Terra» per redimere gli uomini e impugnano il Codice come il prete combatte il peccato - ma, ciò nonostante, penso che essi non si meritino questi loro difensori dei quali mi chiedo se, almeno in cuor loro, non si vergognino. Se appartenessi all'Associazione nazionale dei magistrati chiederei di prenderne le distanze. Un conto è avere una concezione provvidenzialistica della Storia o palingenetica della Giustizia - che è sbagliata, ma pur sempre l'indotto culturale di un certa «idea degli uomini» che ha cittadinanza nella storia del pensiero politico, da Platone a Hegel a Marx - un altro affidare la difesa delle proprie ragioni a chi fa della diffamazione una professione e dell'aggressione un metodo. Il guaio è che a fondamento del modo di pensare anche di molti italiani «moderati» ci sono gli stessi principi. L'ho constato dalle email che ricevo dopo il mio articolo sull'«ossessione dei divieti» (Corriere di mercoledì). Intendiamoci. Qui, nessun insulto, cortesia, rispetto, buonafede, ma lo stesso motivo conduttore: lo Stato come ordinatore dei comportamenti individuali, il governo come strumento di civilizzazione - in fondo, la stessa funzione che gli squadristi assegnano alla magistratura - perché, da soli, noi italiani non saremmo capaci di cavarcela. Ma la sfiducia nella razionalità dei comportamenti individuali è stata all'origine della crisi delle democrazie nel secolo scorso. La nostra democrazia non è granché, riflette quella sfiducia, che sta persino scritta nella Prima parte della Costituzione. Ma dipende solo da noi - crescendo noi stessi - adeguarla ai tempi e farla crescere. Dovremmo rifletterci tutti.
«Corriere della Sera» del 10 luglio 2010
Nessun commento:
Posta un commento