I progressisti tendono a subordinare la politica al raggiungimento di finalità sociali o etiche.
L'ossessione (pubblica) dei divieti
di Piero Ostellino
Siamo oppressi dai divieti e già se ne profilano altri. Di fumare: nei bar, nei ristoranti, nei cinema, nei teatri, nelle carceri, nei luoghi di lavoro, alle fermate degli autobus, sulle banchine delle stazioni, nei parchi, sulle spiagge, nelle strade del centro (di certe città), in panchina nei campi di calcio, in auto con autista; in prospettiva anche senza autista, in casa propria se in un condominio. Di bere: manco una goccia, quando si guida, se si ha la patente da meno di tre anni. In auto: di superare i 130 o i 150 nei tratti col Tutor, anche se su un'autostrada a tre corsie, deserta. L'Unione europea ha persino provato - fortunatamente, per ora, senza riuscirci - a vietare la Nutella perché, sostengono a Bruxelles come se noi non lo sapessimo, ingrassa, e altri cibi perché alzano il colesterolo. Alcuni di questi divieti hanno, se non altro, un fondamento scientifico; altri sono solo ridicoli, oltre che vessatori, frutto della vocazione per i regolamenti di legislatori e/o funzionari pubblici spesso unicamente desiderosi di dimostrare che si stanno guadagnando i soldi che percepiscono (dalle nostre tasse). Tutti sono figli dell'ossessione di proteggere la nostra salute dall'alcol e quella dei vicini dal fumo, nonché la sicurezza degli altri automobilisti da quelli che vanno forte (come se un pericolo non lo fossero anche quelli che vanno piano e i limiti di velocità fossero stati imposti non per il nostro bene, ma per risparmiare energia dopo lo shock petrolifero del 1973). Ma che cos'è un divieto come quelli? È - secondo la teoria economica della proibizione - un atto pubblico tendente a bloccare lo scambio di un bene o di un servizio fra individui adulti, responsabili e consenzienti. Non è un caso che, negli Stati Uniti, l'Era progressista (1900-1920) abbia segnato il momento più alto del proibizionismo. «Mai - si è detto - ci fu un imbroglio così grande perpetrato da pochissimi a danno di moltissimi». Alcuni economisti sostengono, infatti, che ogni danno alla società provocato dalle politiche governative sia l'effetto di un'attività di rent-seeking, cioè della ricerca di privilegi e di profitti, da parte di alcuni interessi organizzati (le lobby), mediante la politica. Entra in gioco, qui, la contrapposizione tra le policies liberal o socialistiche - che subordinano la politica al raggiungimento di finalità sociali e/o etiche - e quelle liberali, che ne valutano i costi in termini di incremento del potere politico a scapito delle libertà individuali e collettive. La cultura razionalistico-costruttivista, liberal o socialista, è per il diritto come produzione legislativa (le mutevoli maggioranze politiche che, in Parlamento, fanno leggi che riguardano anche la vita privata dei cittadini); è per l'interventismo dello Stato, e la sua mitizzazione, come ordinatore dei comportamenti individuali; è per il governo come strumento di civilizzazione. La cultura liberale concepisce il diritto come «richiesta di un comportamento altrui corrispondente ad un nostro interesse», come equilibrio e scambio fra «soggettive esigenze individuali» che si concretano nella Legge intesa quale costume e tradizione.
«Corriere della Sera» del 7 luglio 2010
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