I progressisti invocano lo Stato di polizia, i moderati il demiurgo
di Piero Ostellino
Quando il popolo pensa che la politica sia una cosa sporca, la democrazia vacilla. Non precipita nella dittatura solo perché la «benevolenza delle circostanze» - Paese inserito in un contesto internazionale liberal-democratico, istituzioni consolidate, stabilità sociale ed economica, benessere diffuso - e l'apatia del popolo lo impediscono. In politica ci si sporcano le mani - nel senso che si fanno cose che la morale dell'uomo comune esclude - ma ciò non significa che la politica sia una cosa sporca o che lo siano i politici che, in modo trasparente, si sporcano le mani. La politica non è una cosa sporca, ma tutto ciò che riguarda la polis, il cittadino, le forme della convivenza. Che, poi, ci siano malfattori (anche) fra gli uomini politici è nella natura umana; che non è angelica. Ad essi provvedono i carabinieri. Si tratta, perciò, di distinguere fra reati giudiziariamente perseguibili e comportamenti politicamente censurabili sui quali il popolo deve avere il diritto di far pesare il proprio giudizio politico. Ma che fanno la scuola, i politici, i media per spiegare al popolo queste elementari nozioni di cultura politica? Per anni, dall'opposizione, il Partito comunista ha detto agli italiani che erano governati da una banda di malfattori; il pregiudizio è diventato permanente sentimento collettivo. Gli uomini di governo hanno badato solo alla gestione del potere, ingenerando la sensazione che solo di quello si preoccupino; anche questo pregiudizio è diventato permanente sentimento collettivo. I media non distinguono fra sporcarsi le mani - i comportamenti esposti al giudizio politico - e malaffare, penalmente perseguibile, finendo col delegittimare, con l'intera classe politica, la politica stessa. L'Italia progressista invoca lo Stato di polizia («intercettateci tutti»); quella moderata confida nel demiurgo. Diffidano entrambe della democrazia. Pensano si possa fare a meno della politica e sostituirla o con i carabinieri o con «un uomo solo al comando». Eppure, spunti di riflessione per una seria critica del funzionamento della nostra democrazia ci sono. Con la Costituzione del 1948, interessi legittimi - una categoria dottrinale solo italiana, comparsa nel 1889 (legge Crispi) - e diritti soggettivi, quali la proprietà privata e la libertà economica, sono messi sullo stesso piano, così che i diritti possono essere trattati come interessi e degradati dal «superiore» interesse pubblico. «Pare una questione tecnica - dice Giovanni Cofrancesco, docente di Diritto amministrativo a Genova - e invece fa tutta la differenza fra uno Stato liberale e uno che liberale non è». Su certe leggi approvate dal Parlamento, sulle politiche dei governi, su alcune sentenze della Corte Costituzionale ci sarebbe molto da dire. Ma nessuno ne parla. Si fa scandalismo sui privilegi e i vizi della Casta, senza indagarne, e spiegarne, le cause istituzionali. La denuncia tracima nella demagogia che - inquinando il giudizio sul funzionamento della democrazia - la indebolisce agli occhi del cittadino. Si difendono, così, di fatto, gli arcana imperii del potere pubblico e privato, sui quali ci si guarda dall' indagare. Se gli italiani non sanno che cosa sia la democrazia liberale non è anche colpa nostra, di noi giornalisti?
«Corriere della Sera» del 3 luglio 2010
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