di Luigino Bruni
«L’Italia fatta in casa» (Mondadori) degli economisti Alberto Alesina e Andrea Ichino è un libro pieno di dati importanti, sui quali è bene riflettere, magari per giungere a conclusioni di 'policy' diverse da quelle proposte dagli autori. La tesi del libro è che l’arretratezza economica dell’Italia è principalmente arretratezza culturale, dovuta alla nostra tradizione famigliare che porta le donne a svolgere la gran parte dei lavori domestici e di cura e per questo a lavorare troppo poco 'fuori casa', nel mercato.
Da qui la ricetta: ridurre le tasse sul reddito del lavoro femminile, in modo da creare gli incentivi affinché le donne lavorino di più. È innegabile che in Italia ancora oggi esista una significativa asimmetria nelle opportunità di sviluppo professionale tra gli uomini e le donne, e che interventi legislativi, economici e sociali che facilitino il lavoro femminile nel mercato, e che quindi riequilibrino i pesi relativi del lavoro domestico, non siano soltanto opportuni, ma necessari e urgenti. Da questo punto di vista, allora, questo libro può svolgere un importante ruolo nell’alimentare un dibattito di civiltà quanto mai rilevante. Però è sottesa una visione culturale che vede nei legami forti, soprattutto quelli famigliari e comunitari, il principale fardello sociale dell’Italia e della cultura mediterranea rispetto ai Paesi nordici più sviluppati economicamente e civilmente.
Ci sono anche affermazioni che tendono a smorzare questa tesi radicale, ma l’impostazione generale del saggio è coerente con quella tesi: se saremo capaci di abbandonare il modello di famiglia italiano e imitare i modelli sociali norvegesi o danesi, diventeremo finalmente un Paese post-moderno, democratico, più ricco, e magari più felice. Questa tesi non convince non solo perché questa grande felicità 'nordica' non esiste, ma soprattutto per l’assenza di un’idea di famiglia come soggetto collettivo: per gli autori la famiglia è essenzialmente una somma di individui separati. Non si vedono rapporti, ma individui. Da qui la loro critica alla proposta del 'quoziente familiare', in base al quale i redditi dei coniugi verrebbero tassati come media di un reddito congiunto: «Se riteniamo che la partecipazione al lavoro delle donne sia un obiettivo importante per il nostro Paese, è evidente che il metodo del quoziente familiare ci allontana da questo obiettivo, e la tassazione disgiunta sarebbe preferibile». La tassazione disgiunta vede la coppia come un uomo e una donna disgiunti; ma la famiglia è soprattutto un patto che fa di due persone disgiunte un soggetto collettivo, nel quale le decisioni si discutono e poi si prendono assieme, comprese quelle lavorative. Allevare ed educare un bambino, soprattutto nei primissimi anni di vita, non è una faccenda privata dei genitori o della madre, non è una 'merce' come i trasporti e le pulizie domestiche che si possono comprare e vendere con efficienza in base al solo gioco della domanda e dell’offerta. Oggi la migliore teoria economica lo riconosce, quando legge la famiglia come produttrice non solo di servizi ma anche di 'beni relazionali' (che sono beni ma non sono merci), e quando mostra (vedi il Nobel Heckman) che i primissimi anni di vita sono quelli da cui più dipende il successo anche economico delle persone. Prima di qualunque riforma economica e fiscale sulla famiglia italiana, questa va riconosciuta come una grande risorsa e patrimonio civile, e solo dopo curata nei suoi problemi.
Da qui la ricetta: ridurre le tasse sul reddito del lavoro femminile, in modo da creare gli incentivi affinché le donne lavorino di più. È innegabile che in Italia ancora oggi esista una significativa asimmetria nelle opportunità di sviluppo professionale tra gli uomini e le donne, e che interventi legislativi, economici e sociali che facilitino il lavoro femminile nel mercato, e che quindi riequilibrino i pesi relativi del lavoro domestico, non siano soltanto opportuni, ma necessari e urgenti. Da questo punto di vista, allora, questo libro può svolgere un importante ruolo nell’alimentare un dibattito di civiltà quanto mai rilevante. Però è sottesa una visione culturale che vede nei legami forti, soprattutto quelli famigliari e comunitari, il principale fardello sociale dell’Italia e della cultura mediterranea rispetto ai Paesi nordici più sviluppati economicamente e civilmente.
Ci sono anche affermazioni che tendono a smorzare questa tesi radicale, ma l’impostazione generale del saggio è coerente con quella tesi: se saremo capaci di abbandonare il modello di famiglia italiano e imitare i modelli sociali norvegesi o danesi, diventeremo finalmente un Paese post-moderno, democratico, più ricco, e magari più felice. Questa tesi non convince non solo perché questa grande felicità 'nordica' non esiste, ma soprattutto per l’assenza di un’idea di famiglia come soggetto collettivo: per gli autori la famiglia è essenzialmente una somma di individui separati. Non si vedono rapporti, ma individui. Da qui la loro critica alla proposta del 'quoziente familiare', in base al quale i redditi dei coniugi verrebbero tassati come media di un reddito congiunto: «Se riteniamo che la partecipazione al lavoro delle donne sia un obiettivo importante per il nostro Paese, è evidente che il metodo del quoziente familiare ci allontana da questo obiettivo, e la tassazione disgiunta sarebbe preferibile». La tassazione disgiunta vede la coppia come un uomo e una donna disgiunti; ma la famiglia è soprattutto un patto che fa di due persone disgiunte un soggetto collettivo, nel quale le decisioni si discutono e poi si prendono assieme, comprese quelle lavorative. Allevare ed educare un bambino, soprattutto nei primissimi anni di vita, non è una faccenda privata dei genitori o della madre, non è una 'merce' come i trasporti e le pulizie domestiche che si possono comprare e vendere con efficienza in base al solo gioco della domanda e dell’offerta. Oggi la migliore teoria economica lo riconosce, quando legge la famiglia come produttrice non solo di servizi ma anche di 'beni relazionali' (che sono beni ma non sono merci), e quando mostra (vedi il Nobel Heckman) che i primissimi anni di vita sono quelli da cui più dipende il successo anche economico delle persone. Prima di qualunque riforma economica e fiscale sulla famiglia italiana, questa va riconosciuta come una grande risorsa e patrimonio civile, e solo dopo curata nei suoi problemi.
«Avvenire» del 4 febbraio 2010
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