Intervista ad Alessandro D'Avenia, insegnante, scrittore e aspirante enfant prodige. Nel romanzo d'esordio fa parlare i suoi studenti
di Paolo Bianchi
A 32 anni, Alessandro D’Avenia, cresciuto a Palermo e ora residente a Milano, è il nuovo enfant prodige dotato di marchio di produzione Arnoldo Mondadori Editore. Il suo romanzo d’esordio, dal titolo fiabesco Bianca come il latte, rossa come il sangue (pagg. 254, euro 19), prende le mosse da una situazione scolastica, o meglio da racconti che gli sono stati affidati e ispirati da studenti ai quali insegnava, dapprima come supplente e tirocinante, poi come professore di ruolo alle superiori. Stile e linguaggio non strizzano l’occhio a una tradizione letteraria troppo alta. Si tratta di un racconto adolescenziale, in prima persona, con un protagonista innamorato di una lei fatalmente ammalata. Vediamo dunque di farci un’idea di questo giovane autore dall’eloquio entusiasta e l’aspetto del bravo ragazzo vagamente angelicato.
Insegnare in un liceo è sempre stato il suo sogno, ci dice subito. Lo ha perseguito attraverso la necessaria trafila dei nostri giorni: laurea in Lettere classiche e poi un biennio di specializzazione in didattica, obbligatorio, che egli ricorda ancora come una specie di incubo surreale: si chiama Scuola di Specializzazione per l’Insegnamento Superiore - spiega - comunemente detta Ssis. Adesso per fortuna la procedura è stata riformata. Quando l’ho fatto io comprendeva 400 ore di tirocinio, con affiancamento a docenti esperti, utile per capire se uno è portato a insegnare, perché si tratta di un’attività che richiede una certa attitudine alle relazioni umane...».
E la parte che non funzionava di questo corso qual era?
«La parte teorica. Un massacro. Lezioni tenute da cattedratici privi del minimo contatto con la realtà. Entrava uno e ci faceva un’ora di sociologia. Un altro, un’ora di psicologia. Tutto un po’ sulle nuvole. L’impressione finale era di ritrovarsi in mano un sacchetto di coriandoli. Lezioni a altissima quota teorica, peccato che mancasse la presa a terra».
Niente, insomma, che equivalesse all’esperienza sul campo?
«Assolutamente niente. I miei amici e colleghi e io ci sentivamo come imprigionati in una strettoia. Invece per me l’insegnamento è ben altro. L’insegnamento è riuscire a spiegare Dante anche alle medie, a ragazzini di dodici anni. E se non hai un qualche contatto con la realtà, semplicemente non ci riesci».
Insomma, una visione non solo idealistica, ma anche pragmatica dell’insegnamento...
«Sì, e invece noi ricevevamo nozioni deliranti, del tipo: se fate un errore mentre spiegate e un vostro allievo se ne accorge e vi corregge, voi dovete negare, andare avanti e far finta che sia giusto, per non perdere autorevolezza».
In effetti sembra una scempiaggine. A parte che ricorda la giustificazione dell’adultero colto sul fatto: “Cara, non è come sembra!”.
«Appunto. Ma le sembra normale che una classe insegnante venga formata con questi criteri?».
Ma veniamo alla sua attività di scrittura. Come è arrivato a concepire questo romanzo?
«Come si sarà gia capito, c’entra sempre la scuola. Avevo 27 anni, a Roma, mi toccava una supplenza di un’ora al liceo Dante. La situazione rischiava di degenerare perché un giovane professore di passaggio non è preso nella minima considerazione dagli studenti. Allora ho deciso di convincere i ragazzi a raccontarmi qualche storia di vita vissuta. Lo hanno fatto. Mi sono accorto che quelle narrazioni si conciliavano col mio desiderio di scrivere, un sogno che coltivavo da molto tempo. Poi, una volta conseguita l’abilitazione, mi sono trovato una supplenza di un anno a Milano, e nel frattempo ho frequentato il corso di sceneggiatura dell’università Cattolica. A cinque anni di distanza da quell’“illuminazione” il romanzo era finito».
Il protagonista, Leo, è un sedicenne ingenuo e un po’ pasticcione, che vuole fare lo scrittore. Lo stile è molto semplice. Perché?
«Vorrei che sembrasse reale. Questo m’interessa. Anche i sogni dei ragazzi devono avere sempre un aggancio con la realtà».
Pensa di mettersi a fare lo scrittore a tempo pieno?
«No, perché se non sto con i ragazzi non ho niente da raccontare».
Vengono in mente alcuni precedenti degli anni scorsi: Domenico Starnone, Paola Mastrocola... Li ha letti?
«Sì, ma poi ho ceduto a influenze più cinematografiche, per esempio L’attimo fuggente e, in una certa misura, il recente film francese La classe. Per il resto, ho guardato anche a Dostoevskij e Grossman».
Le classi in cui insegna ora sono miste? Ci sono figli di immigrati?
«Non molti. Adesso insegno in una scuola privata e quella è una situazione più facilmente riscontrabile nella scuola pubblica. Però qualche studente figlio di genitori stranieri c’è».
Lo sa che adesso le toccherà sopportare il confronto con Paolo Giordano e Federico Moccia? Anzi, è già cominciato.
«Lo so, ma io non mi sento più vicino all’uno o all’altro. Io desidero un’identità che sia la mia: un reale Alessandro D’Avenia».
Lo sa che le toccherà affrontare il teatrino dei premi letterari?
«Se volessi fare finta di essere un idealista assoluto potrei risponderle che la mia vita non si fonda certo su quello. Invece dico che, se un premio venisse e lo sentissi meritato, lo accetterei volentieri. Però posso anche farne a meno, in fondo sono vissuto bene fino adesso facendone senza».
Insegnare in un liceo è sempre stato il suo sogno, ci dice subito. Lo ha perseguito attraverso la necessaria trafila dei nostri giorni: laurea in Lettere classiche e poi un biennio di specializzazione in didattica, obbligatorio, che egli ricorda ancora come una specie di incubo surreale: si chiama Scuola di Specializzazione per l’Insegnamento Superiore - spiega - comunemente detta Ssis. Adesso per fortuna la procedura è stata riformata. Quando l’ho fatto io comprendeva 400 ore di tirocinio, con affiancamento a docenti esperti, utile per capire se uno è portato a insegnare, perché si tratta di un’attività che richiede una certa attitudine alle relazioni umane...».
E la parte che non funzionava di questo corso qual era?
«La parte teorica. Un massacro. Lezioni tenute da cattedratici privi del minimo contatto con la realtà. Entrava uno e ci faceva un’ora di sociologia. Un altro, un’ora di psicologia. Tutto un po’ sulle nuvole. L’impressione finale era di ritrovarsi in mano un sacchetto di coriandoli. Lezioni a altissima quota teorica, peccato che mancasse la presa a terra».
Niente, insomma, che equivalesse all’esperienza sul campo?
«Assolutamente niente. I miei amici e colleghi e io ci sentivamo come imprigionati in una strettoia. Invece per me l’insegnamento è ben altro. L’insegnamento è riuscire a spiegare Dante anche alle medie, a ragazzini di dodici anni. E se non hai un qualche contatto con la realtà, semplicemente non ci riesci».
Insomma, una visione non solo idealistica, ma anche pragmatica dell’insegnamento...
«Sì, e invece noi ricevevamo nozioni deliranti, del tipo: se fate un errore mentre spiegate e un vostro allievo se ne accorge e vi corregge, voi dovete negare, andare avanti e far finta che sia giusto, per non perdere autorevolezza».
In effetti sembra una scempiaggine. A parte che ricorda la giustificazione dell’adultero colto sul fatto: “Cara, non è come sembra!”.
«Appunto. Ma le sembra normale che una classe insegnante venga formata con questi criteri?».
Ma veniamo alla sua attività di scrittura. Come è arrivato a concepire questo romanzo?
«Come si sarà gia capito, c’entra sempre la scuola. Avevo 27 anni, a Roma, mi toccava una supplenza di un’ora al liceo Dante. La situazione rischiava di degenerare perché un giovane professore di passaggio non è preso nella minima considerazione dagli studenti. Allora ho deciso di convincere i ragazzi a raccontarmi qualche storia di vita vissuta. Lo hanno fatto. Mi sono accorto che quelle narrazioni si conciliavano col mio desiderio di scrivere, un sogno che coltivavo da molto tempo. Poi, una volta conseguita l’abilitazione, mi sono trovato una supplenza di un anno a Milano, e nel frattempo ho frequentato il corso di sceneggiatura dell’università Cattolica. A cinque anni di distanza da quell’“illuminazione” il romanzo era finito».
Il protagonista, Leo, è un sedicenne ingenuo e un po’ pasticcione, che vuole fare lo scrittore. Lo stile è molto semplice. Perché?
«Vorrei che sembrasse reale. Questo m’interessa. Anche i sogni dei ragazzi devono avere sempre un aggancio con la realtà».
Pensa di mettersi a fare lo scrittore a tempo pieno?
«No, perché se non sto con i ragazzi non ho niente da raccontare».
Vengono in mente alcuni precedenti degli anni scorsi: Domenico Starnone, Paola Mastrocola... Li ha letti?
«Sì, ma poi ho ceduto a influenze più cinematografiche, per esempio L’attimo fuggente e, in una certa misura, il recente film francese La classe. Per il resto, ho guardato anche a Dostoevskij e Grossman».
Le classi in cui insegna ora sono miste? Ci sono figli di immigrati?
«Non molti. Adesso insegno in una scuola privata e quella è una situazione più facilmente riscontrabile nella scuola pubblica. Però qualche studente figlio di genitori stranieri c’è».
Lo sa che adesso le toccherà sopportare il confronto con Paolo Giordano e Federico Moccia? Anzi, è già cominciato.
«Lo so, ma io non mi sento più vicino all’uno o all’altro. Io desidero un’identità che sia la mia: un reale Alessandro D’Avenia».
Lo sa che le toccherà affrontare il teatrino dei premi letterari?
«Se volessi fare finta di essere un idealista assoluto potrei risponderle che la mia vita non si fonda certo su quello. Invece dico che, se un premio venisse e lo sentissi meritato, lo accetterei volentieri. Però posso anche farne a meno, in fondo sono vissuto bene fino adesso facendone senza».
«Il Giornale» del 2 febbraio 2010
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