Un paese senza classe dirigente?
di Sergio Romano
Se afasia significa mutismo e incapacità di parlare, quella denunciata da Ernesto Galli della Loggia sul Corriere del 7 luglio può essere straordinariamente rumorosa. Mai gli italiani sono stati altrettanto loquaci. Mentre i politici si accusano pubblicamente di errori, bugie e malefatte, i loro elettori non smettono di protestare nelle piazze, nei blog, nelle lettere che inviano ai giornali. Per molto tempo ci siamo lamentati della scarsa attenzione che la stampa internazionale riservava all’Italia. Oggi non passa giorno senza che un grande quotidiano straniero non cerchi di penetrare il labirinto delle nostre chiacchiere per spiegare ai suoi lettori l’ennesimo pasticcio confezionato nelle cucine della penisola. Questo non ci rende maggiormente decifrabili. Ci rende, se mai, ancora più imprevedibili, incomprensibili e, in ultima analisi, irrilevanti. Anziché esportare buoni film, buoni romanzi, buone opere dell’intelligenza e della cultura, esportiamo beghe, trame giudiziarie e interminabili discussioni sulle intercettazioni telefoniche. Afasia? Ripeto: non ricordo una fase altrettanto verbosa della politica nazionale. Eppure Galli della Loggia ha ragione.
Quando parlano e protestano, gli italiani parlano quasi sempre di se stessi, vale a dire degli effetti che una legge o una manovra finanziaria potrebbero avere per le loro personali condizioni economiche o per quelle della corporazione — associazione di categoria, ordine professionale, famiglia politica — a cui appartengono. Non parlano dell’Italia e dell’Europa, vale a dire delle due grandi comunità da cui dipende in ultima analisi il loro futuro. Parlano sempre e soltanto di se stessi. Appare ogni tanto un libro in cui l’autore cerca di guardare un po’ più al di là del proprio naso e formula qualche considerazione d’ordine generale. Ma il tema rimane sul tavolo per due o tre settimane e scompare dal radar. Nell’orizzonte dell’attenzione nazionale c’è spazio soltanto per quello che potrebbe accaderci qui e ora. Spiace dirlo, ma questa amara riflessione vale anche per il mondo degli imprenditori. Dove sono andati gli industriali e i finanzieri che avevano uno sguardo nazionale e non esitavano a esprimere pubblicamente le loro idee? Quando Mussolini decise il ritorno della lira all’oro e fissò il cambio con la sterlina a una quota insostenibile, un grande industriale elettrico, Ettore Conti, andò al Senato per spiegare a un capo del governo accigliato ma attento che quella politica avrebbe provocato una catastrofica deflazione. Quando la crisi del 1929 arrivò in Europa, all’inizio degli anni Trenta, Alberto Beneduce e Raffaele Mattioli spiegarono a Mussolini che cosa bisognava fare per salvare le banche e le imprese. Quando fu chiamato all’Agip per liquidarla, Enrico Mattei ne fece uno strumento della politica nazionale. Quando scendeva a Roma per difendere gli interessi della Fiat, Vittorio Valletta aveva, per parafrasare De Gaulle, «una certa idea dell’Italia». Quando propose la riforma di Confindustria, Leopoldo Pirelli non pensava agli interessi di una corporazione, ma al miglior modo per rendere più efficace il ruolo degli industriali nella vita del Paese.
Oscar Sinigaglia, Cesare Merzagora, Enrico Cuccia, Adriano Olivetti, Guido Carli, Gianni e Umberto Agnelli (cito a caso, con molte omissioni) pensavano naturalmente alla loro azienda o alla loro istituzione, ma avevano convinzioni forti sul Paese in cui avrebbero voluto lavorare, e non mancavano di esprimerle. Mi rendo conto che i tempi sono cambiati. Il panorama industriale ha perduto molti dei suoi picchi ed è fatto principalmente di piccole colline da cui è difficile guardare lontano. L’economia è globale e l’imprenditore assume necessariamente la nazionalità del Paese in cui gli conviene operare. Come i direttori d’orchestra e gli allenatori delle squadre di calcio, i grandi manager sono una casta cosmopolita. Il sentimento dell’orgoglio nazionale si è ovunque affievolito, e l’Italia può sembrare oggi insoddisfatta della propria unità, delusa, priva di grandi ambizioni collettive. Ma gli imprenditori sanno meglio di altre categorie che da una crisi come quella in cui siamo sprofondati (la peggiore della storia, secondo Alan Greenspan) si esce soltanto in due modi. Si può tappare qualche buco, stringere qualche vite, cambiare qualche pezzo. E si può invece cogliere l’occasione per fare quello che in altre circostanze sarebbe stato molto più difficile realizzare: cambiare la forma dello Stato, il ruolo della burocrazia, le regole dell’economia. La prima garantisce un futuro mediocre e un progressivo declino. La seconda schiude nuove prospettive, suscita nuovi entusiasmi, risveglia energie sopite, crea un clima propizio alla innovazione e alla sperimentazione. La prima non richiede un particolare coraggio, la seconda ne esige molto. Quando hanno creato le loro aziende, gli imprenditori hanno dimostrato di averlo. Ora dovrebbero smetterla di misurare ogni provvedimento con il metro del loro interesse individuale e corporativo. Comincino a dirci quali sono le riforme economiche e sociali di cui il Paese ha bisogno e soprattutto quali sacrifici siano disposti a fare perché il Paese cambi. E abbiano soprattutto il coraggio della critica, senza qualunquismi e frasi fatte. Parlino meno di se stessi e più dell’Italia.
Quando parlano e protestano, gli italiani parlano quasi sempre di se stessi, vale a dire degli effetti che una legge o una manovra finanziaria potrebbero avere per le loro personali condizioni economiche o per quelle della corporazione — associazione di categoria, ordine professionale, famiglia politica — a cui appartengono. Non parlano dell’Italia e dell’Europa, vale a dire delle due grandi comunità da cui dipende in ultima analisi il loro futuro. Parlano sempre e soltanto di se stessi. Appare ogni tanto un libro in cui l’autore cerca di guardare un po’ più al di là del proprio naso e formula qualche considerazione d’ordine generale. Ma il tema rimane sul tavolo per due o tre settimane e scompare dal radar. Nell’orizzonte dell’attenzione nazionale c’è spazio soltanto per quello che potrebbe accaderci qui e ora. Spiace dirlo, ma questa amara riflessione vale anche per il mondo degli imprenditori. Dove sono andati gli industriali e i finanzieri che avevano uno sguardo nazionale e non esitavano a esprimere pubblicamente le loro idee? Quando Mussolini decise il ritorno della lira all’oro e fissò il cambio con la sterlina a una quota insostenibile, un grande industriale elettrico, Ettore Conti, andò al Senato per spiegare a un capo del governo accigliato ma attento che quella politica avrebbe provocato una catastrofica deflazione. Quando la crisi del 1929 arrivò in Europa, all’inizio degli anni Trenta, Alberto Beneduce e Raffaele Mattioli spiegarono a Mussolini che cosa bisognava fare per salvare le banche e le imprese. Quando fu chiamato all’Agip per liquidarla, Enrico Mattei ne fece uno strumento della politica nazionale. Quando scendeva a Roma per difendere gli interessi della Fiat, Vittorio Valletta aveva, per parafrasare De Gaulle, «una certa idea dell’Italia». Quando propose la riforma di Confindustria, Leopoldo Pirelli non pensava agli interessi di una corporazione, ma al miglior modo per rendere più efficace il ruolo degli industriali nella vita del Paese.
Oscar Sinigaglia, Cesare Merzagora, Enrico Cuccia, Adriano Olivetti, Guido Carli, Gianni e Umberto Agnelli (cito a caso, con molte omissioni) pensavano naturalmente alla loro azienda o alla loro istituzione, ma avevano convinzioni forti sul Paese in cui avrebbero voluto lavorare, e non mancavano di esprimerle. Mi rendo conto che i tempi sono cambiati. Il panorama industriale ha perduto molti dei suoi picchi ed è fatto principalmente di piccole colline da cui è difficile guardare lontano. L’economia è globale e l’imprenditore assume necessariamente la nazionalità del Paese in cui gli conviene operare. Come i direttori d’orchestra e gli allenatori delle squadre di calcio, i grandi manager sono una casta cosmopolita. Il sentimento dell’orgoglio nazionale si è ovunque affievolito, e l’Italia può sembrare oggi insoddisfatta della propria unità, delusa, priva di grandi ambizioni collettive. Ma gli imprenditori sanno meglio di altre categorie che da una crisi come quella in cui siamo sprofondati (la peggiore della storia, secondo Alan Greenspan) si esce soltanto in due modi. Si può tappare qualche buco, stringere qualche vite, cambiare qualche pezzo. E si può invece cogliere l’occasione per fare quello che in altre circostanze sarebbe stato molto più difficile realizzare: cambiare la forma dello Stato, il ruolo della burocrazia, le regole dell’economia. La prima garantisce un futuro mediocre e un progressivo declino. La seconda schiude nuove prospettive, suscita nuovi entusiasmi, risveglia energie sopite, crea un clima propizio alla innovazione e alla sperimentazione. La prima non richiede un particolare coraggio, la seconda ne esige molto. Quando hanno creato le loro aziende, gli imprenditori hanno dimostrato di averlo. Ora dovrebbero smetterla di misurare ogni provvedimento con il metro del loro interesse individuale e corporativo. Comincino a dirci quali sono le riforme economiche e sociali di cui il Paese ha bisogno e soprattutto quali sacrifici siano disposti a fare perché il Paese cambi. E abbiano soprattutto il coraggio della critica, senza qualunquismi e frasi fatte. Parlino meno di se stessi e più dell’Italia.
«Corriere della Sera» dell'11 luglio 2010
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