di Benedetto Vecchi
Una delle figure dominanti nella letteratura cyberpunk e del «cinema totale» è indubbiamente il cyborg, l'ibrido tra umano e tecnologia che si è insinuato nell'immaginario per indicare, allo stesso tempo, sia la possibilità liberatoria che la subalternità dell'umano dall'artificiale. Corpi e menti potenziate affinché la fragilità umana potesse essere superata, annullando progressivamente quella distinzione tra naturale e artificiale, che condannava la specie umana a esperire la paura di poter essere sopraffatta da fattori imponderabili, quali una brusca variazione dell'habitat naturale in cui vive. Un terremoto, un'invasione aliena, l'inquinamento ambientale, persino l'invecchiamento potevano essere fronteggiati e annullati nei loro effetti attraverso l'uso di protesi macchiniche o computazionali sul corpo umano.
Con il cyborg James Cameron ha sempre giocato. Da «Terminator 2» a «Aliens», da «Abyss» a «Avatar» è infatti presenza costante, sebbene il regista statunitense abbia sempre sottolineato l'inquietudine che accompagna la sua presenza in una realtà sociale che difficilmente tollera identità mutanti. Il cyborg era sì espressione delle «macchine del capitale», ma anche un mix di natura e cultura che stava destabilizzando, siamo alla fine degli anni Ottanta, la cornice normativa del capitalismo in una realtà mondiale catapultata dentro la galassia mutante e sotto molti aspetti sconosciuta della globalizzazione neoliberista.
Così in «Aliens. Scontro finale» il cyborg è un replicante sintetico del corpo umano a cui solo una donna può opporsi perché generatrice di vita. Tema centrale nel «Giorno del giudizio», dove una macchina che può assumere forme cangianti per perseguire l'obiettivo finale, la distruzione della razza umana, deve vedersela con una donna, un ragazzo e un altro robot. Ed è proprio la donna che svela l'inganno prometeico del cyborg. Solo gli umani, sostiene la protagonista, possono dare vita a altri umani, che le macchine e i cyborg possono solo imitare. Gli umani possono cercare solo di addomesticare queste macchine pensanti, innestando parte di esse nel proprio corpo per diventare appunto potenti e così sopravvivere alla realtà terribile che spietate multinazionali avevano prodotto.
In «Avatar» lo stesso regista compie un doppio salto mortale. Su Pandora il cyborg è ormai roba del passato perché deve lasciare il passo alla connessione neurale tra esseri viventi. Siamo entrati nel millennio della matrice e il confine tra naturale e artificiale è così difensivamente annullato, sebbene chi esercita il dominio deve produrlo di nuovo con la forza per mantenere inalterati di rapporti sociali fondati sull'espropriazione e il saccheggio delle ricchezze. In fondo, le leggi sulla proprietà intellettuale sono proprio questo: la riproduzione di una separazione tra natura e cultura che serve a perpetrare i rapporti di dominio. Il cyborg non può quindi che avere il volto sfigurato di un marine paranoico che usa le protesi meccaniche per distruggere l'opposizione all'espropriazione della ricchezza comune.
L'utopia tecnologia della liberazione
Nel volume collettivo Le filosofie di Avatar il cyborg non compare, se non come sfondo opaco, anzi è una presenza così divenuta abituale nella galassia globalizzata del capitalismo contemporaneo che non c'è bisogno neanche di nominarla. Ce se sono malinconiche tracce negli scritti di Michel Maffessoli, Slavoj Zizek, Antonio Caronia, Luisa Valeriani e Alberto Abruzzese, ma solo per sottolineare che il silicio non è stata poi quella «tecnologia della liberazione» che l'attitudine controculturale e cyberpunk auspicava agli inizi della cosiddetta rivoluzione digitale. Non se ne parla perché tutti siamo diventati dei cyborg. La modificazione tecnologia del corpo umano è infatti diventata low cost e tutti possono accedervi.
Questa è d'altronde la retorica che accompagna una globalizzazione in affanno, dopo che le speranze di un mondo pacificato sono esplose in mille pezzi grazie ai bombardamenti intelligenti delle truppe statunitensi e dalle bombe umane dei combattenti suicidi di questo o quel movimento di resistenza basato su presunte e fasulle identità culturali, etniche o religiose. Anche la terra promessa del libero mercato, dove ognuno si può arricchire, si è rivelata l'inferno che tutti già sapevano essere. La realtà con cui confrontarsi è dunque quella rappresentata dalla nuova polarità tendenzialmente antagonista tra la connessione all'intelligenza collettiva e la sua espropriazione da parte delle imprese globali dopo aver consegnato alla critica roditrice dei topi quella tra naturale e artificiale. Il conflitto è tra la connessione tra gli umani e la volontà di governare tale connessione.
È nell'intelligenza collettiva prodotta dalla cooperazione produttiva e sociale che infatti risiede la possibilità di rottura radicale del paradigma produttivo dominante incentrato su un processo lavorativo sequenziale e eterodiretto. Da questo punto di vista, il regista statunitense fa sua una discutibile prospettiva olistica, perché vede la natura come un habitat dove c'è possibilità da parte dei singoli di una simbiosi «profonda» con essa facendo leva sulla potenza inespressa del cervello umano. Ma nessun riduzionismo è possibile, neppure quello olistica. La trasformazione deve fare i conti con il divenire imposto dal conflitto sociale.
È dunque su questo crinale che si può operare una critica efficace della globalizzazione. Se manca questo i nativi di Pandora possono essere sì rappresentati, in base a una visione razzista e occidentale, come la riproposizione del «buon selvaggio» da preservare dal progresso tecnico-scientifico. È questa la tesi proposta nell'interessante saggio contenuto nel libro Slavoj Zizek, che rimprovera, con qualche ragione, a Cameron di non aver riscritto la realtà come dovrebbe fare ogni uomo o donna di buona volontà, cioè di coloro che vogliono sovvertire il modo di produzione capitalistico.
Ma su Pandora i rivoltosi possono incarnare quella moltitudine che accetta di rappresentarsi in termini di classe: da una parte c'è chi espropria la potenza del cervello sociale; dall'altra il conflitto e la resistenza di chi vuol costruire una società che non consenta nessuna espropriazione privata della ricchezza sociale. Per questo la connessione, la messa in comune rende inoperante sia il paradigma riduzionista della natura umana, ma anche il sistema di potere, meglio i rapporti sociali di produzione postfordisti che innervano la globalizzazione. In sintesi: connessi di tutto il mondo unitevi, non avete altro da perdere che la gabbia d'acciaio che vuol rendere tutti dei cyborg.
Con il cyborg James Cameron ha sempre giocato. Da «Terminator 2» a «Aliens», da «Abyss» a «Avatar» è infatti presenza costante, sebbene il regista statunitense abbia sempre sottolineato l'inquietudine che accompagna la sua presenza in una realtà sociale che difficilmente tollera identità mutanti. Il cyborg era sì espressione delle «macchine del capitale», ma anche un mix di natura e cultura che stava destabilizzando, siamo alla fine degli anni Ottanta, la cornice normativa del capitalismo in una realtà mondiale catapultata dentro la galassia mutante e sotto molti aspetti sconosciuta della globalizzazione neoliberista.
Così in «Aliens. Scontro finale» il cyborg è un replicante sintetico del corpo umano a cui solo una donna può opporsi perché generatrice di vita. Tema centrale nel «Giorno del giudizio», dove una macchina che può assumere forme cangianti per perseguire l'obiettivo finale, la distruzione della razza umana, deve vedersela con una donna, un ragazzo e un altro robot. Ed è proprio la donna che svela l'inganno prometeico del cyborg. Solo gli umani, sostiene la protagonista, possono dare vita a altri umani, che le macchine e i cyborg possono solo imitare. Gli umani possono cercare solo di addomesticare queste macchine pensanti, innestando parte di esse nel proprio corpo per diventare appunto potenti e così sopravvivere alla realtà terribile che spietate multinazionali avevano prodotto.
In «Avatar» lo stesso regista compie un doppio salto mortale. Su Pandora il cyborg è ormai roba del passato perché deve lasciare il passo alla connessione neurale tra esseri viventi. Siamo entrati nel millennio della matrice e il confine tra naturale e artificiale è così difensivamente annullato, sebbene chi esercita il dominio deve produrlo di nuovo con la forza per mantenere inalterati di rapporti sociali fondati sull'espropriazione e il saccheggio delle ricchezze. In fondo, le leggi sulla proprietà intellettuale sono proprio questo: la riproduzione di una separazione tra natura e cultura che serve a perpetrare i rapporti di dominio. Il cyborg non può quindi che avere il volto sfigurato di un marine paranoico che usa le protesi meccaniche per distruggere l'opposizione all'espropriazione della ricchezza comune.
L'utopia tecnologia della liberazione
Nel volume collettivo Le filosofie di Avatar il cyborg non compare, se non come sfondo opaco, anzi è una presenza così divenuta abituale nella galassia globalizzata del capitalismo contemporaneo che non c'è bisogno neanche di nominarla. Ce se sono malinconiche tracce negli scritti di Michel Maffessoli, Slavoj Zizek, Antonio Caronia, Luisa Valeriani e Alberto Abruzzese, ma solo per sottolineare che il silicio non è stata poi quella «tecnologia della liberazione» che l'attitudine controculturale e cyberpunk auspicava agli inizi della cosiddetta rivoluzione digitale. Non se ne parla perché tutti siamo diventati dei cyborg. La modificazione tecnologia del corpo umano è infatti diventata low cost e tutti possono accedervi.
Questa è d'altronde la retorica che accompagna una globalizzazione in affanno, dopo che le speranze di un mondo pacificato sono esplose in mille pezzi grazie ai bombardamenti intelligenti delle truppe statunitensi e dalle bombe umane dei combattenti suicidi di questo o quel movimento di resistenza basato su presunte e fasulle identità culturali, etniche o religiose. Anche la terra promessa del libero mercato, dove ognuno si può arricchire, si è rivelata l'inferno che tutti già sapevano essere. La realtà con cui confrontarsi è dunque quella rappresentata dalla nuova polarità tendenzialmente antagonista tra la connessione all'intelligenza collettiva e la sua espropriazione da parte delle imprese globali dopo aver consegnato alla critica roditrice dei topi quella tra naturale e artificiale. Il conflitto è tra la connessione tra gli umani e la volontà di governare tale connessione.
È nell'intelligenza collettiva prodotta dalla cooperazione produttiva e sociale che infatti risiede la possibilità di rottura radicale del paradigma produttivo dominante incentrato su un processo lavorativo sequenziale e eterodiretto. Da questo punto di vista, il regista statunitense fa sua una discutibile prospettiva olistica, perché vede la natura come un habitat dove c'è possibilità da parte dei singoli di una simbiosi «profonda» con essa facendo leva sulla potenza inespressa del cervello umano. Ma nessun riduzionismo è possibile, neppure quello olistica. La trasformazione deve fare i conti con il divenire imposto dal conflitto sociale.
È dunque su questo crinale che si può operare una critica efficace della globalizzazione. Se manca questo i nativi di Pandora possono essere sì rappresentati, in base a una visione razzista e occidentale, come la riproposizione del «buon selvaggio» da preservare dal progresso tecnico-scientifico. È questa la tesi proposta nell'interessante saggio contenuto nel libro Slavoj Zizek, che rimprovera, con qualche ragione, a Cameron di non aver riscritto la realtà come dovrebbe fare ogni uomo o donna di buona volontà, cioè di coloro che vogliono sovvertire il modo di produzione capitalistico.
Ma su Pandora i rivoltosi possono incarnare quella moltitudine che accetta di rappresentarsi in termini di classe: da una parte c'è chi espropria la potenza del cervello sociale; dall'altra il conflitto e la resistenza di chi vuol costruire una società che non consenta nessuna espropriazione privata della ricchezza sociale. Per questo la connessione, la messa in comune rende inoperante sia il paradigma riduzionista della natura umana, ma anche il sistema di potere, meglio i rapporti sociali di produzione postfordisti che innervano la globalizzazione. In sintesi: connessi di tutto il mondo unitevi, non avete altro da perdere che la gabbia d'acciaio che vuol rendere tutti dei cyborg.
«Il Manifesto» del 4 luglio 2010
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