Risposta a Umberto Veronesi e alle tesi radicali del «Circolo di Vienna», ormai marginali e semplificatorie
di Gianfranco Ravasi
Ravasi: «Anche Max Planck diceva che scienza e religione hanno bisogno una dell' altra» Finalità La ricerca si dedica ai dati, la religione ai significati e ai valori Metodi Esistono asserzioni trasferibili dalle scienze alla filosofia e viceversa
Mi hanno sorpreso le dichiarazioni così categoriche, taglienti e un po' grossolane pronunciate dal professor Umberto Veronesi lo scorso febbraio durante una trasmissione televisiva. La loro perentorietà riguardava l'incompatibilità assoluta tra fede e ragione e, quindi, fra teologia e scienza. Mi sono stupito non solo per l'ormai antica amicizia che mi lega all'illustre oncologo milanese, ma anche per il suo noto interesse - sia pure in sede «laica» e critica - ai temi religiosi, testimoniato da letture teologiche sulle quali abbiamo più d'una volta insieme interloquito. Dato che la mia reazione si basa non sull'ascolto diretto di quell'intervento, ma sugli echi giornalistici, sui quali non bisogna mai scommettere, vorrei pacatamente e molto sinteticamente ritornare sul tema del rapporto tra scienza e fede. Il famoso scienziato Max Planck nel suo saggio sulla Conoscenza del mondo fisico affermava che «scienza e religione non sono in contrasto, ma hanno bisogno una dell'altra per completarsi nella mente di un uomo che pensa seriamente». Da un lato, è allora necessario che lo scienziato lasci cadere quell'orgogliosa autosufficienza che lo spinge a relegare la filosofia e la teologia nel deposito dei relitti di un paleolitico intellettuale e quell'hybris che lo illude di dichiarare la capacità onnicomprensiva della scienza nel conoscere, circoscrivendo ed esaurendo la totalità dell'essere e dell'esistere, del senso e dei valori.
Ma, d'altro lato, si deve vincere anche la tentazione del teologo desideroso di perimetrare i campi della ricerca scientifica e di finalizzarne o piegarne i risultati apologeticamente a sostegno delle sue tesi. È dunque necessario proporre innanzitutto una sorta di «coesistenza pacifica» tra scienza e fede, lasciando alle spalle quello scontro che ha un vertice (o una sorgente) nel positivismo del filosofo francese Comte, negatore della «legittimità di ogni interrogazione al di là della fisica».
Un impulso ulteriore a questa discrasia radicale è riconoscibile nel neopositivismo del Novecento. Il Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein (1921) dichiarava come prive di senso le proposizioni della metafisica, dell'etica e dell'estetica, perché esse non sono immagine di nessun fatto del mondo. I neopositivisti del Circolo di Vienna (Schlick, Neurath, Carnap e così via) andarono oltre e interpretarono in senso svalutativo radicale l'affermazione di Wittgenstein riguardo ai discorsi non scientifici. In realtà, per il filosofo viennese - che non era certo un agnostico - si tratta solo di un'«ineffabilità» insita in quelle proposizioni, per cui «su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere». Anche se sopravvivono ancora ben vigorosi epigoni delle tesi del «Circolo», come Dawkins e altri difensori di uno scientismo a oltranza, tale impostazione viene ormai considerata come marginale e semplificatoria. Infatti, ci si muove sempre di più secondo un reciproco e coerente rispetto tra i due campi: la scienza si dedica ai fatti, ai dati, al «come»; la metafisica e la religione si consacrano ai valori, ai significati ultimi, al «perché», secondo specifici protocolli di ricerca. È quella che lo scienziato statunitense Stephen J. Gould, morto nel 2002, ha sistematizzato nella formula dei Non-Overlapping-Magisteria, ossia della non-sovrapponibilità dei percorsi della conoscenza filosofico-teologica e della conoscenza empirico-scientifica. Essi incarnano due livelli metodologici, epistemologici, linguistici che, appartenendo a piani differenti, non possono intersecarsi, sono tra loro incommensurabili, risultano reciprocamente intraducibili e si rivelano in tal modo non conflittuali. Riconosciuta la positività di tale impostazione, che rigetta facili concordismi sincretistici e assegna pari dignità ai diversi tracciati di analisi della realtà, bisogna però opporre una riserva che è ben evidente già a partire dalla stessa esperienza storica. Entrambe, scienza e teologia (o filosofia), hanno in comune l'oggetto della loro investigazione (l'uomo, l'essere, il cosmo) e - come ha osservato acutamente Michael Heller, Premio Templeton 2009, nel suo bel saggio Nuova fisica e nuova teologia, tradotto in italiano dalla San Paolo - «esistono alcuni tipi di asserzioni che si lasciano trasferire dal campo delle scienze sperimentali a quello filosofico e viceversa senza confondere i livelli», anzi, con esiti fecondi (si pensi al contributo che la filosofia ha offerto alla scienza riguardo alle categorie «tempo» e «spazio»). È così che ha preso vigore, accanto alla sempre valida (a livello di metodo) «teoria dei due livelli», una sussidiaria «teoria del dialogo» propugnata da Józef Tischner che fa leva sul fatto che ogni uomo è dotato di una coscienza e, quindi, ogni ricerca sulla vita umana e sul rapporto con l'universo esige una pluralità armonica di itinerari e di esiti. Questa «teoria del dialogo» - che, per altro, faceva parte dell'eredità dell'umanesimo classico - è fatta balenare anche nella lettera che Giovanni Paolo II aveva indirizzato nel 1988 al direttore della Specola Vaticana: «Il dialogo deve continuare e progredire in profondità e in ampiezza. In questo processo dobbiamo superare ogni tendenza regressiva che porti verso forme di riduzionismo unilaterale, di paura e di autoisolamento. Ciò che è assolutamente importante è che ciascuna disciplina continui ad arricchire, nutrire e provocare l'altra a essere più pienamente ciò che deve essere e contribuire alla nostra visione di ciò che siamo e di dove stiamo andando». Distinzione ma non separatezza, dunque, tra scienza e fede. A questo punto, se vogliamo attestarci solo sul versante che ci è proprio, quello teologico, possiamo condividere quanto scriveva nel 1982 sulla rivista «Scripta Theologica» José Luis Illanes: «La teologia può attuare il suo contributo solo se si mantiene in contatto con le altre scienze. Essa ha bisogno di essere ascoltata, ma ha altrettanto bisogno di ascoltare gli altri saperi. Il teologo, come lo scienziato, deve essere umile, e in misura ancor maggiore: non solo perché ciò che sa lo riceve dalla parola di Dio, affidata alla Chiesa, di fronte a cui deve mantenersi in atteggiamento di devoto ascolto, ma anche perché riconosce che la scienza teologica non lo autorizza a prescindere da altri saperi». Siamo in presenza di due profili dello stesso volto: cancellato uno, il viso si sfigura. Per dirla con una battuta folgorante dei Pensieri di Pascal: «Due eccessi: escludere la ragione, non ammettere che la ragione».
Anticipiamo alcune parti dell'articolo «"Irrazionalità" della fede, "razionalità" della scienza?» scritto da Gianfranco Ravasi per il numero di «Vita e Pensiero», bimestrale culturale dell' Università Cattolica del Sacro Cuore, in uscita mercoledì 7 luglio. Gianfranco Ravasi, già prefetto della Biblioteca Ambrosiana di Milano, è presidente del Pontificio Consiglio della cultura. Tra gli articoli della rivista, segnaliamo anche «Cicerone superstar, un modello per i politici», di Mary Ann Glendon e «Ma la scrittura non può essere insegnata», di Paola Capriolo.
«Corriere della Sera» del 2 luglio 2010
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