Stato, privati e fondi alla cultura
di Angelo Panebianco
Regioni a parte, uno dei settori più in subbuglio per i preannunciati tagli della manovra finanziaria è quello delle istituzioni culturali: enti di cultura vari, teatri, eccetera. Se a ciò si sommano le agitazioni nelle scuole e nelle università, è l’intero comparto della «cultura» a essere in ebollizione. In alcuni casi, le proteste contro i tagli della manovra si sommano a quelle contro gli interventi dei ministri competenti (decreto Bondi sugli enti lirici, riforma Gelmini dell’università). Nel loro insieme, queste istituzioni hanno due caratteristiche. La prima è di essere popolate da corporazioni che fanno tradizionalmente capo al centrosinistra, i cui appartenenti sono, a schiacciante maggioranza, schierati contro il governo in carica. Bondi (Beni culturali) e Gelmini (Istruzione) guidano, senza dubbio, sotto questo profilo, i due ministeri più difficili. La difficoltà consiste nel fatto che le corporazioni che i due ministri sono tenuti a governare sono pregiudizialmente contro di loro, sono loro nemici comunque, e a prescindere.
La seconda caratteristica del comparto cultura (in senso lato) è che si tratta di «cultura di Stato», ossia di un ambito quasi interamente finanziato con denaro pubblico. Per le corporazioni che ne fanno parte sarebbe inconcepibile qualcosa di diverso. Per esse, la cultura o è di Stato — finanziata dallo Stato—oppure non è. Sono antiche e radicate abitudini. Ma la cosa significativa è che questa idea ha col tempo contagiato anche i ceti altoborghesi, quelli al cui mecenatismo, almeno in linea di principio, si potrebbe in molti casi ricorrere in sostituzione dello Stato. Ad esempio, sono circa duecentotrenta gli enti culturali a cui, a meno di salvataggi dell’ultima ora, verranno a mancare i finanziamenti. Se si scorre l’elenco, si trova di tutto: accanto a molti enti che avrebbero dovuto essere già spazzati via da decenni ci sono alcune istituzioni dotate di effettivo rilievo culturale. Ma il punto è questo: se una istituzione gode di prestigio in virtù delle attività svolte, non dovrebbe trovare, con relativa facilità, finanziatori privati? E, anzi, la capacità di ricorrere a finanziatori privati non sarebbe precisamente una prova dell’importanza e del prestigio di quella istituzione?
Nelle città, i tagli colpiscono diversi enti. A volte sono rami secchi, a volte no. Le borghesie cittadine, imprenditori in testa, non dovrebbero allora mobilitarsi per subentrare, in tutto o in parte, a Stato, regioni e comuni? Ci fu un tempo in cui il mecenatismo privato fece ricca la vita culturale delle città italiane. Il mecenatismo privato, naturalmente, qua e là, esiste ancora. Ci sono aziende, alcune di rilievo nazionale, che lo praticano con generosità. E ci sono, nelle città, privati che danno contributi per le attività culturali. Per decenni, però, in età repubblicana, la tendenza dominante è stata un’altra. Anche se è ormai tramontata l’epoca dei partiti forti che dominavano le città, istituzioni culturali incluse, le borghesie cittadine, in troppi casi, non hanno ancora ripreso quel ruolo di vere classi dirigenti che avevano avuto in precedenza, prima che la politica le mettesse da parte. La loro eventuale disponibilità a intervenire in modo più incisivo nella vita culturale delle città segnalerebbe la volontà di riconquistarlo.
La seconda caratteristica del comparto cultura (in senso lato) è che si tratta di «cultura di Stato», ossia di un ambito quasi interamente finanziato con denaro pubblico. Per le corporazioni che ne fanno parte sarebbe inconcepibile qualcosa di diverso. Per esse, la cultura o è di Stato — finanziata dallo Stato—oppure non è. Sono antiche e radicate abitudini. Ma la cosa significativa è che questa idea ha col tempo contagiato anche i ceti altoborghesi, quelli al cui mecenatismo, almeno in linea di principio, si potrebbe in molti casi ricorrere in sostituzione dello Stato. Ad esempio, sono circa duecentotrenta gli enti culturali a cui, a meno di salvataggi dell’ultima ora, verranno a mancare i finanziamenti. Se si scorre l’elenco, si trova di tutto: accanto a molti enti che avrebbero dovuto essere già spazzati via da decenni ci sono alcune istituzioni dotate di effettivo rilievo culturale. Ma il punto è questo: se una istituzione gode di prestigio in virtù delle attività svolte, non dovrebbe trovare, con relativa facilità, finanziatori privati? E, anzi, la capacità di ricorrere a finanziatori privati non sarebbe precisamente una prova dell’importanza e del prestigio di quella istituzione?
Nelle città, i tagli colpiscono diversi enti. A volte sono rami secchi, a volte no. Le borghesie cittadine, imprenditori in testa, non dovrebbero allora mobilitarsi per subentrare, in tutto o in parte, a Stato, regioni e comuni? Ci fu un tempo in cui il mecenatismo privato fece ricca la vita culturale delle città italiane. Il mecenatismo privato, naturalmente, qua e là, esiste ancora. Ci sono aziende, alcune di rilievo nazionale, che lo praticano con generosità. E ci sono, nelle città, privati che danno contributi per le attività culturali. Per decenni, però, in età repubblicana, la tendenza dominante è stata un’altra. Anche se è ormai tramontata l’epoca dei partiti forti che dominavano le città, istituzioni culturali incluse, le borghesie cittadine, in troppi casi, non hanno ancora ripreso quel ruolo di vere classi dirigenti che avevano avuto in precedenza, prima che la politica le mettesse da parte. La loro eventuale disponibilità a intervenire in modo più incisivo nella vita culturale delle città segnalerebbe la volontà di riconquistarlo.
«Corriere della sera» del 5 luglio 2010
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