Non solo romanzi "scandalosi" letti sottobanco. Nelle librerie della Repubblica islamica c’è di tutto: dai classici come Hedayat, il Kafka iraniano, alle memorie della guerra con l’Irak. Dai Moccia locali ai bestseller italiani...
di Tommy Cappellini
Che cosa si legge - davvero - oggi in Iran? Il bestseller di Azar Nafisi Leggere Lolita a Teheran ha lasciato intendere a migliaia di lettori in tutto il mondo che nella Repubblica Islamica si legga solo «sottobanco», in modo furtivo, clandestino, e preferibilmente letteratura occidentale dalle virtù emancipatorie.
È questa una visione che piace alle case editrici americane ed europee, tant’è che ci hanno costruito sopra una moda molto remunerativa: quella dei romanzi, sovente composti in inglese da scrittrici iraniane emigrate, che sfruttano le presunte atmosfere «sovietiche», totalitariste, dell’Iran di Ahmadinejad. Leggessimo solo Viaggio di nozze a Teheran di Azadeh Moaveni (Newton Compton) o Le porte chiuse di Teheran di Zarah Ghahramani (Sperling&Kupfer), per sceglierne due recenti tra le decine di titoli usciti negli ultimi anni sull’argomento, finiremmo col pensare che l’Iran è una nazione dove vivono soltanto donne represse che, per dirla assecondando un luogo comune, la notte scendono per le strade della capitale a rimorchiare uomini nel tentativo di «trovare la propria identità» e di «liberarsi dal giogo», maschile, of course. Si tratta - è abbastanza chiaro - di libri ad uso e consumo delle lettrici occidentali, che amano, fin dai tempi della Principessa di Clèves, le storie d’amore piene di ostacoli.
Piuttosto, sarebbe interessante tentare di capire (lo suggeriamo anche agli editor) cos’altro si scrive in una nazione che conta settanta milioni di abitanti, per due terzi sotto i 35 anni, e una millenaria tradizione letteraria, di cui basta ricordare Le mille e una notte e la poesia di Firdusi, Omar Khayyam, Rumi. Siamo così andati a vedere in loco.
Nei dintorni della Facoltà di Lettere di Teheran, vicino all’edificio azzurro dove l’imam tiene il suo sermone ogni venerdì a mezzogiorno, sorge un gran numero di librerie, sempre piene di clienti da mattino a tarda sera. In Iran non ci sono le nostre classifiche dei «più venduti» o le statistiche Nielsen, ma i librai hanno il polso preciso della situazione. «Qui i giovani leggono nella stessa misura - ci racconta uno di loro - classici e novità. Tra queste ultime è ormai arrivato all’ottantesima edizione Madre di Zahra Hosseini. Si tratta di un memoir romanzato sulla guerra Iran-Irak degli anni Ottanta, uno degli argomenti più frequentati dagli scrittori iraniani contemporanei. Ci sono poi autori per adolescenti, sul genere del vostro Federico Moccia: Fahimeh Rahimi e M. Moaddab Pour. Oltre a questi vendo davvero bene Spengo le luci di Zoya Pirsad, alla ventiseiesima edizione, un racconto sulla vita delle minoranze etniche iraniane, nel caso specifico quella degli armeni, e Dai un bacio al bel viso di Dio di Mostafa Mastur, biografia immaginaria di un professore universitario morto suicida per ragioni sentimentali e non sociologiche o politiche, come crede inizialmente un suo studioso che è anche voce narrante del romanzo. Tra i classici, vendo molto il nostro Kafka iraniano, Sadegh Hedayat, autore di La civetta cieca e Tre gocce di sangue, tradotti anche da voi. Uno scrittore laico, vitale e triste al tempo stesso. Altro classico, ma nella saggistica, è il Dr. Shariati, autore pure di racconti. I suoi titoli più venduti sono Fatima è Fatima e Deserto. Era un tipo allegro, credeva in un Islam più aperto, contestava lo scià con uno stile insuperabile e fumava tantissime sigarette».
«In Iran si pubblica un po’ di tutto - dice Ali Debashi, direttore di Bokhara, la maggior rivista letteraria iraniana, trecento pagine per ciascun numero (bimestrale) e vent’anni di storia -. La tiratura iniziale di un libro è più o meno di 3000 copie, ma la ristampa è scontata, arriva da sé. Personalmente, mi piace molto Jamalzadeh, tra i maggiori scrittori di short stories in Iran. Ma gli scrittori qui sono davvero tanti e tutti molto bravi. Ti cito solo quelli che hanno tra i venti e i quarant’anni: Javad Mahzade, Non togliermi il tuo sorriso, memoria della guerra Iran-Irak; Abbas Marufi, L’anno della protesta, ambientato durante la Seconda guerra mondiale; Nahid Fabatabie, Quarantenne, storia di una donna iraniana alle prese con crisi di ogni tipo, sentimentali e politiche; Monir Rafani Pour, Il suo servo, libro nello stile di Faulkner ambientato nel sud dell’Iran. Sono tutti scrittori indipendenti. Sia loro che io abbiamo qualche screzio con la censura, ovvio, ma la cosa non va oltre le solite pressioni che tutti i governi del mondo, se criticati in modo davvero corrosivo su temi sensibili, mettono in campo».
Difatto in Iran la censura ha regole così capricciose - come tutte le censure della storia - da essere completamente inutile. A Teheran si racconta ancora di quando I figli della mezzanotte di Salman Rushdie ricevette dalle stesse mani di Khamenei, guida religiosa del Paese, un importante premio letterario: fu poco prima che apparissero i Versetti satanici dello stesso autore, seguiti da quella fatwa che li rese famosi ben oltre il loro valore artistico. La realtà è che nelle librerie iraniane si trovano tranquillamente titoli che vanno dal Codice da Vinci di Dan Brown, in teoria un altro libro «incriminato» dalla censura, alla biografia di David Beckham, fino ai saggi «ebraici» di Theodor Adorno e Hannah Arendt. «La letteratura non serve a risvegliare le masse - ci dice Reza Gheissarieh, traduttore dall’italiano e grande appassionato di Moravia - e l’aver creduto questo fin dai tempi della Rivoluzione, l’averla creduta capace di miracoli collettivi e politici in un senso o nell’altro, ha finito col generare una sua sopravvalutazione. La censura, così, è arrivata di conseguenza, nella speranza di poter tenere sotto controllo ciò che si pubblica. Ma quelle volte che viene applicata, più per ricordare che esiste, crea solo scontento».
Gheissarieh, che è anche romanziere in proprio, è uno dei tanti iraniani ammiratori della nostra letteratura, che negli ultimi anni ha visto un successo inatteso e costante: ci è capitato di vedere a Teheran una vetrina composta soltanto di libri di Ignazio Silone. «Due settimane fa - ci ha spiegato il libraio - si è tenuto qui un convegno su di lui. C’erano trecento persone. Prima ancora, ci sono state le serate dedicate a Buzzati e Calvino: quest’ultimo in Iran, forse per la sua visione epistemologica del mondo forse per la circolarità di gusto mediorientale di alcune sue narrazioni, è l’autore italiano più letto. A settembre, invece, ci sarà il convegno su Pavese. Ma non sono certo gli unici scrittori italiani che abbiamo. Guardi qui, tutti tradotti in farsi: Patrizia Valduga, molto erotica, Attilio Bertolucci, Antonio Tabucchi, Erri De Luca, Dacia Maraini, Umberto Eco, Melania Mazzucco, Marco Lodoli, Nicolò Ammaniti, pubblicato da una casa editrice diretta da una donna molto attiva, Shala Lahigi, e infine Susanna Tamaro, un po’ troppo religiosa». Completamente dedicato a Umberto Eco abbiamo trovato anche un numero della rivista Bokhara, con un’iconografia di un centinaio di foto che persino in Italia sarebbe difficile da mettere insieme. «Negli ultimi tre anni - ci racconta l’editore Masud Kasari della casa editrice Ketab-e-Khorshid, Il libro del sole - il 30 per cento del nostro catalogo l’abbiamo fatto con autori italiani, da Stefano Benni ad Alessandro Baricco. Di quest’ultimo stiamo rivedendo la traduzione di Novecento e Oceano Mare, che ripubblichiamo insieme in un unico volume». In mezzo a tutto questo fermento ci sono pesino italiani che offrono i loro servizi: «A breve - ci dice Richard Nava di Diacron Group, studio di commercialisti internazionali con imminente filiale anche a Teheran - apriremo un settore dedicato alle questioni editoriali, dalla compravendita di diritti al pagamento delle royalties tra Iran e Occidente».
È questa una visione che piace alle case editrici americane ed europee, tant’è che ci hanno costruito sopra una moda molto remunerativa: quella dei romanzi, sovente composti in inglese da scrittrici iraniane emigrate, che sfruttano le presunte atmosfere «sovietiche», totalitariste, dell’Iran di Ahmadinejad. Leggessimo solo Viaggio di nozze a Teheran di Azadeh Moaveni (Newton Compton) o Le porte chiuse di Teheran di Zarah Ghahramani (Sperling&Kupfer), per sceglierne due recenti tra le decine di titoli usciti negli ultimi anni sull’argomento, finiremmo col pensare che l’Iran è una nazione dove vivono soltanto donne represse che, per dirla assecondando un luogo comune, la notte scendono per le strade della capitale a rimorchiare uomini nel tentativo di «trovare la propria identità» e di «liberarsi dal giogo», maschile, of course. Si tratta - è abbastanza chiaro - di libri ad uso e consumo delle lettrici occidentali, che amano, fin dai tempi della Principessa di Clèves, le storie d’amore piene di ostacoli.
Piuttosto, sarebbe interessante tentare di capire (lo suggeriamo anche agli editor) cos’altro si scrive in una nazione che conta settanta milioni di abitanti, per due terzi sotto i 35 anni, e una millenaria tradizione letteraria, di cui basta ricordare Le mille e una notte e la poesia di Firdusi, Omar Khayyam, Rumi. Siamo così andati a vedere in loco.
Nei dintorni della Facoltà di Lettere di Teheran, vicino all’edificio azzurro dove l’imam tiene il suo sermone ogni venerdì a mezzogiorno, sorge un gran numero di librerie, sempre piene di clienti da mattino a tarda sera. In Iran non ci sono le nostre classifiche dei «più venduti» o le statistiche Nielsen, ma i librai hanno il polso preciso della situazione. «Qui i giovani leggono nella stessa misura - ci racconta uno di loro - classici e novità. Tra queste ultime è ormai arrivato all’ottantesima edizione Madre di Zahra Hosseini. Si tratta di un memoir romanzato sulla guerra Iran-Irak degli anni Ottanta, uno degli argomenti più frequentati dagli scrittori iraniani contemporanei. Ci sono poi autori per adolescenti, sul genere del vostro Federico Moccia: Fahimeh Rahimi e M. Moaddab Pour. Oltre a questi vendo davvero bene Spengo le luci di Zoya Pirsad, alla ventiseiesima edizione, un racconto sulla vita delle minoranze etniche iraniane, nel caso specifico quella degli armeni, e Dai un bacio al bel viso di Dio di Mostafa Mastur, biografia immaginaria di un professore universitario morto suicida per ragioni sentimentali e non sociologiche o politiche, come crede inizialmente un suo studioso che è anche voce narrante del romanzo. Tra i classici, vendo molto il nostro Kafka iraniano, Sadegh Hedayat, autore di La civetta cieca e Tre gocce di sangue, tradotti anche da voi. Uno scrittore laico, vitale e triste al tempo stesso. Altro classico, ma nella saggistica, è il Dr. Shariati, autore pure di racconti. I suoi titoli più venduti sono Fatima è Fatima e Deserto. Era un tipo allegro, credeva in un Islam più aperto, contestava lo scià con uno stile insuperabile e fumava tantissime sigarette».
«In Iran si pubblica un po’ di tutto - dice Ali Debashi, direttore di Bokhara, la maggior rivista letteraria iraniana, trecento pagine per ciascun numero (bimestrale) e vent’anni di storia -. La tiratura iniziale di un libro è più o meno di 3000 copie, ma la ristampa è scontata, arriva da sé. Personalmente, mi piace molto Jamalzadeh, tra i maggiori scrittori di short stories in Iran. Ma gli scrittori qui sono davvero tanti e tutti molto bravi. Ti cito solo quelli che hanno tra i venti e i quarant’anni: Javad Mahzade, Non togliermi il tuo sorriso, memoria della guerra Iran-Irak; Abbas Marufi, L’anno della protesta, ambientato durante la Seconda guerra mondiale; Nahid Fabatabie, Quarantenne, storia di una donna iraniana alle prese con crisi di ogni tipo, sentimentali e politiche; Monir Rafani Pour, Il suo servo, libro nello stile di Faulkner ambientato nel sud dell’Iran. Sono tutti scrittori indipendenti. Sia loro che io abbiamo qualche screzio con la censura, ovvio, ma la cosa non va oltre le solite pressioni che tutti i governi del mondo, se criticati in modo davvero corrosivo su temi sensibili, mettono in campo».
Difatto in Iran la censura ha regole così capricciose - come tutte le censure della storia - da essere completamente inutile. A Teheran si racconta ancora di quando I figli della mezzanotte di Salman Rushdie ricevette dalle stesse mani di Khamenei, guida religiosa del Paese, un importante premio letterario: fu poco prima che apparissero i Versetti satanici dello stesso autore, seguiti da quella fatwa che li rese famosi ben oltre il loro valore artistico. La realtà è che nelle librerie iraniane si trovano tranquillamente titoli che vanno dal Codice da Vinci di Dan Brown, in teoria un altro libro «incriminato» dalla censura, alla biografia di David Beckham, fino ai saggi «ebraici» di Theodor Adorno e Hannah Arendt. «La letteratura non serve a risvegliare le masse - ci dice Reza Gheissarieh, traduttore dall’italiano e grande appassionato di Moravia - e l’aver creduto questo fin dai tempi della Rivoluzione, l’averla creduta capace di miracoli collettivi e politici in un senso o nell’altro, ha finito col generare una sua sopravvalutazione. La censura, così, è arrivata di conseguenza, nella speranza di poter tenere sotto controllo ciò che si pubblica. Ma quelle volte che viene applicata, più per ricordare che esiste, crea solo scontento».
Gheissarieh, che è anche romanziere in proprio, è uno dei tanti iraniani ammiratori della nostra letteratura, che negli ultimi anni ha visto un successo inatteso e costante: ci è capitato di vedere a Teheran una vetrina composta soltanto di libri di Ignazio Silone. «Due settimane fa - ci ha spiegato il libraio - si è tenuto qui un convegno su di lui. C’erano trecento persone. Prima ancora, ci sono state le serate dedicate a Buzzati e Calvino: quest’ultimo in Iran, forse per la sua visione epistemologica del mondo forse per la circolarità di gusto mediorientale di alcune sue narrazioni, è l’autore italiano più letto. A settembre, invece, ci sarà il convegno su Pavese. Ma non sono certo gli unici scrittori italiani che abbiamo. Guardi qui, tutti tradotti in farsi: Patrizia Valduga, molto erotica, Attilio Bertolucci, Antonio Tabucchi, Erri De Luca, Dacia Maraini, Umberto Eco, Melania Mazzucco, Marco Lodoli, Nicolò Ammaniti, pubblicato da una casa editrice diretta da una donna molto attiva, Shala Lahigi, e infine Susanna Tamaro, un po’ troppo religiosa». Completamente dedicato a Umberto Eco abbiamo trovato anche un numero della rivista Bokhara, con un’iconografia di un centinaio di foto che persino in Italia sarebbe difficile da mettere insieme. «Negli ultimi tre anni - ci racconta l’editore Masud Kasari della casa editrice Ketab-e-Khorshid, Il libro del sole - il 30 per cento del nostro catalogo l’abbiamo fatto con autori italiani, da Stefano Benni ad Alessandro Baricco. Di quest’ultimo stiamo rivedendo la traduzione di Novecento e Oceano Mare, che ripubblichiamo insieme in un unico volume». In mezzo a tutto questo fermento ci sono pesino italiani che offrono i loro servizi: «A breve - ci dice Richard Nava di Diacron Group, studio di commercialisti internazionali con imminente filiale anche a Teheran - apriremo un settore dedicato alle questioni editoriali, dalla compravendita di diritti al pagamento delle royalties tra Iran e Occidente».
«Il Giornale» del 1 luglio 2010
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