Un saggio di Marco Meschini ricapitola la lotta che nel ’200 insanguinò la Linguadoca per sradicarne l’eresia catara. E torna la domanda: una tale strage (che ci fu, anche se poi è stata ingigantita dalla speculazione laicista) poteva essere giustificata?
di Franco Cardini
Può darsi che questo libro sorprenda qualcuno, che magari scandalizzi qualche altro e che dispiaccia a molti. Dico subito e con chiarezza, per quanto mi riguarda, che mi è molto piaciuto e che ne ho ammirato sia l’impianto erudito sia il tono e il taglio appassionati e coraggiosi. Non potrei dire che proprio tutto mi abbia ugualmente convinto nel suo assunto di fondo: non tanto perché va rilevato in esso – accanto, sia chiaro, all’onestà e all’equità della ricerca storica presentata – un intento 'apologetico' nel senso alto e nobile del termine, quanto per il riflesso di un messaggio che esso implicitamente e del resto con grande misura esso invia ai lettori. Un messaggio che potrebbe essere accolto anche al di là delle sue intenzioni, sia pure nel senso in cui esse mi sembrano chiaramente palesarsi. In altri termini, bisogna guardarsi senza dubbio dall’uso attualizzante della storia: d’altro canto, però, la storia contiene inevitabilmente qualcosa che obbliga anche a confrontarla col presente. In questo senso è stato detto che «tutta la storia è storia contemporanea »; in questo senso Nietzsche ha potuto affermare, provocatoriamente e paradossalmente eppure magistralmente, che la storia è utile per la vita solo quando è soggettiva e guarda al presente (al contrario di quanto sostenevano e anche sostengano, letteralmente, i professionisti della ricerca storica sentita come attività scientifica).
L’eretica. Storia della Crociata contro gli albigesi (Laterza, pagine 375, € 19,00), di Marco Meschini, è un libro intenso e affascinante, che a qualcuno porrà parere strano. Ho stima dell’autore e il libro merita che se ne parli: Meschini, della generazione dei più o meno quarantenni, proviene da un’ottima scuola medievistica, quella dell’Università Cattolica. È autore fecondo di studi sulle Crociate, sia quelle in Terrasanta sia quelle che i canonisti del Duecento avrebbero definito crucis cismarinae, cioè quelle contra christianos: la 'strana' Quarta crociata, partita per riconquistare Gerusalemme e che finì per abbattersi su Costantinopoli; e quella 'degli albigesi', cioè contro i catari della Linguadoca, combattuta fra 1208 e 1244 nell’area appunto d’idioma occitano grosso modo compresa tra Pirenei, Rodano e Dordogna.
I fatti relativi a tale pagina del nostro passato sono noti: in un’area largamente e in qualche sua parte completamente guadagnata a un’eresia di tipo dualistico-manicheo controllata da un’élite iniziatica, il catarismo, al tempo del pontificato dell’ancor giovane Innocenzo III nel 1208 l’uccisione del legato pontificio Pietro di Castelnau provocò una spedizione crociata gestita principalmente da alcuni capi feudali della Francia settentrionale che si abbatté duramente sul principe che governava quel territorio, il conte di Tolosa, e sui suoi territori. Vi furono episodi raccapriccianti, come la strage di Béziers del 1209 e il rogo di Montségur del 1244. Fu una guerra feroce, che coinvolse troppi inermi e innocenti (ma i due termini non sono necessariamente e sempre sinonimi) e che desolò una contrada dolcissima, senza dubbio una delle più ricche e civili dell’Occidente europeo, la patria d’elezione della poesia e della musica trobadoriche.
Strano paradosso, almeno in apparenza: come poteva il catarismo, che si presentava coma un cristianesimo austeramente rivolto a restaurare la semplicità, la povertà e la purezza delle origini, attecchire proprio nel Paese della 'gaia scienza', tra gli allegri e sensuali poeti dell’amore ch’è sogno dell’anima, e nondimeno anche piacere carnale? Non è, questo, l’ultimo degli argomenti affrontati in questo libro che si dedica, sintomaticamente, «a Marc Bloch ed Eugenio Corti, testimoni del tempo e dell’eterno». Questo è un libro serio, un libro tragico: è forse il Lebensbuch, il libro che Meschini sente come quello più 'suo', quello della sua vita. Non mi stupirei se fosse solo l’introduzione a un’opera più vasta, magari dedicata appunto alle Crociate 'interne alla cristianità' o al rapporto tra Crociate e Inquisizione; ma non mi stupirei neppure se esso fosse l’ultimo suo libro di medievistica. Meschini, ben noto anche come apprezzato giornalista, ha dato da tempo l’impressione di tirarsi da parte nella 'carriera' universitaria e si è dato credo al mondo della comunicazione mediatica, per il quale ha senza dubbio vocazione e competenza. Ma qui, con un linguaggio che talvolta rasenta quello del romanzo e che affronta con molta lucidità il problema del rapporto, nel racconto storico, tra documentazione scientifica ed efficacia narrativa, egli non si sottrae al quesito fondamentale, quello che a un certo punto s’impone sempre a chi mediti su quella tragedia vecchia ormai di otto secoli e a una parte della quale assisté perfino, forse, Francesco d’Assisi che si trovava allora in viaggio verso Santiago de Compostela. Fu davvero il massacro che si dice, quella crociata? E, se lo fu, era necessario, era inevitabile? E necessario perché, inevitabile per chi? Insomma – la domanda, che molti giudicano antistorica, s’impone – era 'giusto'?
Meschini prende posizione, sceglie il suo campo. Non è illegittimo che lo storico lo faccia; forse è imprudente che lo dichiari, ma sarebbe d’altronde disonesto e insincero agire altrimenti; quando lo storico lo fa, deve farlo – se vuole riuscir convincente – con misura e con stretto rispetto della problematica che affronta e delle fonti che usa. L’asettica imparzialità non si richiede né a lui né a nessuno, perché è impossibile e in fondo anche perché è disumana, impossibile, e se fosse possibile sarebbe morale. Ma l’equità, sì: questa è necessaria, Fa parte dell’onestà scientifica.
È un fatto che il catarismo aveva vinto la sua battaglia controversistica e missionaria o quasi, quando Innocenzo III bandì come extrema ratio la Crociata. È un fatto che esso contava pochi veri e propri adepti (i 'perfetti'), ma molti sostenitori e simpatizzanti (i 'credenti'), e che poggiava su una larga base di tolleranza e di complicità, estesa dall’aristocrazia al clero almeno secolare alle agiate borghesie cittadine ai ceti rurali. È un fatto ch’esso non era affatto un’eresia cristiana, per quanto così potesse presentarsi e moltissimi fossero in buona fede convinti che tale fosse, così com’è obiettivamente vero che molti missionari catari erano di gran lunga moralmente migliori di troppi esponenti del clero ortodosso. Era un’altra religione, estranea al cristianesimo per quanto ne usasse alcune Scritture, e a esso profondamente avversa.
La teologia catara, radicata in realtà non già nel 'Vangelo mistico di Giovanni' bensì nel terreno antico e profondo del manicheismo e del mazdaismo persiano – e in parte più vicina al buddismo che non al cristianesimo –, postulava in ultima analisi la malvagità del creato come prigione dello spirito e la natura satanica del Dio creatore; e alla luce di esso l’amore fuori del matrimonio e magari contra naturam, sterile comunque, era peccato ben minore – se tale era – rispetto all’amore coniugale e fecondo, che prelude al frutto della generazione. Il catarismo, affermatosi nella più gioiosa delle contrade cristiane, postulava la liberazione delle anime umane attraverso l’annientamento della vita, ch’esso vedeva come contaminazione e prigionia dello spirito nella materia. Da qui la sua inconciliabilità profonda col cristianesimo: e l’orrore profondo con il quale gli autentici e consapevoli catari guardavano ai veri cristiani, e viceversa. Volete leggere un manifesto radicalmente anticataro, scritto da uno al quale certo il massacro di Béziers, se ne ebbe notizia, non piacque? Leggete il Cantico delle creature di Francesco d’Assisi.
Il catarismo era una sfida dura e un pericolo obiettivo per la cristianità. In quell’area e in quel momento, esso era dialetticamente e socialmente inarrestabile, invincibile. Giustificava tutto ciò la strage, se e quando ci fu (e Meschini fa bene a sottolineare che, in buona parte, sulla 'Crociata degli albigesi' si sono abbattute la speculazione e la falsificazione laicista e anticlericale)? Qui sospendiamo il giudizio: leggete il libro. Certo, altre soluzioni – e qui mi sbilancio anch’io – avrebbero largamente condotto a una sparizione del cristianesimo in quell’area; magari a un anticipo della Riforma protestante; o a un mutamento perfino negli equilibri geopolitici della regione. Ha questo libro insito un 'pericolo immanente', quello di venir utilizzato come giustificazione alle troppe voci politiche le quali oggi sembrano levarsi a chiedere strampalate 'nuove crociate' contro supposti 'nuovi nemici della cristianità', ammesso che di 'cristianità' ancora si tratti? Anche di ciò è lecito discutere. Ma questa, a dirla con Kipling, è un’altra storia.
L’eretica. Storia della Crociata contro gli albigesi (Laterza, pagine 375, € 19,00), di Marco Meschini, è un libro intenso e affascinante, che a qualcuno porrà parere strano. Ho stima dell’autore e il libro merita che se ne parli: Meschini, della generazione dei più o meno quarantenni, proviene da un’ottima scuola medievistica, quella dell’Università Cattolica. È autore fecondo di studi sulle Crociate, sia quelle in Terrasanta sia quelle che i canonisti del Duecento avrebbero definito crucis cismarinae, cioè quelle contra christianos: la 'strana' Quarta crociata, partita per riconquistare Gerusalemme e che finì per abbattersi su Costantinopoli; e quella 'degli albigesi', cioè contro i catari della Linguadoca, combattuta fra 1208 e 1244 nell’area appunto d’idioma occitano grosso modo compresa tra Pirenei, Rodano e Dordogna.
I fatti relativi a tale pagina del nostro passato sono noti: in un’area largamente e in qualche sua parte completamente guadagnata a un’eresia di tipo dualistico-manicheo controllata da un’élite iniziatica, il catarismo, al tempo del pontificato dell’ancor giovane Innocenzo III nel 1208 l’uccisione del legato pontificio Pietro di Castelnau provocò una spedizione crociata gestita principalmente da alcuni capi feudali della Francia settentrionale che si abbatté duramente sul principe che governava quel territorio, il conte di Tolosa, e sui suoi territori. Vi furono episodi raccapriccianti, come la strage di Béziers del 1209 e il rogo di Montségur del 1244. Fu una guerra feroce, che coinvolse troppi inermi e innocenti (ma i due termini non sono necessariamente e sempre sinonimi) e che desolò una contrada dolcissima, senza dubbio una delle più ricche e civili dell’Occidente europeo, la patria d’elezione della poesia e della musica trobadoriche.
Strano paradosso, almeno in apparenza: come poteva il catarismo, che si presentava coma un cristianesimo austeramente rivolto a restaurare la semplicità, la povertà e la purezza delle origini, attecchire proprio nel Paese della 'gaia scienza', tra gli allegri e sensuali poeti dell’amore ch’è sogno dell’anima, e nondimeno anche piacere carnale? Non è, questo, l’ultimo degli argomenti affrontati in questo libro che si dedica, sintomaticamente, «a Marc Bloch ed Eugenio Corti, testimoni del tempo e dell’eterno». Questo è un libro serio, un libro tragico: è forse il Lebensbuch, il libro che Meschini sente come quello più 'suo', quello della sua vita. Non mi stupirei se fosse solo l’introduzione a un’opera più vasta, magari dedicata appunto alle Crociate 'interne alla cristianità' o al rapporto tra Crociate e Inquisizione; ma non mi stupirei neppure se esso fosse l’ultimo suo libro di medievistica. Meschini, ben noto anche come apprezzato giornalista, ha dato da tempo l’impressione di tirarsi da parte nella 'carriera' universitaria e si è dato credo al mondo della comunicazione mediatica, per il quale ha senza dubbio vocazione e competenza. Ma qui, con un linguaggio che talvolta rasenta quello del romanzo e che affronta con molta lucidità il problema del rapporto, nel racconto storico, tra documentazione scientifica ed efficacia narrativa, egli non si sottrae al quesito fondamentale, quello che a un certo punto s’impone sempre a chi mediti su quella tragedia vecchia ormai di otto secoli e a una parte della quale assisté perfino, forse, Francesco d’Assisi che si trovava allora in viaggio verso Santiago de Compostela. Fu davvero il massacro che si dice, quella crociata? E, se lo fu, era necessario, era inevitabile? E necessario perché, inevitabile per chi? Insomma – la domanda, che molti giudicano antistorica, s’impone – era 'giusto'?
Meschini prende posizione, sceglie il suo campo. Non è illegittimo che lo storico lo faccia; forse è imprudente che lo dichiari, ma sarebbe d’altronde disonesto e insincero agire altrimenti; quando lo storico lo fa, deve farlo – se vuole riuscir convincente – con misura e con stretto rispetto della problematica che affronta e delle fonti che usa. L’asettica imparzialità non si richiede né a lui né a nessuno, perché è impossibile e in fondo anche perché è disumana, impossibile, e se fosse possibile sarebbe morale. Ma l’equità, sì: questa è necessaria, Fa parte dell’onestà scientifica.
È un fatto che il catarismo aveva vinto la sua battaglia controversistica e missionaria o quasi, quando Innocenzo III bandì come extrema ratio la Crociata. È un fatto che esso contava pochi veri e propri adepti (i 'perfetti'), ma molti sostenitori e simpatizzanti (i 'credenti'), e che poggiava su una larga base di tolleranza e di complicità, estesa dall’aristocrazia al clero almeno secolare alle agiate borghesie cittadine ai ceti rurali. È un fatto ch’esso non era affatto un’eresia cristiana, per quanto così potesse presentarsi e moltissimi fossero in buona fede convinti che tale fosse, così com’è obiettivamente vero che molti missionari catari erano di gran lunga moralmente migliori di troppi esponenti del clero ortodosso. Era un’altra religione, estranea al cristianesimo per quanto ne usasse alcune Scritture, e a esso profondamente avversa.
La teologia catara, radicata in realtà non già nel 'Vangelo mistico di Giovanni' bensì nel terreno antico e profondo del manicheismo e del mazdaismo persiano – e in parte più vicina al buddismo che non al cristianesimo –, postulava in ultima analisi la malvagità del creato come prigione dello spirito e la natura satanica del Dio creatore; e alla luce di esso l’amore fuori del matrimonio e magari contra naturam, sterile comunque, era peccato ben minore – se tale era – rispetto all’amore coniugale e fecondo, che prelude al frutto della generazione. Il catarismo, affermatosi nella più gioiosa delle contrade cristiane, postulava la liberazione delle anime umane attraverso l’annientamento della vita, ch’esso vedeva come contaminazione e prigionia dello spirito nella materia. Da qui la sua inconciliabilità profonda col cristianesimo: e l’orrore profondo con il quale gli autentici e consapevoli catari guardavano ai veri cristiani, e viceversa. Volete leggere un manifesto radicalmente anticataro, scritto da uno al quale certo il massacro di Béziers, se ne ebbe notizia, non piacque? Leggete il Cantico delle creature di Francesco d’Assisi.
Il catarismo era una sfida dura e un pericolo obiettivo per la cristianità. In quell’area e in quel momento, esso era dialetticamente e socialmente inarrestabile, invincibile. Giustificava tutto ciò la strage, se e quando ci fu (e Meschini fa bene a sottolineare che, in buona parte, sulla 'Crociata degli albigesi' si sono abbattute la speculazione e la falsificazione laicista e anticlericale)? Qui sospendiamo il giudizio: leggete il libro. Certo, altre soluzioni – e qui mi sbilancio anch’io – avrebbero largamente condotto a una sparizione del cristianesimo in quell’area; magari a un anticipo della Riforma protestante; o a un mutamento perfino negli equilibri geopolitici della regione. Ha questo libro insito un 'pericolo immanente', quello di venir utilizzato come giustificazione alle troppe voci politiche le quali oggi sembrano levarsi a chiedere strampalate 'nuove crociate' contro supposti 'nuovi nemici della cristianità', ammesso che di 'cristianità' ancora si tratti? Anche di ciò è lecito discutere. Ma questa, a dirla con Kipling, è un’altra storia.
La teologia del catarismo era radicalmente estranea alla cristianità perché postulava la malvagità del creato, «prigione dello spirito».
L’esatto opposto della concezione che in quegli stessi anni ispirava il san Francesco del «Cantico delle creature»
«Avvenire» del 1 luglio 2010
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