Cinquantadue detenuti politici rilasciati, un primo segnale di dialogo. Il viaggio di monsignor Mamberti
s. i. a.
“Siamo soddisfatti del lavoro che sta portando avanti la chiesa”. Lo ha detto nel corso della sua visita a Cuba il ministro degli Esteri spagnolo Miguel Angel Moratinos, a proposito del dialogo iniziato il 19 maggio tra Raúl Castro e la gerarchia cattolica nazionale, nelle persone del cardinale e arcivescovo dell’Avana Jaime Ortega e del presidente della Conferenza episcopale Dionisio García. E già un ministro di Zapatero che loda la chiesa è per lo meno singolare. Di tono quasi opposto è invece il commento che su quel dialogo fece un mese fa Osvaldo Payá Sardiñas: leader del Movimento cristiano liberazione, promotore del Progetto Varela per una transizione pacifica e Premio Sakharov del Parlamento europeo.
Un cattolico talmente fervente da essere spesso tacciato di “clericale” dalla propaganda filocastrista: “Non è giusto con il popolo di Cuba, né con la fedele e sofferente chiesa, che alcuni pastori accettino il ruolo di essere interlocutori unici del governo, accettando e praticando così la condizione di esclusione che questo impone”. Le ultime posizioni di Payá sembrano però più accomodante: “Dio voglia che le gestioni della chiesa e del governo spagnolo conseguano la liberazione di tutti i prigionieri politici. Non faremo più commenti fino a che questa situazione non si definisca”. Ma ieri fonti della chiesa cubana hanno annunciato che il regime libererà 52 prigionieri politici, i primi cinque ora e gli altri nei prossimi mesi, quasi a confermare il buon andamento della prudente mediazione della chiesa.
Nel frattempo c’è infatti stata in giugno anche la visita nell’isola di monsignor Dominique Mamberti, segretario per le Relazioni con gli stati, a presiedere la Settimana sociale cattolica nei 75 anni dalle relazioni diplomatiche tra Cuba e Santa Sede. L’appuntamento è stato occasione di un “dialogo tra cubani” con la partecipazione di illustri studiosi cubano-americani come Carmelo Mesa Lago e Jorge Domínguez. Mamberti, però, è stato ricevuto da Raúl Castro, senza incontrarsi con i dissidenti: esattamente come sta facendo il ministro degli Esteri spagnolo Moratinos. E dopo il viaggio l’alto emissario del Vaticano non ha rilasciato interviste né, al di là del generico apprezzamento per l’inizio del dialogo che ha fatto nell’isola.
E’ questo il quadro di un paese che sembra mostrare qualche analogia con la Polonia prima della caduta del comunismo. Senza però essere la Polonia. Soprattutto per non condividere lo stesso tipo di cattolicità militante. Malgrado il regime di Fidel Castro abbia esordito tra il 1959 e il 1961 obbligando alla fuga e all’esilio l’80 per cento dei sacerdoti cattolici e pastori protestanti che operavano a Cuba, malgrado che tra il 1976 e il 1991 la Costituzione abbia proclamato lo stato ufficialmente ateo e l’iscrizione al Partito comunista sia stata formalmente vietata ai credenti, secondo studi delle stesse istituzioni di ricerca ufficiali almeno l’80 per cento della popolazione cubana dichiara di avere credenze religiose. Però la proporzione di cubani battezzati cattolici è scesa dal 90 per cento del 1959, anno del trionfo della Rivoluzione, a non più del 35-40 per cento attuale: anche perché il regime ha avuto cura di favorire tutte le possibili alternative spirituali al cattolicesimo, ai culti afro-cubani alla massoneria (Cuba è l’unico paese comunista a non averla messa la banda) fino ai protestanti.
Malgrado ciò, o forse proprio per questo, fino a quando negli ultimi due o tre anni saltasse fuori il fenomeno dei blog, è stata la chiesa il grande ombrello sotto al quale ha potuto trovare riparo praticamente tutto quel poco di opposizione che all’interno dell’isola si è mossa in un clima di precaria legalità: dal Progetto Varela al Centro cattolico di formazione civica e religiosa alla rivista Vitral. Le stesse Damas de Blanco hanno infine avuto il diritto di manifestare solo quando il cardinale Ortega ha imposto al regime di tollerarle come pre-condizione di dialogo. Così, alla fine, è stato lo stesso regime a decidere di individuare nella chiesa un possibile interlocutore. Dapprima Fidel ha scelto la chiesa mondiale, un approccio culminato con la famosa visita di Giovanni Paolo II all’Avana. Adesso Raúl ha aperto quella interna, rompendo il tabù che precludeva al regime di poter parlare con istituzioni sociali pur riconosciute a livello nazionale su una posizione da pari a pari.
In questo momento, sono addirittura quattro i livelli su cui la cattolicità muove di fronte al regime castrista. C’è infatti il dissenso dei laici cattolici, di cui Payá è il cervello politico e il medico anti-abortista Óscar Elías Biscet, detenuto in carcere, è la figura del martire. C’è la chiesa cubana, che a parte il diritto di manifestare per le Damas de Blanco, ha ottenuto finora la liberazione di detenuti politici o il loro trasferimento vicino alle loro famiglie. C’è la chiesa statunitense, con l’arcivescovo di Chicago e presidente della Conferenza episcopale, il cardinale Francis George, che il 24 giugno è venuto a celebrare una messa alla Basílica de la Caridad del Cobre di Santiago. E c’è appunto la Santa Sede, che col viaggio di Mamberti ha comunque voluto mandare un importante segnale di interessamento: anche se conseguenze concrete, a parte il gesto annunciato ieri sui detenuti, sono tenute ancora segrete, se pure ci sono. Ma è significativo che la commissione cubana dei Diritti umani e riconciliazione nazionale di Elizardo Sánchez Santa Cruz aveva reso noto che nelle scorse ore una quarantina di detenuti politici erano stati interrogati dalle autorità, con domande del tipo “cosa pensate di fare una volta fuori?”. Per Sánchez, lui stesso ex detenuto, “il tipo di passi che in genere preannunciano una scarcerazione”. Poi la conferma che qualcosa a Cuba si muove.
Un cattolico talmente fervente da essere spesso tacciato di “clericale” dalla propaganda filocastrista: “Non è giusto con il popolo di Cuba, né con la fedele e sofferente chiesa, che alcuni pastori accettino il ruolo di essere interlocutori unici del governo, accettando e praticando così la condizione di esclusione che questo impone”. Le ultime posizioni di Payá sembrano però più accomodante: “Dio voglia che le gestioni della chiesa e del governo spagnolo conseguano la liberazione di tutti i prigionieri politici. Non faremo più commenti fino a che questa situazione non si definisca”. Ma ieri fonti della chiesa cubana hanno annunciato che il regime libererà 52 prigionieri politici, i primi cinque ora e gli altri nei prossimi mesi, quasi a confermare il buon andamento della prudente mediazione della chiesa.
Nel frattempo c’è infatti stata in giugno anche la visita nell’isola di monsignor Dominique Mamberti, segretario per le Relazioni con gli stati, a presiedere la Settimana sociale cattolica nei 75 anni dalle relazioni diplomatiche tra Cuba e Santa Sede. L’appuntamento è stato occasione di un “dialogo tra cubani” con la partecipazione di illustri studiosi cubano-americani come Carmelo Mesa Lago e Jorge Domínguez. Mamberti, però, è stato ricevuto da Raúl Castro, senza incontrarsi con i dissidenti: esattamente come sta facendo il ministro degli Esteri spagnolo Moratinos. E dopo il viaggio l’alto emissario del Vaticano non ha rilasciato interviste né, al di là del generico apprezzamento per l’inizio del dialogo che ha fatto nell’isola.
E’ questo il quadro di un paese che sembra mostrare qualche analogia con la Polonia prima della caduta del comunismo. Senza però essere la Polonia. Soprattutto per non condividere lo stesso tipo di cattolicità militante. Malgrado il regime di Fidel Castro abbia esordito tra il 1959 e il 1961 obbligando alla fuga e all’esilio l’80 per cento dei sacerdoti cattolici e pastori protestanti che operavano a Cuba, malgrado che tra il 1976 e il 1991 la Costituzione abbia proclamato lo stato ufficialmente ateo e l’iscrizione al Partito comunista sia stata formalmente vietata ai credenti, secondo studi delle stesse istituzioni di ricerca ufficiali almeno l’80 per cento della popolazione cubana dichiara di avere credenze religiose. Però la proporzione di cubani battezzati cattolici è scesa dal 90 per cento del 1959, anno del trionfo della Rivoluzione, a non più del 35-40 per cento attuale: anche perché il regime ha avuto cura di favorire tutte le possibili alternative spirituali al cattolicesimo, ai culti afro-cubani alla massoneria (Cuba è l’unico paese comunista a non averla messa la banda) fino ai protestanti.
Malgrado ciò, o forse proprio per questo, fino a quando negli ultimi due o tre anni saltasse fuori il fenomeno dei blog, è stata la chiesa il grande ombrello sotto al quale ha potuto trovare riparo praticamente tutto quel poco di opposizione che all’interno dell’isola si è mossa in un clima di precaria legalità: dal Progetto Varela al Centro cattolico di formazione civica e religiosa alla rivista Vitral. Le stesse Damas de Blanco hanno infine avuto il diritto di manifestare solo quando il cardinale Ortega ha imposto al regime di tollerarle come pre-condizione di dialogo. Così, alla fine, è stato lo stesso regime a decidere di individuare nella chiesa un possibile interlocutore. Dapprima Fidel ha scelto la chiesa mondiale, un approccio culminato con la famosa visita di Giovanni Paolo II all’Avana. Adesso Raúl ha aperto quella interna, rompendo il tabù che precludeva al regime di poter parlare con istituzioni sociali pur riconosciute a livello nazionale su una posizione da pari a pari.
In questo momento, sono addirittura quattro i livelli su cui la cattolicità muove di fronte al regime castrista. C’è infatti il dissenso dei laici cattolici, di cui Payá è il cervello politico e il medico anti-abortista Óscar Elías Biscet, detenuto in carcere, è la figura del martire. C’è la chiesa cubana, che a parte il diritto di manifestare per le Damas de Blanco, ha ottenuto finora la liberazione di detenuti politici o il loro trasferimento vicino alle loro famiglie. C’è la chiesa statunitense, con l’arcivescovo di Chicago e presidente della Conferenza episcopale, il cardinale Francis George, che il 24 giugno è venuto a celebrare una messa alla Basílica de la Caridad del Cobre di Santiago. E c’è appunto la Santa Sede, che col viaggio di Mamberti ha comunque voluto mandare un importante segnale di interessamento: anche se conseguenze concrete, a parte il gesto annunciato ieri sui detenuti, sono tenute ancora segrete, se pure ci sono. Ma è significativo che la commissione cubana dei Diritti umani e riconciliazione nazionale di Elizardo Sánchez Santa Cruz aveva reso noto che nelle scorse ore una quarantina di detenuti politici erano stati interrogati dalle autorità, con domande del tipo “cosa pensate di fare una volta fuori?”. Per Sánchez, lui stesso ex detenuto, “il tipo di passi che in genere preannunciano una scarcerazione”. Poi la conferma che qualcosa a Cuba si muove.
«Il Foglio» dell'8 luglio 2010
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