di Massimo Gramellini
Ma chi è Totti? Il sorriso da bravo ragazzo che traspare negli spot in cui lui e la moglie ripropongono Casa Vianello in versione meno alfabetizzata? Oppure il ghigno da posseduto che oscura lo schermo, mentre la regia lavora di replay sul calcione a tradimento con cui ha appena steso un avversario? E non un avversario qualsiasi, ma Balotelli, altra icona double-face: provocatore strafottente (un nero che grida «romani di m...» con accento bresciano è un sintomo inoppugnabile di integrazione) e però anche vittima emblematica del razzismo strisciante.
Chi è dunque Totti? È la prova di quanto un puledro di razza possa essere azzoppato dalle due maledizioni dell’identità italiana: la famiglia iperprotettiva e lo spirito di fazione. A trentaquattro anni, il miglior calciatore del nostro Paese resta un pupo di mamma e di curva, incapace di reggere alle pressioni del ruolo di capobranco a cui è stato issato più dal talento che dal carattere. Ingozzato di coccole, nella vita ha sofferto troppo poco per essere un leader, al punto che ogni volta che è chiamato a diventarlo sbraca.
La salvezza, per lui, sarebbe stata emigrare ad almeno mille chilometri dalle sottane della sua Roma. Perché solo lontano da quell’amore che lo vizia e lo giustifica avrebbe potuto diventare finalmente adulto. Ha scelto di non rischiare, cioè di non crescere. Ed è rimasto fermo. Fermo allo sputo con cui rinfrescò le guance del danese Poulsen agli Europei del 2004. Anche allora era stato provocato. Ma i campioni vengono sempre provocati, per definizione. Quanti insulti intimi riceverà Messi in ogni partita? L’eroe è tale se sa dominare le sue emozioni. È l’auriga di se stesso, che mette le redini ai cavalli dell’ego. Totti invece è il prodotto di una società isterica, dominata da un senso malinteso dell’onore.
Ancora ieri, prima di chiedere genericamente scusa (senza mai nominare Balotelli né Milito, colpito a freddo all’inizio del secondo tempo) aveva spiegato che la sua era stata una reazione a «offese dirette a infangare una città e un popolo intero». Un popolo offeso dal barbaro invasore, capite? Per chi non lo sapesse, si sta parlando di una partita di pallone. Ma il capitano della Roma ha preso molto sul serio il ruolo attribuitogli dai tifosi. Lui è il Gladiatore di Russell Crowe, «a un mio cenno scatenate l’inferno». La differenza è che l’eroe cinematografico incarnava i valori trasmessigli da Marco Aurelio, non da Er Patata.
Chi è dunque Totti? È la prova di quanto un puledro di razza possa essere azzoppato dalle due maledizioni dell’identità italiana: la famiglia iperprotettiva e lo spirito di fazione. A trentaquattro anni, il miglior calciatore del nostro Paese resta un pupo di mamma e di curva, incapace di reggere alle pressioni del ruolo di capobranco a cui è stato issato più dal talento che dal carattere. Ingozzato di coccole, nella vita ha sofferto troppo poco per essere un leader, al punto che ogni volta che è chiamato a diventarlo sbraca.
La salvezza, per lui, sarebbe stata emigrare ad almeno mille chilometri dalle sottane della sua Roma. Perché solo lontano da quell’amore che lo vizia e lo giustifica avrebbe potuto diventare finalmente adulto. Ha scelto di non rischiare, cioè di non crescere. Ed è rimasto fermo. Fermo allo sputo con cui rinfrescò le guance del danese Poulsen agli Europei del 2004. Anche allora era stato provocato. Ma i campioni vengono sempre provocati, per definizione. Quanti insulti intimi riceverà Messi in ogni partita? L’eroe è tale se sa dominare le sue emozioni. È l’auriga di se stesso, che mette le redini ai cavalli dell’ego. Totti invece è il prodotto di una società isterica, dominata da un senso malinteso dell’onore.
Ancora ieri, prima di chiedere genericamente scusa (senza mai nominare Balotelli né Milito, colpito a freddo all’inizio del secondo tempo) aveva spiegato che la sua era stata una reazione a «offese dirette a infangare una città e un popolo intero». Un popolo offeso dal barbaro invasore, capite? Per chi non lo sapesse, si sta parlando di una partita di pallone. Ma il capitano della Roma ha preso molto sul serio il ruolo attribuitogli dai tifosi. Lui è il Gladiatore di Russell Crowe, «a un mio cenno scatenate l’inferno». La differenza è che l’eroe cinematografico incarnava i valori trasmessigli da Marco Aurelio, non da Er Patata.
«La Stampa» del 7 maggio 2010
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