di Francesco Prisco
Ha lo sguardo basso alla maniera dei filosofi cinici, un profilo tagliente da ricordare le stampe di Goya e l’ardire di definirsi materialista storico, «almeno nel tentativo, perché non è mica facile, dopo tutto, essere un materialista storico». Ha una rara capacità affabulatoria ed una memoria prodigiosa, attraverso la quale riesce a ripercorrere, in una chiacchierata di un paio d’ore, almeno tre millenni di letteratura universale, con divertita propensione a perdersi. Ha, soprattutto, uno dei pochi nomi che in Italia, quando si parla di cultura, nel bene e nel male mettono ancora soggezione: Edoardo Sanguineti.
Il profeta del Gruppo 63 arriva nel cuore del Ravello Festival per discorrere del “Gioco della poesia”. Immancabilmente fa proseliti tra quanti non lo conoscevano abbastanza e al tempo stesso, com’è nel suo stile, crea scompiglio tra quanti credevano di conoscerlo. A che gioco assomiglia la poesia?
Il profeta del Gruppo 63 arriva nel cuore del Ravello Festival per discorrere del “Gioco della poesia”. Immancabilmente fa proseliti tra quanti non lo conoscevano abbastanza e al tempo stesso, com’è nel suo stile, crea scompiglio tra quanti credevano di conoscerlo. A che gioco assomiglia la poesia?
«Un componimento poetico – spiega – è un indovinello un po’ particolare, perché ammette più soluzioni. Gli indovinelli sin dai tempi dell’Oracolo di Delfi hanno un’unica soluzione. Noi, invece, siamo ancora qui a discutere su cosa significhi “A Silvia” o “Tanto gentile e tanto onesta pare”».
Uno degli errori più grandi, ad ogni modo, è quello di considerare il concetto di poesia dotato di un valore in sé. «Quando pensiamo alla poesia – dice l’autore del “Giuoco dell’oca” – ci viene in mente subito qualcosa di nobile, di elevato. Siamo portati a credere che una componimento abbia valore in sé perché la poesia subisce ancora il retaggio di una cultura magica presso la quale il “dire” corrispondeva ad un “fare”. Una cultura antichissima, dal momento che l’uomo è l’animale che scrive poesie. In realtà ci sbagliamo: esistono poesie buone e poesie cattive. Anche la filastrocca “Trenta giorni a novembre” è una poesia. Serve ad imparare a memoria con estrema facilità nozioni che ci serviranno per la vita. Ma ci guardiamo dal considerarla un’opera sublime».
C’è un motivo per il quale a scuola i ragazzi non imparano più le poesie a memoria? «E’ colpa dei professori», secondo Sanguineti. «La poesia è fatta per essere letta, riletta e, conseguentemente, conservata nella memoria. Tuttavia costringere uno studente ad andare per ore avanti e indietro in giardino per imparare il “5 maggio”, che pure è un capolavoro assoluto, non mi sembra un’azione edificante. Quello stesso studente magari impara a memoria “Satisfaction” dei Rolling Stones, senza che nessuno glielo imponga, soltanto per il fatto che gli piace la musicalità di quei versi. Sarebbe insomma opportuno che i professori mettessero le poesie in discussione con i loro studenti. C’è la possibilità che queste finiscano col piacere, l’essere lette, rilette e, magari, imparate a memoria».
Una riflessione a parte Sanguineti la dedica prima alla parola e poi al concetto di Neoavanguardia: «Quando lanciammo il Gruppo 63 e parlammo di Nuova Avanguardia il prefisso “neo” aveva ancora un valore di rottura, lo stesso che aveva posseduto per tutto il corso della storia della cultura. Si pensi per esempio ai neòteroi, ai poeti novi, al Dolce stil novo o addirittura al Neorealismo. Si era “neo” perché si intendeva recuperare qualcosa dal passato per costruire il futuro. Oggi quello stesso prefisso ha un valore reazionario: si pensi al termine “Neocon”. Può mai un conservatore essere nuovo?».
Della stagione neoavanguardista Sanguineti poi ricorda: «All’inizio degli anni Sessanta i reduci della cultura italiana del Dopoguerra si erano tutti fermati. Da Moravia a Luzi, fino a Pasolini avevano un po’ perso la testa. Ci divertimmo a dare una scossa a quell’Italia, dimostrando che fare avanguardia era ancora possibile, e soprattutto che scandalizzare era ancora possibile».
Oggi c’è ancora chi sa giocare fino a scandalizzare? «Al cinema lo fa molto bene Lars Von Trier, un grande. Da noi abbiamo Ciprì e Maresco. Hanno fatto solo tre film ma continuano a spiazzare lo spettatore. Se entri in una sala mentre proiettano un loro lavoro, vedi due o tre persone con l’espressione tutt’altro che compiaciuta. Buon segno». Ma c’è ancora chi intende la letteratura come gioco? «Per quanto riguarda la prosa dico Tiziano Scarpa e Aldo Nove. Per quanto riguarda la poesia mi piace molto Marcello Frixione, uno giovane che scrive di ninfe che indossano il tanga».
«Il Sole 24 Ore» del 11 agosto 2006
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