di Giordano Bruno Guerri
Si dice che la vecchia retorica risorgimentale sia ormai confinata nella soffitta di un robivecchi. In parte è vero: persino i manuali scolastici di storia accennano alle molte ombre del processo politico e militare che portò all’Unità. Lo stesso non accade per la letteratura, dove domina ancora il pompierismo celebrante la nuova Italia. Mi auguro che siano pochi i docenti vogliosi di propinare agli allievi i versi non memorabili di Mameli o le rime della Spigolatrice di Sapri di Luigi Mercantini («eran trecento, eran giovani e forti», per capirci). Fatto sta che nelle storie e nelle antologie letterarie compare soltanto l’acritica esaltazione di quegli anni gloriosi: come se gli intellettuali non avessero prodotto altro che memorie di battaglie eroiche o resoconti pedagogici di amore patriottico.
Possibile che non siano esistiti controcanti alla cultura ufficiale, diversi dalle edificanti pagine deamicisiane di Cuore? Esce oggi una sorprendente antologia a cura di Giuseppe Iannaccone, Petrolio e assenzio (Salerno, pagg. 246, euro 14), che dimostra che le cose stanno diversamente. Già il titolo della raccolta, ispirato a una poesia del calabrese Domenico Milelli, è tutto un programma: il petrolio richiama alla mente l’arma dei rivoluzionari al tempo della Comune parigina; l’assenzio è il potente liquore verde, bevuto in lunghe sedute alcooliche dai poeti maledetti francesi.
Iannaccone ha rintracciato nelle biblioteche una ricca e sorprendente galleria di autori che espressero un’insoddisfazione profonda per la realtà politica, sociale e economica scaturita dal Risorgimento. Una selva di poeti di valore diverso, che la memoria nazionale ha quasi cancellato e occultato per lasciare spazio alle testimonianze liriche, accademiche o agiografiche. I toni che incontriamo non sono quelli, esaltanti e paludati, di gran parte della nostra letteratura nel secondo ’800. Al contrario, abbondano le invettive e le requisitorie di poeti che accusano il ceto dirigente savoiardo, colpevole di aver tradito le speranze di libertà, emancipazione e benessere promesse dalle fanfare garibaldine.
In mezzo a verseggiatori più o meno sconosciuti, compare qualche nome insospettabile. Grandi poeti all’esordio o quasi, più tardi saliti alla fama con ben altri accenti. I casi più clamorosi e noti sono quelli del satanico (e massone) Giosue Carducci, portabandiera di un’ideologia giacobina, repubblicana e anticlericale; e del più imprevedibile Giovanni Pascoli, ripescato dalla curiosità di Iannaccone quando il timido romagnolo non celebrava ancora né fanciullini né umili tamerici, ma sventolava i vessilli rossi della democrazia socialista. Altri due nomi celebri: il giovane avvocato Filippo Turati, che non ha ancora fondato il Partito Socialista quando scaglia anatemi e bestemmie contro ricchi e borghesi, e la maestrina di Lodi Ada Negri, che per i suoi versi infuocati viene soprannominata «la poetessa del Quarto Stato», ben prima di essere accolta nel 1940 - unica donna - nell’Accademia mussoliniana.
Sono meno noti gli antagonisti di professione: scapigliati come Ferdinando Fontana e Antonio Ghislanzoni, che tra osterie e redazioni giornalistiche polemizzano contro lo Stato borghese; veristi (come il catanese Mario Rapisardi e il romagnolo Olindo Guerrini) che passano in rassegna una pietosa folla di «vinti» e miserabili: operai sfruttati, contadini del Sud affamati, minatori, emigranti, perfino ladri e disoccupati alle prese con un presente peggiore del passato.
Insieme a altri sediziosi, questi poeti hanno dichiarato guerra ai governi postunitari, di destra e di sinistra: promettono la vendetta della plebe, imprecano contro la corruzione romana e il trasformismo parlamentare, si scagliano contro la Chiesa. Rappresentano una generazione di artisti che non vogliono aderire ai miti consolatori e patriottardi dell’Italia dei Savoia. Denunciano storture, scandali e ingiustizie di un potere affarista, che soffoca ogni tentativo di opposizione. E non si tratta - è un altro elemento di riflessione - di una contestazione circoscritta a alcune regioni: in Petrolio e assenzio troviamo poeti del Nord, testimoni di una società industriale spietata, e letterati meridionali, spettatori di una realtà contadina immobile e crudele.
Quello che Iannaccone ha abilmente riportato alla luce è un vero continente sommerso, un importante capitolo di controcultura (da consigliare ai nostri insegnanti), che servirà a riscrivere le pagine della storia letteraria dal 1870 fino al Novecento: e anche a documentare uno stato d’animo, più diffuso di quanto si creda, di insoddisfazione per come l’Italia aveva raggiunto l’Unità e l’indipendenza. Un «Paese reale», fatto di iniquità e privilegi, che nulla aveva a che vedere con le utopie del «Paese ideale» sognato da patrioti più idealisti.
Possibile che non siano esistiti controcanti alla cultura ufficiale, diversi dalle edificanti pagine deamicisiane di Cuore? Esce oggi una sorprendente antologia a cura di Giuseppe Iannaccone, Petrolio e assenzio (Salerno, pagg. 246, euro 14), che dimostra che le cose stanno diversamente. Già il titolo della raccolta, ispirato a una poesia del calabrese Domenico Milelli, è tutto un programma: il petrolio richiama alla mente l’arma dei rivoluzionari al tempo della Comune parigina; l’assenzio è il potente liquore verde, bevuto in lunghe sedute alcooliche dai poeti maledetti francesi.
Iannaccone ha rintracciato nelle biblioteche una ricca e sorprendente galleria di autori che espressero un’insoddisfazione profonda per la realtà politica, sociale e economica scaturita dal Risorgimento. Una selva di poeti di valore diverso, che la memoria nazionale ha quasi cancellato e occultato per lasciare spazio alle testimonianze liriche, accademiche o agiografiche. I toni che incontriamo non sono quelli, esaltanti e paludati, di gran parte della nostra letteratura nel secondo ’800. Al contrario, abbondano le invettive e le requisitorie di poeti che accusano il ceto dirigente savoiardo, colpevole di aver tradito le speranze di libertà, emancipazione e benessere promesse dalle fanfare garibaldine.
In mezzo a verseggiatori più o meno sconosciuti, compare qualche nome insospettabile. Grandi poeti all’esordio o quasi, più tardi saliti alla fama con ben altri accenti. I casi più clamorosi e noti sono quelli del satanico (e massone) Giosue Carducci, portabandiera di un’ideologia giacobina, repubblicana e anticlericale; e del più imprevedibile Giovanni Pascoli, ripescato dalla curiosità di Iannaccone quando il timido romagnolo non celebrava ancora né fanciullini né umili tamerici, ma sventolava i vessilli rossi della democrazia socialista. Altri due nomi celebri: il giovane avvocato Filippo Turati, che non ha ancora fondato il Partito Socialista quando scaglia anatemi e bestemmie contro ricchi e borghesi, e la maestrina di Lodi Ada Negri, che per i suoi versi infuocati viene soprannominata «la poetessa del Quarto Stato», ben prima di essere accolta nel 1940 - unica donna - nell’Accademia mussoliniana.
Sono meno noti gli antagonisti di professione: scapigliati come Ferdinando Fontana e Antonio Ghislanzoni, che tra osterie e redazioni giornalistiche polemizzano contro lo Stato borghese; veristi (come il catanese Mario Rapisardi e il romagnolo Olindo Guerrini) che passano in rassegna una pietosa folla di «vinti» e miserabili: operai sfruttati, contadini del Sud affamati, minatori, emigranti, perfino ladri e disoccupati alle prese con un presente peggiore del passato.
Insieme a altri sediziosi, questi poeti hanno dichiarato guerra ai governi postunitari, di destra e di sinistra: promettono la vendetta della plebe, imprecano contro la corruzione romana e il trasformismo parlamentare, si scagliano contro la Chiesa. Rappresentano una generazione di artisti che non vogliono aderire ai miti consolatori e patriottardi dell’Italia dei Savoia. Denunciano storture, scandali e ingiustizie di un potere affarista, che soffoca ogni tentativo di opposizione. E non si tratta - è un altro elemento di riflessione - di una contestazione circoscritta a alcune regioni: in Petrolio e assenzio troviamo poeti del Nord, testimoni di una società industriale spietata, e letterati meridionali, spettatori di una realtà contadina immobile e crudele.
Quello che Iannaccone ha abilmente riportato alla luce è un vero continente sommerso, un importante capitolo di controcultura (da consigliare ai nostri insegnanti), che servirà a riscrivere le pagine della storia letteraria dal 1870 fino al Novecento: e anche a documentare uno stato d’animo, più diffuso di quanto si creda, di insoddisfazione per come l’Italia aveva raggiunto l’Unità e l’indipendenza. Un «Paese reale», fatto di iniquità e privilegi, che nulla aveva a che vedere con le utopie del «Paese ideale» sognato da patrioti più idealisti.
«Il Giornale» del 27 maggio 2010
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