di Gianni Riotta
Capita a tanti, arrivati all'età adulta, di ripensare agli anni della scuola con un misto di rimpianto e indulgenza, pronti a sorridere di tante fesserie compiute e sogni che la realtà – la più dura delle maestre – ha rivelato vani. Capita anche a me: con una eccezione. Al liceo, con un pugno di ragazzi alcuni oggi famosi in Italia, organizzavamo assemblee e dibattiti non sui temi di una generazione, da Parigi a Berkeley, ma su un fenomeno di cui pochi parlavano. La mafia, la criminalità organizzata.
Era allora opinione diffusa che la criminalità organizzata, i suoi legami con la classe politica, l'effetto di corruzione che produce nella società civile, il logorio che induce sulle aziende sane, mettendole fuori business e lasciando prosperare quelle non competitive ma affiliate, fosse evento residuale. Figlio dei tempi della guerra per l'acqua, la fine del latifondo, la riforma agraria, la rottura di un sistema feudale che in Sicilia era durato fino alla Seconda guerra mondiale. Il luogo della ricerca storiografica di Francesco Renda e del kolossal di Peppuccio Tornatore Baarìa. Ancora a metà degli anni Sessanta la gerarchia cattolica poteva dire che «la mafia è un'invenzione dei giornali del Nord», e la politica auspicare, a volte perfino in buona fede, che l'industrializzazione del Mezzogiorno potesse mettere, pian piano, fuori gioco i padrini.
Fu una rivista inglese, la «New Left Review», ad argomentare come la mafia sapesse trasformarsi da racket dei campi e dell'irrigazione in struttura urbana, prima organizzando il traffico degli stupefacenti, poi realizzando un network di controllo del consenso politico radicale e infine – come poi ha dimostrato Roberto Saviano – diventando globale. Una holding capace di produrre a Kabul, vendere a New York, trasformare a Marsiglia e Palermo, distribuire in ogni capitale europea e latino-americana, con un just in time e un controllo qualità che la Toyota si sogna.
Come noi liceali avessimo intuito tutto questo non so bene. Ci ispirò credo un certo criterio di sussidiarietà, occuparci dei guai vicini e fare qualcosa. La politica arricciò il naso, «la mafia è un relitto, parliamo di modernità» sentii dire a un futuro segretario di partito. Peccato che, come poi dimostrarono Ivan Lo Bello e Antonello Montante schierando la Confindustria di Sicilia contro il racket, la mafia, produzione criminale, fosse l'ostacolo irriducibile a ogni innovazione e sviluppo industriale, dei servizi, del terziario e civile.
La vita e il lavoro mi portarono poi via molto presto dalla mia città e di mafia non mi occupai più. Se non quando il Corriere della Sera decise di catapultarmi da Manhattan alla Kalsa per raccontare il diario di una Palermo in lutto per la morte di Giovanni Falcone e quando, alla testa del Tg1, invitai l'allora presidente di Confindustria, Luca Montezemolo, a dare man forte ai suoi uomini in Sicilia. Il giorno dopo il Financial Times riprese l'intervista e il mondo scoprì che l'Isola era finalmente schierata in ogni suo settore, gli studenti, gli intellettuali, i produttori, la chiesa, contro il racket.
E' quindi con gioia e passione che seguo il lavoro del mio collega Roberto Galullo, che con tanti altri, al Sole 24 Ore e in altri giornali, tiene ora il suo diario di denuncia e inchiesta contro la mafia. Per capire appieno queste pagine, la forza che hanno dietro, lo slancio che può portare anche ad alzare la voce, nel senso del monito del vecchio poeta tedesco «noi non si potè essere gentili...» a coloro che verranno, dovreste conoscere Roberto. La sua scrivania ingombra di ritagli e testi sul racket, le sue telefonate con magistrati e inquirenti, i suoi viaggi e le sue vigilie in tribunale, sui luoghi del delitto, a rileggere un bilancio taroccato. Perfino il suo colletto della camicia slacciato, da cui fa capolino, fiera, la Lupa della Roma Calcio.
Le pagine del libro hanno la stessa sfrontatezza e lo stesso impegno. Non trovate da ridire davanti a questa o quella affermazione, non argomentate con sottigliezze capziose contro questa o quella conclusione. Si può dissentire su questo o quell'episodio, non essere d'accordo con Roberto su questo o quel personaggio. Ma senza le spallate che i reporter, i giornalisti capaci di credere ancora nel bene e nel male, i collettori di realtà – la dura madre – si ostinano ad affibbiare, tornerebbe anche oggi la stessa indolenza pubblica dei miei anni al liceo. La Mafia? Non esageriamo!
Queste inchieste, questi personaggi, questi traffici, queste denunce, quando le condividerete e quando vi lasceranno con un dubbio dentro, hanno un merito. Ci richiamano tutti a guardare a questa Italia 2010, a un passo dal compleanno di un secolo e mezzo, come un'incompiuta. Lo sviluppo economico smantellerà, sola medicina, il racket. È l'impegno nazionale più importante in occasione del centocinquantesimo anniversario dell'Unità d'Italia e il libro di Galullo è un omaggio a questa Unità.
Leggetelo dunque per imparare, ricordare. Io l'ho letto con la stessa emozione con cui ricevetti il Premio don Puglisi per le inchieste tv che avevamo sviluppato sulla mafia. L'idea che un impegno non sia mai venuto meno, da ragazzi a oggi, che altre intelligenze e professionalità siano in prima fila e che la criminalità organizzata, come tanti efferati spettri del XX secolo, abbia i giorni contati.
Era allora opinione diffusa che la criminalità organizzata, i suoi legami con la classe politica, l'effetto di corruzione che produce nella società civile, il logorio che induce sulle aziende sane, mettendole fuori business e lasciando prosperare quelle non competitive ma affiliate, fosse evento residuale. Figlio dei tempi della guerra per l'acqua, la fine del latifondo, la riforma agraria, la rottura di un sistema feudale che in Sicilia era durato fino alla Seconda guerra mondiale. Il luogo della ricerca storiografica di Francesco Renda e del kolossal di Peppuccio Tornatore Baarìa. Ancora a metà degli anni Sessanta la gerarchia cattolica poteva dire che «la mafia è un'invenzione dei giornali del Nord», e la politica auspicare, a volte perfino in buona fede, che l'industrializzazione del Mezzogiorno potesse mettere, pian piano, fuori gioco i padrini.
Fu una rivista inglese, la «New Left Review», ad argomentare come la mafia sapesse trasformarsi da racket dei campi e dell'irrigazione in struttura urbana, prima organizzando il traffico degli stupefacenti, poi realizzando un network di controllo del consenso politico radicale e infine – come poi ha dimostrato Roberto Saviano – diventando globale. Una holding capace di produrre a Kabul, vendere a New York, trasformare a Marsiglia e Palermo, distribuire in ogni capitale europea e latino-americana, con un just in time e un controllo qualità che la Toyota si sogna.
Come noi liceali avessimo intuito tutto questo non so bene. Ci ispirò credo un certo criterio di sussidiarietà, occuparci dei guai vicini e fare qualcosa. La politica arricciò il naso, «la mafia è un relitto, parliamo di modernità» sentii dire a un futuro segretario di partito. Peccato che, come poi dimostrarono Ivan Lo Bello e Antonello Montante schierando la Confindustria di Sicilia contro il racket, la mafia, produzione criminale, fosse l'ostacolo irriducibile a ogni innovazione e sviluppo industriale, dei servizi, del terziario e civile.
La vita e il lavoro mi portarono poi via molto presto dalla mia città e di mafia non mi occupai più. Se non quando il Corriere della Sera decise di catapultarmi da Manhattan alla Kalsa per raccontare il diario di una Palermo in lutto per la morte di Giovanni Falcone e quando, alla testa del Tg1, invitai l'allora presidente di Confindustria, Luca Montezemolo, a dare man forte ai suoi uomini in Sicilia. Il giorno dopo il Financial Times riprese l'intervista e il mondo scoprì che l'Isola era finalmente schierata in ogni suo settore, gli studenti, gli intellettuali, i produttori, la chiesa, contro il racket.
E' quindi con gioia e passione che seguo il lavoro del mio collega Roberto Galullo, che con tanti altri, al Sole 24 Ore e in altri giornali, tiene ora il suo diario di denuncia e inchiesta contro la mafia. Per capire appieno queste pagine, la forza che hanno dietro, lo slancio che può portare anche ad alzare la voce, nel senso del monito del vecchio poeta tedesco «noi non si potè essere gentili...» a coloro che verranno, dovreste conoscere Roberto. La sua scrivania ingombra di ritagli e testi sul racket, le sue telefonate con magistrati e inquirenti, i suoi viaggi e le sue vigilie in tribunale, sui luoghi del delitto, a rileggere un bilancio taroccato. Perfino il suo colletto della camicia slacciato, da cui fa capolino, fiera, la Lupa della Roma Calcio.
Le pagine del libro hanno la stessa sfrontatezza e lo stesso impegno. Non trovate da ridire davanti a questa o quella affermazione, non argomentate con sottigliezze capziose contro questa o quella conclusione. Si può dissentire su questo o quell'episodio, non essere d'accordo con Roberto su questo o quel personaggio. Ma senza le spallate che i reporter, i giornalisti capaci di credere ancora nel bene e nel male, i collettori di realtà – la dura madre – si ostinano ad affibbiare, tornerebbe anche oggi la stessa indolenza pubblica dei miei anni al liceo. La Mafia? Non esageriamo!
Queste inchieste, questi personaggi, questi traffici, queste denunce, quando le condividerete e quando vi lasceranno con un dubbio dentro, hanno un merito. Ci richiamano tutti a guardare a questa Italia 2010, a un passo dal compleanno di un secolo e mezzo, come un'incompiuta. Lo sviluppo economico smantellerà, sola medicina, il racket. È l'impegno nazionale più importante in occasione del centocinquantesimo anniversario dell'Unità d'Italia e il libro di Galullo è un omaggio a questa Unità.
Leggetelo dunque per imparare, ricordare. Io l'ho letto con la stessa emozione con cui ricevetti il Premio don Puglisi per le inchieste tv che avevamo sviluppato sulla mafia. L'idea che un impegno non sia mai venuto meno, da ragazzi a oggi, che altre intelligenze e professionalità siano in prima fila e che la criminalità organizzata, come tanti efferati spettri del XX secolo, abbia i giorni contati.
«Il Sole 24 Ore» del 20 maggio 2010
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