La domenica? Ora si zappa Un milione di agricoltori per hobby
di Antonio Giorgi
Vangare e seminare in proprio costa fatica e tempo da investire ma sempre più italiani si dedicano alle attività agricole per avere ortaggi e frutta fatti crescere con le proprie mani e davvero a chilometri zero E c’è chi non disdegna l’allevamento di animali come polli, conigli e maiali
Nel 1979 per i tipi di Mondadori comparve un libro che ebbe un qualche successo. Si intitolava Robinson ’80. Manuale per una probabile salvezza e consentiva al suo autore – il giornalista e divulgatore fiorentino Francesco Casatello – di proporre la strategia del ritorno alla terra, cioè all’agricoltura, come occasione «per reimpiegare utilmente il patrimonio di conoscenze e di valori che la civiltà cittadina ci ha dato». Trent’anni dopo, complice da un lato l’insopportabilità della vita nelle metropoli e dall’altra la crisi economica che obbliga a ripensare i valori e i modi dell’esistenza quotidiana, il ritorno (parziale) alla campagna coinvolge almeno un milione di italiani che in precedenza avevano fatto scelte opposte: l’abbandono dei campi, l’urbanizzazione, il rifiuto di sporcarsi le mani, di sudare, di chinare la schiena verso la terra che per sua natura 'è bassa'.
Sempre più italiani si scoprono così agricoltori per hobby, agricoltori della domenica o del weekend . Li chiamano anche hobby farmers, ma la musica è sempre la stessa: impiegati, professionisti, operai, dirigenti, autonomi, pensionati si mettono a coltivare un pezzetto di terreno. Un po’ per pura e semplice passione, un po’ per distrarsi, ritemprarsi e fare esercizio fisico, un po’ (anzi, fondamentalmente) per ottenere prodotti sani e davvero a chilometro zero da destinare all’autoconsumo familiare, motivazione prevalente due volte su tre.
Intendiamoci: qui non stiamo parlando della massaia che coltiva qualche pianta di pomodoro o un po’ di prezzemolo in una vaschetta sul balcone, e nemmeno della realtà dei piccoli orticelli domestici che ormai spuntano come funghi. Parliamo di agricoltura vera anche se praticata su terreni di limitata estensione, compresa in genere tra l’ettaro e l’ettaro e mezzo, cioè diecimila – quindicimila metri quadri. Un’agricoltura comunque ben distinta da quella pur sempre professionale effettuata da soggetti che hanno un’altra attività prevalente e dedicano ai campi meno del 50% del proprio impegno lavorativo, condizione che in Italia riguarda il 70% dei conduttori.
Un recente rapporto di Nomisma evidenzia la vastità del fenomeno degli hobby farmers, agricoltori amatoriali che nell’identikit emerso dalla ricerca si caratterizzano per la disponibilità di un piccolo terreno da mettere a frutto nel tempo libero senza finalità speculative o commerciali. Molti il terreno lo hanno ricevuto in eredità (39,4% dei casi), altri lo hanno acquistato (36%), i rimanenti ne dispongono a titolo di affidamento o di locazione. Se a livello internazionale la tendenza a questa tipologia di ritorno alla terra è in crescita, a livello italiano – sottolineano gli autori della ricerca – essa rappresenta «una realtà consolidata», non quantificabile con esattezza in quanto estranea alla rilevazione censuaria. Parlare di un milione o un milione e 200mila soggetti coinvolti significa pertanto proporre solo delle stime, mentre la crisi economica che porta a riscoprire la convenienza di determinati generi alimentari prodotti in proprio non potrà che incentivare la diffusione del fenomeno.
Cosa coltivano questi hobbisti? Ortaggi, in quasi il 90% dei casi. Frutta, nel 65%. Tre su dieci si dedicano anche alle vite, altrettanti all’ulivo. Quasi un metà di loro alleva polli o conigli, qualcuno il maiale. Interessante è poi notare che nella stragrande maggioranza (7 su 10) si professano consapevoli di svolgere un’azione a tutela dell’ambiente e del territorio, con ricadute positive per chi fa vita di città. La motivazione economica pura (la voglia di lucro, insomma) sembra essere del tutto assente. Non si coltiva per vendere, anche se nulla vieta di regalare il surplus agli amici o ai colleghi d’ufficio. Si vanga e si zappa, si semina e si raccoglie per l’autoconsumo familiare (61,9%), per stare all’aria aperta (61%), per risparmiare (24,9%).
Il quadro complessivo di questa agricoltura della domenica, sempre più gratificante, sempre più diffusa e in espansione anche qualitativa, amica dell’ambiente, protesa alla salvaguardia di certe colture di nicchia o a rischio di estinzione, fa da contraltare alla condizione critica in cui versa nel nostro Paese l’agricoltura professionale afflitta da mali endemici come la bassa produttività o la dimensione media delle imprese, 7,6 ettari contro i 54 del Regno Unito, i 52 della Francia, i 46 della Germania, i 24 della Spagna. Certo, nessun Paese europeo si è avvicinato alle estensioni ipotizzate dal piano Mansholt del 1968 (Sicco Mansholt, olandese, era all’epoca vicepresidente della Commissione) che prevedeva aziende di 80-120 ettari, con uno, massimo due addetti. Il piano è rimasto lettera morta, le proposte così ambiziose sono state in toto disattese e ritirate, ma l’agricoltura UE dagli albori della Pac ad oggi ha saputo camminare con le proprie gambe pur tra mille difficoltà. Solo l’Italia è rimasta al palo, tanto che il reddito reale per addetto è sceso tra il 2005 e il 2007 del 12,1 per cento mentre in Europa è cresciuto del 7,7. Intanto tra il 2000 e il 2009 i prezzi interni dei mezzi di produzione si sono impennati di quasi il 27%.
Un settore che la politica aveva sempre considerato alla stregua di comparto da sovvenzionare per tutelare l’occupazione e raggranellare consensi elettorali più che come ambito strategico dell’economia nazionale, sta forse per arrivare al punto di non ritorno. La concorrenza estera sempre più agguerrita farà il resto. Domani, chissà?, potremo gustare un frutto o una insalata autenticamente made in Italy solo se qualche agricoltore della domenica, uno di questi Robinson del 2000, ce ne farà graziosamente dono. A proposito, quel fazzoletto di terra che era dello zio... Sarà meglio andare a vedere.
Sempre più italiani si scoprono così agricoltori per hobby, agricoltori della domenica o del weekend . Li chiamano anche hobby farmers, ma la musica è sempre la stessa: impiegati, professionisti, operai, dirigenti, autonomi, pensionati si mettono a coltivare un pezzetto di terreno. Un po’ per pura e semplice passione, un po’ per distrarsi, ritemprarsi e fare esercizio fisico, un po’ (anzi, fondamentalmente) per ottenere prodotti sani e davvero a chilometro zero da destinare all’autoconsumo familiare, motivazione prevalente due volte su tre.
Intendiamoci: qui non stiamo parlando della massaia che coltiva qualche pianta di pomodoro o un po’ di prezzemolo in una vaschetta sul balcone, e nemmeno della realtà dei piccoli orticelli domestici che ormai spuntano come funghi. Parliamo di agricoltura vera anche se praticata su terreni di limitata estensione, compresa in genere tra l’ettaro e l’ettaro e mezzo, cioè diecimila – quindicimila metri quadri. Un’agricoltura comunque ben distinta da quella pur sempre professionale effettuata da soggetti che hanno un’altra attività prevalente e dedicano ai campi meno del 50% del proprio impegno lavorativo, condizione che in Italia riguarda il 70% dei conduttori.
Un recente rapporto di Nomisma evidenzia la vastità del fenomeno degli hobby farmers, agricoltori amatoriali che nell’identikit emerso dalla ricerca si caratterizzano per la disponibilità di un piccolo terreno da mettere a frutto nel tempo libero senza finalità speculative o commerciali. Molti il terreno lo hanno ricevuto in eredità (39,4% dei casi), altri lo hanno acquistato (36%), i rimanenti ne dispongono a titolo di affidamento o di locazione. Se a livello internazionale la tendenza a questa tipologia di ritorno alla terra è in crescita, a livello italiano – sottolineano gli autori della ricerca – essa rappresenta «una realtà consolidata», non quantificabile con esattezza in quanto estranea alla rilevazione censuaria. Parlare di un milione o un milione e 200mila soggetti coinvolti significa pertanto proporre solo delle stime, mentre la crisi economica che porta a riscoprire la convenienza di determinati generi alimentari prodotti in proprio non potrà che incentivare la diffusione del fenomeno.
Cosa coltivano questi hobbisti? Ortaggi, in quasi il 90% dei casi. Frutta, nel 65%. Tre su dieci si dedicano anche alle vite, altrettanti all’ulivo. Quasi un metà di loro alleva polli o conigli, qualcuno il maiale. Interessante è poi notare che nella stragrande maggioranza (7 su 10) si professano consapevoli di svolgere un’azione a tutela dell’ambiente e del territorio, con ricadute positive per chi fa vita di città. La motivazione economica pura (la voglia di lucro, insomma) sembra essere del tutto assente. Non si coltiva per vendere, anche se nulla vieta di regalare il surplus agli amici o ai colleghi d’ufficio. Si vanga e si zappa, si semina e si raccoglie per l’autoconsumo familiare (61,9%), per stare all’aria aperta (61%), per risparmiare (24,9%).
Il quadro complessivo di questa agricoltura della domenica, sempre più gratificante, sempre più diffusa e in espansione anche qualitativa, amica dell’ambiente, protesa alla salvaguardia di certe colture di nicchia o a rischio di estinzione, fa da contraltare alla condizione critica in cui versa nel nostro Paese l’agricoltura professionale afflitta da mali endemici come la bassa produttività o la dimensione media delle imprese, 7,6 ettari contro i 54 del Regno Unito, i 52 della Francia, i 46 della Germania, i 24 della Spagna. Certo, nessun Paese europeo si è avvicinato alle estensioni ipotizzate dal piano Mansholt del 1968 (Sicco Mansholt, olandese, era all’epoca vicepresidente della Commissione) che prevedeva aziende di 80-120 ettari, con uno, massimo due addetti. Il piano è rimasto lettera morta, le proposte così ambiziose sono state in toto disattese e ritirate, ma l’agricoltura UE dagli albori della Pac ad oggi ha saputo camminare con le proprie gambe pur tra mille difficoltà. Solo l’Italia è rimasta al palo, tanto che il reddito reale per addetto è sceso tra il 2005 e il 2007 del 12,1 per cento mentre in Europa è cresciuto del 7,7. Intanto tra il 2000 e il 2009 i prezzi interni dei mezzi di produzione si sono impennati di quasi il 27%.
Un settore che la politica aveva sempre considerato alla stregua di comparto da sovvenzionare per tutelare l’occupazione e raggranellare consensi elettorali più che come ambito strategico dell’economia nazionale, sta forse per arrivare al punto di non ritorno. La concorrenza estera sempre più agguerrita farà il resto. Domani, chissà?, potremo gustare un frutto o una insalata autenticamente made in Italy solo se qualche agricoltore della domenica, uno di questi Robinson del 2000, ce ne farà graziosamente dono. A proposito, quel fazzoletto di terra che era dello zio... Sarà meglio andare a vedere.
«Avvenire» del 20 maggio 2010
Nessun commento:
Posta un commento