di Paolo Simoncelli
Prendiamo atto del proposito del ministero dei Beni culturali di porre rimedio ad una propria ineffabile 'Relazione storica' che, occupandosi per decreti e qualifiche del massacro a Porzûs dei partigiani cattolici della Osoppo, ne ha giustificato disinvoltamente gli autori (i partigiani comunisti della brigata Garibaldi Natisone). Il ministro, Sandro Bondi, ha chiesto che «sia revocato il provvedimento della direzione regionale del Friuli Venezia Giulia, in quanto le motivazioni storiche attraverso cui la Malga di Porzûs è stata riconosciuta come bene di interesse culturale non appaiono condivisibili», precisando inoltre che «vennero trucidati diciotto uomini della formazione Osoppo, formata da cattolici e azionisti, da parte dei partigiani comunisti delle Brigate Garibaldi». Un intervento obbligato dopo che 'Avvenire' ha indicato l’insostenibilità scientifica di quella 'Relazione', cui sono seguiti altri interventi (Dino Messina sul 'Corriere della Sera', Francesco Specchia su 'Libero').
Soddisfazione relativa e più che altro amara per la constatazione di come in Italia ministeri preposti a tali atti mostrino sciatteria, disinvoltura e faziosità. C’è però da prender quel po’ di utile che ne può conseguire per ampliare il discorso con qualche ulteriore considerazione. Intanto, nel merito della vicenda ricordiamo che la prima edizione (1946) delle memorie del leggendario comandante della Osoppo, Alvise Savorgnan di Brazzà ('Oberto'), 'Fazzoletto verde', scomparve subito dalla circolazione; un vero successo di pubblico ma tale da non lasciar memoria; si sarebbe dovuto attendere fino al ’98 per la nuova edizione che allora è stata espunta dalla bibliografia della ministerial 'Relazione storica'. Ma, attenzione, il 'Diario' di Francesco De Gregori ('Bolla'), primo fucilato a Porzûs, è stato edito privatamente dall’associazione Osoppo solo nel 2002; l’edizione è un cult da bibliofili. Vorrà dunque significare qualcosa questo sostanziale silenzio, queste sforbiciate sulla trasmissione delle memorie di una parte non 'allineata' a quella che ha strutturato la 'vulgata resistenziale', e che vede il contributo fazioso e – peggio – ipocrita di istituzioni qualificate alla salvaguardia almeno burocraticoformale dei luoghi e dei simboli della memoria. Il mio intervento su 'Avvenire' del 25 maggio si chiudeva facendo un minimo cenno, che ora ampliamo, all’ineffabilità della motivazione della medaglia d’oro a De Gregori: dopo aver combattuto alla fine del settembre ’44 nella zona montana del Torre-Natisone contro forze tedesche, «cadeva vittima di una situazione creata dal fascismo ed alimentata dall’oppressore tedesco in quel martoriato lembo d’Italia dove il comune spirito patriottico non sempre riusciva a fondere in un solo blocco le forze della Resistenza». La motivazione è del gennaio 1954. Allora già una prima lapide, sul luogo dell’eccidio, ricordava i caduti «soffocati nel sangue da fraterna mano assassina»; in una seconda, posta nel ’92 (visitata solo privatamente dall’allora capo dello Stato Francesco Cossiga dopo l’inaugurazione ufficiale), si legge che «i fatti di sangue qui compiuti ci ammoniscono che vanno rispettati in ogni comunità di qualunque popolo e la patria e la nazionalità».
Roba mazziniana. Non si vorrà ricordare davvero cosa sia successo a Porzûs! Da autorità pubbliche e istituzionali (vari ministeri competenti, istituzioni locali ecc.) non c’è da aspettarsi altro che funambolismi; le memorie dei protagonisti di quella tragica stagione non circolano; se qualcosa trapela da testimonianze e ricerche, i ministeri dispongono di burocrati pronti (anche con le forbici) a codificare l’opportunità dell’ipocrisia. Conclusione, siamo un Paese libero meno che dalla memoria.
Soddisfazione relativa e più che altro amara per la constatazione di come in Italia ministeri preposti a tali atti mostrino sciatteria, disinvoltura e faziosità. C’è però da prender quel po’ di utile che ne può conseguire per ampliare il discorso con qualche ulteriore considerazione. Intanto, nel merito della vicenda ricordiamo che la prima edizione (1946) delle memorie del leggendario comandante della Osoppo, Alvise Savorgnan di Brazzà ('Oberto'), 'Fazzoletto verde', scomparve subito dalla circolazione; un vero successo di pubblico ma tale da non lasciar memoria; si sarebbe dovuto attendere fino al ’98 per la nuova edizione che allora è stata espunta dalla bibliografia della ministerial 'Relazione storica'. Ma, attenzione, il 'Diario' di Francesco De Gregori ('Bolla'), primo fucilato a Porzûs, è stato edito privatamente dall’associazione Osoppo solo nel 2002; l’edizione è un cult da bibliofili. Vorrà dunque significare qualcosa questo sostanziale silenzio, queste sforbiciate sulla trasmissione delle memorie di una parte non 'allineata' a quella che ha strutturato la 'vulgata resistenziale', e che vede il contributo fazioso e – peggio – ipocrita di istituzioni qualificate alla salvaguardia almeno burocraticoformale dei luoghi e dei simboli della memoria. Il mio intervento su 'Avvenire' del 25 maggio si chiudeva facendo un minimo cenno, che ora ampliamo, all’ineffabilità della motivazione della medaglia d’oro a De Gregori: dopo aver combattuto alla fine del settembre ’44 nella zona montana del Torre-Natisone contro forze tedesche, «cadeva vittima di una situazione creata dal fascismo ed alimentata dall’oppressore tedesco in quel martoriato lembo d’Italia dove il comune spirito patriottico non sempre riusciva a fondere in un solo blocco le forze della Resistenza». La motivazione è del gennaio 1954. Allora già una prima lapide, sul luogo dell’eccidio, ricordava i caduti «soffocati nel sangue da fraterna mano assassina»; in una seconda, posta nel ’92 (visitata solo privatamente dall’allora capo dello Stato Francesco Cossiga dopo l’inaugurazione ufficiale), si legge che «i fatti di sangue qui compiuti ci ammoniscono che vanno rispettati in ogni comunità di qualunque popolo e la patria e la nazionalità».
Roba mazziniana. Non si vorrà ricordare davvero cosa sia successo a Porzûs! Da autorità pubbliche e istituzionali (vari ministeri competenti, istituzioni locali ecc.) non c’è da aspettarsi altro che funambolismi; le memorie dei protagonisti di quella tragica stagione non circolano; se qualcosa trapela da testimonianze e ricerche, i ministeri dispongono di burocrati pronti (anche con le forbici) a codificare l’opportunità dell’ipocrisia. Conclusione, siamo un Paese libero meno che dalla memoria.
«Avvenire» del 28 maggio 2010
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